"La rosa di qualcuno"

Tutto ha sede nel suo sterminio

Note leggendo la poesia di Francesca Serragnoli

“Si scrive per ritornare bambini, per disimparare la tecnica, il saper vivere”, ci avverte Francesca Serragnoli, al suo quarto libro di poesia: La quasi notte (MC edizioni).

“Il saper scrivere viene annientato dalla realtà, non serve a nulla. La rondine di cui si parla è morta, e se la rigiriamo con la tecnica, con le metafore piano piano si dissolve anche la sua stessa polvere”. Non c’è dunque bravura artistica o trucco letterario in grado di salvare la vita: “O ci si scava una fossa, decorando una piramide o si crede fermamente all’eternità e si parte per una terra nuova, promessa. Io su questo mi sento abbastanza radicale”.

Occorre ridimensionare la poesia stessa, dunque, perché la sua spinta ad andare oltre deve rispettare in tutto e per tutto il reale, pur sapendo che esso si estende oltre i confini del nostro sguardo e della nostra esperienza. La bellezza va riconosciuta entro questi limiti: non si crea.

Solo entro questo ridimensionamento e questo radicamento in una dimensione ulteriore la poesia può riscoprirsi gesto sacro. Non c’è più spazio per una moderna religione delle lettere, non c’è gloria entro cui proiettare simulacri di salvezza. Su questi temi non c’è ricamo letterario credibile.
Tornare bambini, del resto, significa non comprendere nemmeno la distinzione fra religione e poesia.
Così, può bastare uno sguardo per riscattare la vita, se questo sguardo è in sé poetico: “una divinità passeggera / che ha nei miei occhi / le sue candele”. Altrimenti, la vita precipita nella propria vanità: “Miseria delle storie non raccontate / l’ora davanti a cui / non potrai più inginocchiare niente”.

Provoco: poniamo l’esistenza di una poesia femminile, oggi. Scopriremmo entro un simile paradigma la peculiarità di questi versi: non c’è concessione per il misticismo del corpo o l’eros più scontato. C’è, semmai, una femminilità ascetica, materna: «Tutto nel mondo è piccolissimo / cade in terra come i bambini / ti guarda con occhi impietriti / un secondo prima di piangere. / Allargo le braccia / come una madre o come una croce”. La bellezza non è sinuosità incantatoria, ma un’idea precisa, brillante e dura.

«Tutto ha sede nel suo sterminio». La prossimità della fine è accensione dello sguardo poetico. L’attrito con la morte genera la bellezza, fa splendere questa vita, illumina ogni gesto, anche il più banale, perché lo cuce a un tempo – a un destino – più ampio. Per questo la poesia stessa va pestata, deve farsi polvere o lievito nella vita. Se viviamo poeticamente, scrivere o non scrivere non fa differenza: paradossale premessa perché la scrittura si componga dell’unica materia che può darle una forma, e che sgretola ogni pretesa di controllo formale: la vita stessa. Il senso non abita i versi. La luce della poesia brilla nel punto del suo stesso mancamento. Alternare, allora, silenzio e scrittura, verso e pagina bianca, è disciplina basilare per cucire insieme i margini della ferita in cui noi esseri umani siamo precipitati, la nostra stessa esperienza del reale: il qui che cerca l’altrove. La vita scorre su questa soglia – meglio: sanguina su questa lama.

Perché ciò abbia senso occorre che l’aldilà esista: altrimenti tutto torna a essere un gioco di prestigio. Se Montale giocava con la confusione fra vita e morte, qui la separatezza è il fondamento stesso di ogni incontro: al dramma blando si oppone la tragedia di una solitudine inscalfibile, nella convinzione che la vita non debba diventare una tomba da decorare, ma un limite da seguire fino in fondo alla muraglia, per così dire, anche quando si ammette la distanza intima e insieme abissale che separa l’attimo transeunte e l’eterno in cui è incastonato: «il bucato è fiamma / lino che separa i pianeti / sventola il gingillo di una catastrofe».

Dare vita e dare morte sono un unico movimento.
«L’eternità, madre di ogni lacerato addio / ci tiene per mano».
Altra provocazione: il fanciullino di Pascoli, sospeso nell’orrore di una culla sempre oscillante sul vuoto, si è fatto adulto, può rilanciare la scommessa di Pascal. L’infanzia accarezzata da Serragnoli non è scrigno di un candore che è inconsapevolezza, innocenza tradita. Nell’infanzia di questa poesia c’è già la sapienza di un destino (il «tonfo lieve») che non si congela in un rito assurdo, svuotato di senso, puro nostalgico reperto, ma torna a farsi umile, indefettibile sacramento.
Questo, mi sembra, è il segreto di una poesia che sfida sfacciatamente la modernità attraversandola e, nell’atto di superarla, recupera dall’orizzonte una luce di bellezza leggiadra e allo stesso tempo austera – medievale:

Quando ero bambina
aprivo la finestra
sporgevo
volevo essere la rosa di qualcuno.

Nell’incavo dell’occhio l’acqua
intingi il dito, dicevano
portalo alla fronte
il triciclo della croce.

Un giorno da questa finestra
cadrà la mia vita
un tonfo lieve di palpebre
la bocca aperta
come alla prima comunione.

 

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