Il lettore ingordo

CONSIDERAZIONI PER IL LETTORE INGORDO (sulla scorta di Bernhard, Nabokov e Brodskij)

Ho accumulato sui miei scaffali più volumi di quelli che riuscirò a leggere nei prossimi trent’anni e, per quanto la decisione di non lasciarmi più sedurre da altri titoli sia irrevocabile, le eccezioni ci saranno sempre – non foss’altro che per libri necessari per scuola, per quelli ricevuti gratuitamente, per quelli procacciati dai miei figli o da mia moglie e, naturalmente, per le occasioni imperdibili scovate su qualche bancarella.
E dire che sto riuscendo a tenere un buon ritmo di lettura. Solo quest’anno, e solo relativamente alla narrativa, ho letto fino ad ora 39 titoli (me li sono annotati, questa volta). Con la saggistica, arriverei almeno a 50, a occhio e croce.Ciononostante, neanche con questo ritmo riuscirei nell’impresa di conquistare interamente la mia biblioteca prima di raggiungere (a dio piacendo) gli ottant’anni. Poco male, dall’angoscia sono passato al dispiacere, e mi sto muovendo ormai verso una saggia, serena, sfiziosa pianificazione, anche qui consapevole che il capriccio e l’urgenza del momento (magari per qualche stimolo derivante dalla scrittura) prevaricheranno di tanto in tanto sul metodo.
Un suggerimento metodologico mi è comunque venuto proprio da un romanzo terminato qualche settimana fa: Antichi maestri, di Thomas Bernhard. Forse potrei diventare anch’io, come il protagonista dell’opera, uno sfogliatore di libri:

Sono anni ormai che a casa non leggo più un libro, mentre qui nella Sala Bordone ho già letto centinaia di libri, il che non significa però che qui nella Sala Bordone io abbia letto da cima a fondo tutti questi libri, io in vita mia non ho mai letto un solo libro da cima a fondo, il mio modo di leggere è quello di uno sfogliatore di grande talento, cioè di un uomo che preferisce sfogliare piuttosto che leggere, e che perciò sfoglia dozzine, qualche volta centinaia di pagine, prima di leggerne una; ma quando quest’uomo legge una pagina, la legge con una profondità ineguagliabile e con la più intensa passione per la lettura che si possa immaginare. Lei deve sapere che io, più che un lettore, sono uno sfogliatore, che amo lo sfogliare non meno del leggere, che nella mia vita ho sfogliato milioni di pagine in più di quante ne abbia lette, ma che sfogliando ho sempre provato una gioia e un piacere intellettuale pari, se non superiori, a quelli che ho provato leggendo. È senz’altro meglio, di un libro di quattrocento pagine, leggere solamente tre pagine, ma leggerle in profondità, mille volte più in profondità di come le legge il lettore normale, che legge tutto, ma neanche una pagina, diceva, la legge in profondità. È meglio leggere dodici righe di un libro con la massima intensità e penetrarne, possiamo dire, il senso profondo, piuttosto che leggere tutto il libro come il lettore normale, che alla fine conosce il libro che ha letto come uno che viaggia in aereo conosce il paesaggio che sorvola. Non ne percepisce neppure i contorni. Così oggi tutti quanti leggono ogni cosa a vol d’uccello, leggono tutto e non conoscono niente. Io entro in un libro e ad esso mi abbandono anima e corpo, cerchi di immaginare, mi abbandono a una pagina o due di un’opera filosofica come se stessi entrando in un paesaggio, nella natura, in un edificio solenne, in un dettaglio del globo, se vuole, come per penetrare completamente questo dettaglio del globo non con la metà delle mie forze e del mio ardore, bensì per indagarlo a fondo, e poi, una volta indagatolo in ogni dettaglio, trarne ogni possibile conclusione con la massima profondità di cui sono capace. Chi legge tutto non ha capito niente, diceva. Non è necessario leggere tutto Goethe, neppure Kant è necessario leggerlo tutto, e neppure Schopenhauer; qualche pagina del Werther, qualche pagina delle Affinità elettive, e alla fine di questi due libri ne sappiamo di più che dopo averli letti dalla prima pagina all’ultima, ciò che comunque ci priverebbe del più puro piacere della lettura. Ma per imporsi questa drastica autolimitazione sono necessari un tale coraggio e una tale forza d’animo che solo assai di rado ci si può riuscire e che persino noi ci riusciamo solo raramente; come il divoratore di carne, l’uomo che legge è di una voracità assolutamente rivoltante, e se il divoratore di carne si rovina lo stomaco e la salute nel suo insieme, lui, l’uomo che legge, si rovina la mente e l’intera esistenza intellettuale. Perfino un saggio di filosofia riusciamo a capirlo meglio se non lo divoriamo in un solo boccone ma ne spilucchiamo un dettaglio, dal quale poi, se la fortuna ci assiste, risaliamo al tutto. Il piacere più grande ce lo danno i frammenti, e non a caso nella vita proviamo il più grande piacere quando la vita stessa ci appare come un frammento, e come il tutto è per noi raccapricciante, com’è orribile, in fondo, la perfezione di tutto ciò che è compiuto. Solo quando, leggendolo, ci riesce di trasformare un tutto, una cosa finita, compiuta, in un frammento, solo allora ne traiamo grande diletto, a volte addirittura un diletto grandissimo.

