Lo spavento di scoprirsi vivi
Stiamo tutti quanti attraversando mesi traumatici, o quantomeno faticosi. In merito alla pandemia si sono sollevati mille discorsi e, giustamente, tutti i pensatori cercano di progettare sé stessi e l’umanità oltre l’improvvisa capriola che la natura ha imposto alle nostre abitudini e ai nostri paradigmi globali. La crisi deve trasformarsi in un’occasione di rilancio. I più, ovviamente, guardano l’immediato in termini economici, gli innovatori più lungimiranti parlano in termini antropologici. Molti di questi discorsi sono interessanti e lucidi.
Resta di fatto che, al momento, siamo impantanati, soffocati da zaffate di tristezza. L’umanità è depressa, e ne ha ben donde.
Che fare?
Io ho di fronte, gran parte della giornata, ragazzini di undici, dodici, tredici anni. Alcuni (ancora per quanto?) ho la possibilità di incontrarli in aula e in cortile; altri, i più, dietro a uno schermo. Sono i più giovani arruolati nella più grande prova di solidarietà globale che la storia abbia mai sperimentato.
Costretti alla distanza, alla sottrazione dell’abbraccio, alla castrazione del gioco, alla negazione del volto intero.
Sono fanciulli o adolescenti che si troveranno decurtati di una porzione forse limitata ma qualitativamente fondamentale della loro formazione. Certo, ci auguriamo che la crisi sia propizia per un rilancio, e in seguito ci sia una spinta evolutiva che ricompensi le fatiche odierne. Ma, intanto, come curare le ferite, come compensare i volti ridotti a metà, questa umanità decurtata? Alcuni di loro hanno genitori con sintomi e rischiano di trovarsi segregati nelle loro stesse case. Percepiscono la presenza del nemico invisibile. L’ombra dell’angoscia si agita dietro di loro, e noi adulti la vediamo bene, e sappiamo che già bisbiglia alle loro orecchie parole per ora a volte incomprensibili, ma che cominciano ad avvelenare il loro sangue.
Temo che questa contingenza epocale si presti per un terribile rilancio della grande Angoscia, della Noia, del Male di Vivere che l’Occidente, con passo lento e inesorabile, ha intessuto epoca dopo epoca, da Sofocle a Leopardi, da Schopenhauer a Cioran, secondo l’orribile incremento esponenziale tipico dei contagi. Come poeta e come scrittore mi sono trovato a reagire istintivamente anzitutto a questo volto novecentesco, a questo vuoto pneumatico. Come uomo, faccio ora il poco che posso. Lavo via dal volto le fatiche ogni mattino, cerco di portare allegria, metto negli impegni da operaio e nelle alchimie da mago dell’apprendimento quel senso di avventura, quel vortice di leggerezza e di serietà che un po’ confonde e disorienta e un po’ invita a uscire allo scoperto.
È poco, è la mia parte.
E non c’è alcun eroismo sottinteso. Del resto, gli insegnanti nella nostra società non contano nulla, al netto degli slogan, delle frasi fatte, della retorica propagandistica. Per non parlare degli scrittori e, peggio ancora, dei poeti.
Così, paradossalmente, la mia speranza è che quest’epoca ci lasci una cicatrice tangibile, che il dolore abbia consistenza, che il virus diventi un incubo e mostri il suo volto, il suo ghigno. Così almeno si avrà un nemico da combattere, non un’ombra che ci accompagna e ci avvelena senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
Lo so, è terribile questo pensiero. Ma ha ragione Brullo:
“Un uomo che non tenda ai morti e non abbia mai meditato la propria morte, semplicemente, non può scrivere: perché la morte è tutto l’al di qua della vita”.
Rincarerei la dose: un uomo che non abbia guardato in faccia la morte non può sapere davvero di essere vivo. Ci serve questo spavento per svegliarci dagli incubi, per sentire il salto del cuore, per debellare il virus dell’accidia.
Se vogliamo recuperare il sorriso dobbiamo crescere in fretta, per non rischiare di indossare, in seguito, maschere ancora più subdole – illusi di credere a una felicità ipocrita.
Non è questione di ottimismo o di fede. Non è questione di filosofia o di scienza. È una questione di libertà e di responsabilità. È una scelta.
Forse la vita non ha senso.
Forse proprio per questo viviamo: per partecipare alla creazione e inventarlo noi, un senso.
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