Dalla trama alla musica
La regola che governa la memoria della propria vita, secondo la quale non si ricordano gli anni o i mesi, insomma il nesso delle vicende, ma gli attimi vissuti, alcune Scene Fondamentali, ovvero alcuni momenti di grande emozione, che formano una collana discontinua e a volte intricata anziché un percorso lineare – ecco, questa regola per me vale anche per i romanzi letti. Quando qualcuno mi chiede di raccontare un romanzo che vede nella mia libreria, mi accorgo che a fatica tratteggio in punti essenziali la cornice della storia, lasciandola per lo più aperta, mentre mi verrebbe voglia di spiegare – e non sarebbe facile – ciò che quel libro ha sedimentato in me: alcune scene, volti, situazioni, magari anche dettagli molto secondari eppure illuminanti, insomma una serie di atmosfere, di squarci su un mondo.
La trama per me è esattamente questo: una cornice. Quel che conta è lo stile, l’emozione complessiva che lascia, il sentimento di apertura verso una terza dimensione. L’inclinazione dello sguardo, non la cosa in sé.
Così, anche se il mio primo romanzo è stato apprezzato per l’intreccio dei destini dei vari personaggi (Tiziano Scarpa ne parlava in questi termini), il romanzo che sto scrivendo attualmente fa saltare del tutto la trama e si abbandona completamente alla musica dei pensieri. E’ nato così e così vuole essere scritto, non è una scelta, anche se mi sono imposto la disciplina di una scrittura costante, quotidiana, da quando ho intercettato l’onda iniziale di quella musica alla quale cerco ora di consegnarmi. Sto per questo cercando di non rileggermi, di liberarmi subito della materia (la storia) che inizia a tormentarmi: mi sveglio troppo presto già dentro a un flusso di parole che vogliono essere fissate sulla pagina. Ma, siccome sono abituato a rileggermi ossessivamente, a mettermi subito nei panni del lettore (scrittura e riscrittura, rifacimento e correzione sono quasi sempre per me connesse, nella consapevolezza che la forma non è data in partenza ma è una faticosa conquista, e l’atto stesso di scrivere non è gesto naturale, ma fatica di nascere), mi accorgo di prendere uno strano ritmo: scrivo mezza pagina o una pagina intera, poi rileggo (e qualcosa già risistemo) e procedo, cercando di restare fedele al ritmo o di variarlo in modo naturale. Flusso e riflusso: procedo così rileggendo-ritoccando l’ultimo lembo ancora fresco, e via, seguendo l’onda.
Nulla di speciale, forse, ma è una prassi per me nuova, perché la trama, intesa letteralmente come tessitura di fili diversi, in Tutte le voci chiedeva comunque un’attenzione particolare e permetteva di sviluppare alcune traiettorie in modo autonomo e parallelo (fino al miracolo della chiusura finale di ogni prospettiva aperta senza certezza di tenuta). Nel primo romanzo avevo scene e situazioni che mi si ponevano davanti come stelle di una costellazione di cui dovevo ricostruire il profilo, per renderlo lineare. Ora invece assecondo l’intrecciarsi libero di vari temi, anzi il loro autogenerarsi l’uno dall’altro, perché la materia della storia è compatta, tanto che il finale mi è chiarissimo fin dalla prima parola da cui tutto è nato e potrei già scriverlo, mentre invece so di doverlo attendere, sperando di essere in grado di intercettarlo al momento giusto.
Il che significa anche che non posso sapere, nemmeno vagamente, quanto dovrò scrivere.
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