E tuttavia, lo confesso, io non possiedo la forza morale per diventar uno sfogliatore di libri. La mia indole è ben diversa. Io sono un lettore che difficilmente abbandona un testo. Quando un romanzo o un saggio o un libro di poesia non mi soddisfano, mi impongo comunque di arrivare in fondo. E sono consapevole di trangugiare, in questo modo, una quantità spropositata di pagine mediocri – ma, ecco, il mio riscatto arriva in un secondo tempo, quando, anche a distanza di mesi o di anni, mi scopro a ruminare sensazioni, parole, frasi, immagini che qualche strano processo naturale del mio corpo mi ripropone. E mi fido di questo processo autonomo, mi lascio guidare da esso per giungere, quindi, alla rilettura di un testo.
La rilettura, infatti, è l’unico vero processo che interessa al buon lettore, come spiega bene Nabokov (Buoni lettori e bravi scrittori, in Lezioni di letteratura):

Infatti, strano a dirsi, non si legge un libro: un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore, e vi spiego perché: quando leggiamo un libro per la prima volta, l’operazione stessa di muovere faticosamente gli occhi da sinistra a destra, una riga dopo l’altra, una pagina dopo l’altra, questo complesso lavorio fisico sul libro, il processo stesso di apprendere, in termini di tempo e spazio, di cosa esso tratti, è un ostacolo tra noi e il godimento artistico. Quando guardiamo un dipinto non dobbiamo muovere gli occhi in nessun modo particolare nonostante esso contenga, come nel caso di un libro, elementi di profondità e di sviluppo. Nel primo contatto col quadro, l’elemento tempo non ha un ruolo importante, mentre leggere un libro richiede del tempo per familiarizzare con esso. Non abbiamo un organo fisico (qual è l’occhio nel caso dei dipinti) che recepisca subito la visione globale per soffermarsi, in seguito, sui particolari; è solo a una seconda, terza, o quarta lettura che davanti al libro, in un certo senso, ci comportiamo come davanti a un dipinto. Non confondiamo però l’occhio fisico, quel portentoso capolavoro dell’evoluzione, con la mente, una conquista ancor più portentosa. Un libro, di qualunque genere esso sia – opera di narrativa o opera scientifica (il confine fra i due non è netto come generalmente si crede) –, interessa per prima cosa la mente. La mente, il cervello, il vertice della spina dorsale percorsa da un fremito è, dovrebbe essere, l’unico strumento usato sul libro.
Stabilito questo, riflettiamo su come lavora la mente quando il lettore cupo si trova davanti un libro radioso: per prima cosa, l’umore tetro si dissolve e bene o male il lettore entra nello spirito del gioco. Lo sforzo di iniziare un libro, soprattutto se decantato da persone che il giovane lettore in cuor suo considera troppo codine o troppo serie, è spesso arduo; ma una volta fatto il passo, si viene ricompensati abbondantemente e in vari modi. Dato che nel creare il libro il grande artista ha usato la sua immaginazione, è naturale che colui che ne fruisce usi a sua volta la propria.
Ora, nel caso del lettore ci sono almeno due tipi di immaginazione; vediamo quale dei due è corretto usare nel leggere un libro. Anzitutto, c’è l’immaginazione relativamente modesta che cerca supporto nelle emozioni semplici ed è di natura strettamente individuale (esistono diverse sottovarietà di questo primo tipo di lettura emotiva): ci sentiamo intensamente toccati da una situazione descritta in un libro perché ci ricorda qualcosa che è accaduto a noi o qualcuno che conosciamo o conoscevamo; oppure, ci piace molto un libro perché ci richiama alla memoria un paese, un modo di vivere, un paesaggio che appartiene al nostro passato e che ricordiamo con nostalgia; o ancora, e questa è la cosa peggiore che possiamo fare, ci identifichiamo con un personaggio del libro. Non è questo tipo più modesto di immaginazione che vorrei veder usare dal lettore.
Qual è allora lo strumento autentico di cui egli dovrebbe valersi? È l’immaginazione impersonale e il godimento artistico. Ritengo che si dovrebbe cercare di instaurare un equilibrio artistico armonioso tra la mente del lettore e quella dell’autore; che dovremmo sforzarci di mantenere un certo distacco, e apprezzare questo distacco, e al contempo gustare avidamente, gustare con passione, gustare con lacrime e brividi, la tessitura interna di un determinato capolavoro. Certo, quando questo avviene, è impossibile rimanere davvero obiettivi, perché ciò a cui si attribuisce valore è, in una certa misura, soggettivo. Per esempio, il fatto che siate seduti davanti a me potrebbe essere per me un sogno, e per voi un incubo. Ecco, quello che voglio dire è che il lettore deve sapere quando e a che punto frenare la propria immaginazione, e per riuscirci deve sforzarsi di avere ben chiaro il mondo particolare che l’autore gli pone davanti. Dobbiamo vedere e udire le cose, dobbiamo visualizzare le stanze, gli abiti, i comportamenti delle persone create dal narratore. Il colore degli occhi di Fanny Price in Mansfield Park e la mobilia della sua fredda stanzetta sono importanti.
Tutti noi abbiamo temperamenti diversi, e vi dico subito che il temperamento migliore che un lettore possa avere, o sviluppare, è una combinazione di temperamento artistico e temperamento scientifico. L’artista entusiasta tende ad avere un atteggiamento troppo soggettivo nei riguardi del libro, mentre una freddezza di giudizio scientifica attenuerà il calore dell’intuizione. In ogni caso, se l’aspirante lettore manca di passione e pazienza – la passione dell’artista e la pazienza dello scienziato – difficilmente saprà trarre piacere dalla grande letteratura.

