Gladiatori nell'arena

Contro le prefazioni

Confesso che ho peccato. Non molto, ma con godimento pieno. Ho scritto anch’io una manciata di prefazioni (o postfazioni e roba simile) e ogniqualvolta mi si ripropone l’invito, la tentazione è forte e la carne resta debole. Ma mi sono ripromesso di non scriverne più.

Provo infatti avversione per questo genere di testi. La poesia deve presentarsi da sola, offrirsi nuda e cruda.

Soprattutto in caso di poeti contemporanei e di nuove sillogi – dal momento che per riproposte di opere già edite il discorso sarebbe diverso.

Un bel libro del critico Roberto Galaverni si intitolava giustappunto Dopo la poesia per significare come la critica, progressivamente propostasi come genere letterario tanto autonomo da fagocitare e subentrare all’opera stessa, avesse invece senso e potesse essere apprezzabile solo sulla spinta della poesia, che inevitabilmente la precede. Come un surfista, il critico raggiungerà risultati cospicui più sarà alta l’onda che potrà cavalcare. Se dunque la critica ha una grande responsabilità, quella di riconoscere e di additare le opere meritevoli, di farsi levatrice di talenti e di concorrere in questo modo al farsi di una tradizione letteraria, non può tuttavia creare feticci e idoli illusori, se non correndo il rischio di corrompere sé stessa e di precipitare in sé stessa, attorno al proprio centro vuoto. Dovrebbero ricordarselo anzitutto i poeti, che si illudono, invece, di trovare un buon padrino per il proprio battesimo, uno di quelli che ti accompagnerà e sosterrà per tutta la vita.

Certo, viviamo anni difficili e ciò che conta è il rumore generato intorno all’opera. E rarissime sono le occasioni in cui un critico passa al setaccio le (troppe) pubblicazioni in versi, così i poeti pensano bene di aggiungere al loro libro l’optional più ambito: il discorso autorevole di qualche accademico o di qualche presunta firma prestigiosa nel sottobosco letterario – e spesso una pacca sulla spalla non si nega a nessuno, anche perché fa comodo, torna utile anche a loro, potrebbe scapparci per esempio qualche copia in più del libro appena uscito da un editore di livello o qualche soldino in una soirée letteraria di provincia. E il nome deve continua a circolare, per restare a galla.

Ve li immaginate, tutti questi atleti che entrano nell’arena a combattere e, invece di armi vere e snelle corazze, si aggrappano a ingombranti trofei di latta e di cartone, nel goffo tentativo di impressionare, più che gli avversari, il pubblico? Che triste e ridicolo spettacolo, la letteratura contemporanea che sgomita ai margini dei grandi e acclamati palcoscenici (che restano acclamati, finché potranno, per pura inerzia, tra l’altro).

Siamo sempre qui, di fronte al problema della meritocrazia e all’ansia del tempo che si vuole galantuomo – per chi dà ancora credito ai proverbi, pur di trovare consolazione.

Eppure, quando si ha davvero qualcosa di importante da dire – qualcosa di decisivo – non si alza la voce. Si aspetta con pazienza il momento giusto, l’interlocutore giusto, ci si schiarisce la voce, e si parla. Sottovoce.

La poesia è un bisbiglio che mina le fondamenta dei mercati letterari, dei venditori ambulanti di gloria, delle fiere delle misere vanità che ci circondano e ci confondono.

La poesia chiede tempo e silenzio. Oggi più che mai, è impresentabile, scandalosamente inerme.

Questa è la sua stessa disarmante violenza.

 

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