Cristina Campo
Cristina Campo è figura di culto, misconosciuta ed eletta, nel nostro Novecento. Viene ciclicamente riscoperta e rilanciata, ma in definitiva la si consegna a una piccola nicchia, per quanto di prestigio. Ma è questa la dimensione che la stessa Vittoria Guerrini (così, infatti, all’anagrafe) aveva predisposto, lasciandoci solo un numero discreto di testi poetici o di saggi – lei che amava frequentare la letteratura in modo diretto, intimo, in particolare tramite la traduzione o lo scambio di lettere con molti interlocutori. Sentiva anzi la necessità di proteggere questo recinto sacro con rigore estremo, e quando proprio doveva infrangerlo ricorreva a diversi pseudonimi, per preservare comunque la solitudine e la concentrazione per lei fondamentali.
Avrebbe fatto di tutto per essere incluso anche Giorgio Anelli, tra gli interlocutori di Cristina. E, in effetti, ha provato a raggirare il tempo e a dialogare con lei, in particolare attraverso un esile e intenso libricino edito da Ladolfi editore: Cristina Campo. Catabasi nel destino.
Anelli non è un critico né pretende di maneggiare le armi della filologia. Anelli dialoga con gli autori prediletti come un fedele d’amore, vive dedito alla frequentazione dei suoi fantasmi letterari in modo ingenuo e assoluto, sfrontato e innamorato.
Alla cristallina bellezza di Cristina, che già tanti ammaliò in vita, sarebbe piaciuta questa dichiarazione d’amore fuori tempo.
Chi è infine il poeta? Colui che ha stile. E lo stile ha la perfezione di un fiore; come dire che questo fratello orfico che è il poeta, possiede uno sguardo irraggiungibile. Lo sguardo di chi sa penetrare la bellezza di un astro cadente, o osservare senza vergogna e ininterrottamente nuvole o laghi, in tutta la loro schiacciante presenza nell’arco indefinito del tempo.
Chi può dire di aver visto per davvero il volto di un poeta? Esso stesso è invisibile. È quello di un fantasma, talmente imperdonabile, come ogni riga del suo libro più intimo.
(Giorgio Anelli, Cristina Campo. Catabasi nel destino, Ladolfi editore 2021, p. 54
Chi è infine il poeta?
Oggi mi è arrivata una email, da una casa editrice, dicendomi che gli dispiace ma arrivano troppe raccolte di poesie, davvero troppe. Seguono anche ben tre punti esclamativi (che io non metto perché sono antiestetici).
Per carità, mi sono tirato subito indietro. Capisco. Scrivono tutti e tra questi tutti ci sono pure io, siamo a posto. Strano come molti si arrendano davanti a una matita, ancora di più davanti a un pianoforte, a un blocco di marmo etc., ma davanti alla poesia tutti vi si gettano a capofitto. Tonnellate e tonnellate di merda ai cui autori non puoi dire beo: durante le patetiche letture dei nostri latrati applaudiamo come foche per lo più indifferenti al testo appena ascoltato ma solo trepidanti del momento in cui toccherà a noi a leggere le nostre interiora, e allora sì che le cose cambieranno. Dopo, a fine serata ( quando c’erano) se ti chiedono un parere, guai a dire loro qualcosa, o a intavolare un discorso vagamente critico: alla fine arrivano a dire: “ma chi sei tu per criticare?” Oppure si appellano alla legge ormai granitica: “sono gusti” e con questo siamo tutti si sentono salvi, intoccabili, e poeti.
Dopo la morte di dio che ci aspettavamo?
Ma insomma: chi è infine il poeta?
Eccolo. Per capire chi è, dobbiamo accettare che oggi vicino a Paul Celan si trovano libri di un certo Gio Evan. E con vicino intendo nella stessa sezione: POESIA. C’è un bel da dire che è colpa del mercato. Leggiamo un suo testo che, sia detto per inciso, quando l’ho letto, in piedi, per la prima volta, sono tornato indietro con lo sguardo perché convinto vi fosse qualche errore tipografico, ma poi no, nessun errore, allora ho dovuto cercare conforto dal commesso della Feltrinelli e con il libro sotto ho domandato: “Mi scusi, ma sto leggendo bene?” …
La terra senza te
è solo rra
e la parola rra
da noi
non significa niente.
“Sì, sta leggendo bene.”
Di aneddoti simili ne avrei a palate. Purtroppo. Il pianoforte implica tecnica e lettura di un linguaggio diverso, il marmo forza e materia prima. Carta e matita sono a portata di mano. Bisogna tornare a far pesare le parole. Ci si può appellare al gusto solo da un certo punto in poi. Ma sono troppo pochi quelli che potrebbero capire, dovresti ogni volta ripartire da zero; grammatica, sintassi, lessico, metrica, contenuti, tradizione, innovazione, visione. I più li perdo già ai primi tre livelli, si difendono dietro a giustificazioni di poetica, e se ne vanno livorosi, guardandomi di sbieco.
Si scrive per altri occhi, che verranno in futuro. Se è dato.