Nabokov viaggia indubbiamente ad altezze vertiginose e spinge il lettore verso il vero godimento estetico. «Ho cercato», scrive accomiatandosi dalle sue Lezioni, «di farvi diventare buoni lettori che leggono i libri non con lo scopo infantile di identificarsi con qualche personaggio, e non con lo scopo adolescenziale di imparare a vivere, e non con lo scopo accademico di indulgere alle generalizzazioni. Ho cercato di insegnarvi a leggere i libri per la loro forma, la loro potenza evocativa, la loro arte. Ho cercato di insegnarvi a provare un brivido di soddisfazione artistica, a condividere non le emozioni dei personaggi, ma quelle dell’autore: le gioie e le difficoltà del creare».
Ma tutto questo complica notevolmente la faccenda: se trent’anni non mi basteranno per leggere tutto, figuriamoci quanti me ne serviranno per rileggere!
Eppure, dai, non c’è più angoscia, come dicevo, ma quasi divertimento e un senso di libertà crescente. I limiti e le scelte fanno parte di qualsiasi percorso.
Però in questi giorni mi sono messo alla prova e ho cercato di alleggerire qualche scaffale. E confesso di aver trovato e sperimentato su tre libri la tecnica dello sfogliatore. Risultato: questi tre romanzi sono stati spostati in un’altra stanza, fra i libri archiviati. No, non sono entrati nel novero dei libri letti (qui conto solo quelli letti da cima a fondo: perdonami, mastro Bernhard!), ma nell’elenco di quelli che probabilmente non leggerò mai, di quelli che mi basta aver sfogliato. Di che libri si tratta?

  • Cose che nessuno sa, di Alessandro D’Avenia
  • Brucia la città, di Giuseppe Culicchia
  • La vita schifa, di Rosario Palazzolo.

I primi due, sono giunti nella mia libreria a mia insaputa. Il primo credo sia l’acquisto di uno dei miei figli, su suggerimento di qualche collega del liceo. Il secondo deve essere una copia proposta a qualche premio letterario e poi rotolata nella redazione di Atelier. Il terzo è l’unico mio acquisto, sulla spinta di qualche indizio, di qualche rimbalzo di impressioni a cui ho dato credito.
Cose che nessuno sa mi è parso subito un libro didascalico, un piatto generico da servire in qualche mensa scolastica. Impiattato discretamente, magari, ma senza sapore, malgrado tutti gli ingredienti sostanziosi che il risvolto di copertina ostentava: la protagonista quattordicenne abbandonata dal padre proprio mentre inizia l’avventura del liceo… il giovane professore che “insegna le pulsazioni della vita nelle pagine dei libri”… il ragazzo misterioso… Insomma, proprio tutto quanto serve per rimasticare il polpettone dei nostri tempi: l’adolescenza, le crisi familiari, la scuola, la (grande) letteratura, e via discorrendo. Lo confesso: mi sentivo sazio già dopo la lettura del menù – ops, del risvolto di copertina. Ma ho tastato qualche pagina, ho spiluccato, ho scelto campioni da punti ben distanziati del libro, cercando con un rapido sguardo i momenti salienti delle pagine aperte. Ma, secondo me, c’è già tutto nel Prologo. Sì, ho proprio la sensazione che il suggerimento di Bernhard in questo caso sia perfetto. Basta leggere quelle cinque paginette per aver saggiato la qualità dell’opera intera.
D’Avenia: l’Eros Ramazzotti della nostra narrativa.
Per quanto riguarda il romanzo di Culicchia, la campionatura è stata ancora più rapida. Il linguaggio è (volutamente) la mimesi del mondo giovanile (ma il libro è del 2009) di cui si vuole offrire un vivo spaccato – tanto vivo da essere documentaristico. Un’altra deliberata rappresentazione del già noto, piuttosto che uno sprofondamento nell’immaginazione.
Già, ma magari la trama sarà splendida, mi si dirà… E allora rileggetevi Nabokov. Perché se vi interessa la trama, vi basteranno le serie tv, risponderei.
Tra i tre, il più interessante alla fine mi è sembrato effettivamente quello di Rosario Palazzolo. C’è più struttura, c’è un certo lavoro sulla lingua (niente di eccezionale, eh, siamo poco più su della mimesi, grazie a screziature vernacolari e sperimentali), insomma ci sono i presupposti per una promessa di musicalità – ma che resta una promessa, alla prova dell’attrito della pagina. Così, al momento anche questo titolo è stato accantonato.
Ma come posso fidarmi di queste impressioni personali?
Basterebbe rispondere che ogni lettore gode di una sovrana libertà.
Io, però, mi riconosco il privilegio di essere (stato) anzitutto un lettore di poesia. Ho seguito, dunque, del tutto fortuitamente, l’aureo suggerimento di Brodskij (Come leggere un libro, in Profilo di Clio):

il modo di sviluppare il buon gusto in letteratura è leggere poesia. Se pensate che stia parlando per partigianeria professionale, che stia cercando di portare avanti gli interessi della mia corporazione, vi sbagliate: non sono un sindacalista. Il fatto è che, rappresentando la forma suprema di locuzione umana, la poesia non è solo il modo più conciso, più denso di trasmettere l’esperienza umana: essa offre anche gli standard più elevati per ogni operazione linguistica – specie sulla carta.
Più si legge poesia, meno si tollera ogni sorta di verbosità, nei discorsi politici o filosofici come nella storia, nella sociologia, o nell’arte della prosa. Il bello stile in prosa è sempre ostaggio della precisione, rapidità e intensità laconica del dettato poetico. Figlia dell’epitaffio e dell’epigramma, concepiti, sembra, come scorciatoie per ogni soggetto immaginabile, la poesia rappresenta la grande disciplina della prosa. Le insegna non solo il valore di ogni parola ma anche gli schemi mentali mercuriali della specie, le alternative alla composizione lineare, il trucco di omettere l’ovvio, l’insistenza sul dettaglio, la tecnica dell’anticlimax. Soprattutto, la poesia sviluppa nella prosa quell’appetito per la metafisica che distingue un’opera d’arte dalle semplici belles lettres. Occorre ammettere, però, che su questo punto particolare la prosa si è dimostrata un’allieva alquanto pigra.
Vi prego, non fraintendetemi: non sto cercando di screditare la prosa. L’essenza della questione sta nel fatto che la poesia è semplicemente più antica della prosa e quindi ha coperto una distanza maggiore. La letteratura ha avuto inizio con la poesia, con il canto di un nomade che precede gli scarabocchi di uno stanziale. E anche se da qualche parte ho paragonato la differenza tra la poesia e la prosa a quella tra l’aviazione e la fanteria, il mio suggerimento attuale non ha niente a che vedere con la gerarchia o le origini antropologiche della letteratura. Sto solo cercando di essere pratico e risparmiare ai vostri occhi e alle cellule del vostro cervello un mucchio di inutile roba stampata. La poesia, verrebbe da dire, è stata inventata appunto per questo: in quanto è sinonimo di economia. Quello che si dovrebbe fare, quindi, è ricapitolare, anche se in miniatura, il processo che ha avuto luogo nella nostra civiltà durante due millenni. È più facile di quanto si possa pensare, perché il corpo della poesia è molto meno voluminoso di quello della prosa. C’è di più: se siete interessati soprattutto alla letteratura contemporanea, allora il lavoro che avete di fronte è un gioco da ragazzi. Tutto quello che dovete dare è armarvi, per un paio di mesi, delle opere di poeti scritte nella vostra lingua madre, preferibilmente della prima metà del Novecento. Penso che vi ritroverete tra le mani una dozzina di libri piuttosto smilzi, ed entro la fine dell’estate sarete in gran forma.

A dire il vero, non penso che il compito sia così semplice. Diventare buoni lettori di poesia richiede tempo e pazienza. Ammettiamolo: occorre studio. Ma stringi stringi il bivio è questo, per chi vuole ottimizzare la propria vita di lettore: o ci si applica per mesi e mesi (anni?) per diventare esperti di lettura rapida, finendo comunque per ingurgitare qualunque testo, o si diventa prima lettori di poesia, e quindi esperti, astuti valutatori dei libri giusti da gustare lentamente.
E, siccome di capolavori imprescindibili ne abbiamo già accumulati migliaia, nel corso della nostra civiltà, consiglio infine di diffidare delle nuove proposte. Sfogliatele in libreria, scettici, per quanto desiderosi di scoprire qualcosa di nuovo e di contemporaneo. Ma, nel dubbio, desistete dall’acquisto. Al peggio, ritroverete quel libro fra i volumi usati, tra qualche anno, a un prezzo ridicolo. Oppure resterà un titolo introvabile da cercare, di bancarella in bancarella.
Il lettore ingordo ha bisogno anche di questo, no? Della speranza di riconoscere il suo misconosciuto capolavoro, di trovare la perla fra gli scarti.

2 commenti
  1. massimiliano
    massimiliano dice:

    Io invece non sono un lettore vorace, fatico a leggere, ne leggo pochi; alcuni me li scelgo fin troppo difficili per me.
    Ma amo i libri, li amo come amo i pezzi del corpo delle donne, in modo feticistico, in modo maschile. Per questo ne compro di continuo. Però non sono nemmeno un collezionista perché le mie copie non valgono assolutamente nulla. Desidero solo quel libro, per il titolo, per la quarta, per l’immagine, perché me ne ha parlato un amico, perché ne ho sentito parlare da un gruppo del quale vorrei far parte. E quando ce l’ho non sempre lo leggo, anzi raramente, e ancora più raramente arrivo in fondo. Quando so che è mio ne vorrei un altro e mi pento per quello che non ho preso, per quello che ho lasciato.

    A volte mi commuovo in libreria. Con tanto di lacrime. Sul serio. Mi siedo su quegli sgabelli in cima ai quali le commesse salgono e diventano statue. Mi abbasso e di colpo ed è come se andassi sotto l’acqua, immerso nel fondo degli scaffali. E i rumori arrivano ovattati e i libri cominciano come a sussurrare: le parole dei titoli prendono a unirsi gli uni agli altri. Le figure a fondersi. L’odore della carta frasca di stampa e delle vernici trasparenti sulle copertine mi dà alla testa. Poi i ricordi, i falsi ricordi, i ricordi dei ricordi…le promesse di storie che non leggerò mai anche per non esserne deluso, per non sapere quel che i personaggi ancora non sanno, per non provare la certezza di sapere che loro moriranno e poi tutta la vertigine di quella conoscenza umana e scientifica…sapere tutto e non sapere niente…Un giorno ero da Feltrinelli, seduto su uno sgabello. Sento il venditore di libri ( di cui fino a quel momento non conoscevo l’esistenza ) o il rappresentante, o l’agente, o come si chiama, che cercava di fare riassunti mandati a memoria riguardo alle novità editoriali, delle sorte di trailer, così come un venditore di aspira polveri declama alla signora le magie di questo o quel modello. Parla di trame, di numeri di vendita, di classifiche, brevi ed efficaci formule per identificare varie tipologie di uomini destinati al mercato degli schiavi. Lo intravedo e ha come una borsa da dottore, quelle di pelle morbide e un pò sgonfie che fanno venire fame. La responsabile chiede e ascolta attenta e intanto maneggia un volume. Poi forse ordina o forse no, ma ecco che mi commuovo. Guardo i libri chiusi da cui sono circondato e mi sento come loro. Mi sento con la paura di restare chiuso, con la paura di essere aperto.

    Rispondi

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *