Davide e Golia di Tanzio da Varallo

I Salmi di Davide

L’uscita di una nuova traduzione del libro dei Salmi meriterebbe a priori una lunga riflessione. E se la letteratura italiana esistesse ancora, se una tradizione vivente di scrittori non fosse soltanto un equivoco ectoplasmatico generato dai mass media ma un’entità reale, una comunità ideale o semplicemente, ditelo come vi pare, una serie di individui corresponsabili della loro passione, la pubblicazione di una nuova versione dei Salmi a opera di uno dei poeti più esorbitanti e uno degli intellettuali più liberi e intransigenti scatenerebbe stupore, ammirazione, ira, indignazione, invidia, gioia. E invece siamo qui tra noi, primi uomini fluttuanti oltre la galassia ormai esplosa, a centellinare informazioni lampeggiando nel vuoto siderale qualche barbaglio di luce, per dirci che, attendendo il giorno in cui. E non per noi, ma per l’oggetto magico che rigiriamo tra le mani, primitivi con l’iPhone tra i pollici.

Davide caro, che osi sovrapporre il tuo talento a quello del Davide salmista, mastica per me con sapienza qualche domanda banale. Anzitutto, perché questa fedele frequentazione del Testo Sacro, accanto (o al centro, o in qualche altro snodo strategico, spiegalo tu) alla poesia di tutte le latitudini? Che senso ha oggi questo Grande Codice (rimosso?) dentro la bibbia incodificabile della letteratura mondiale?

La verità, come sempre, non è sacra ma biografica, frugale, futile ai fini di una qualche storia della letteratura. La biblioteca di mio padre rigurgitava libri astrusi, anomali, magnetici, che avrei letto molto più tardi. Mio padre frequentava i Valdesi, all’epoca; era stato in una comunità di Lanza del Vasto, da ragazzo aveva viaggiato fino al Pakistan, alla ricerca dell’oro d’Oriente. Nell’unica lettera che di lui posseggo, indirizzata “A Davide Brullo”, come se il figlio fosse un estraneo – e ne rabbrividisco –, mi scrive, tra l’altro, che i preti “sono molto lontani dalla divinità”. Avevo nove anni. Mi avevano appena battezzato. Mio padre, alla cerimonia, non c’era. A quell’età, semplicemente, mi affascinava la storia del re Davide, il ragazzo che suona la cetra e arma la fionda, che ama in modo dissennato, è un peccatore capitale, tradisce e mozza la testa al gigante. Lo stare tra la norma e l’anormale, tra il divino e l’animalesco di quel ragazzo mi ha sedotto – insomma, la Bibbia è stata un’avventura.

Non si traduce la Bibbia per trovare Dio o per deforestare il vero: nel mio caso, mi accanisco lì per edificare una genealogia, costruire generazioni inedite e inaudite, per poi sbriciolarle, vedere un padre che ti costruisce la casa sull’albero, e abitare lì, soggiogati al decalogo delle piogge.

Di quale pantera hai seguito le tracce, che lingue hai braccato per questa tua versione? Gli Scanni, primo specimen di questa materia, mordeva l’osso del testo masoretico con furia giocosa, sperimentale, non disdegnando il pastiche linguistico (con inserimenti in particolare dal latino della vulgata, ma screziature derivate anche dalla lingua del Belli, di Albino Pierro, di San Giovanni della Croce), mentre ora qui offri un testo anche visivamente più composto, sebbene sempre ripido e ricco di trappole e scoscendimenti.

La lingua è una forma di difesa – o un assalto. Se fossi puro, se sapessi veramente chi sono, i Salmi sarebbero un canto, un suono, esatta sconfitta del respiro. Ne sarei soffocato – e dovrei correre a quattro zampe nei boschi, deviando dall’astrolabio della preghiera e del monastero. Occorrerebbe lallare, balbettare, sbandare di labbra, conoscere la lingua dei ragni e dei rospi, incastonare Eden in Babele… invece, sono ancora a fare le capriole verbali, perché qualcuno riconosca questo basso talento, una svendita dell’infanzia. D’altronde, il bello è che i Salmi – al di là del verbo e del regno grammaticale – esistono se qualcuno li intona, li smuove in inno: a quel punto, il legame è dato, cartilagine d’angelo; il punto, semmai, è l’evasione dal letterario. No, la Bibbia non è un libro come un altro – nessun grande libro è come un altro –: getta foreste dentro la finestra della cucina, spalanca l’Oreb sul comodino.

Questa prova può essere un’occasione per ricordare il tuo viaggio intellettuale. Che cosa ha studiato l’attuale interprete delle preghiere di Davide, quali traiettorie letterarie ha seguito, in particolare?

 L’unico insegnamento è cercare di distruggersi. Sono un autentico ignorante, un avvoltoio che si pensa falco, e si nutre di verbi morti, di libri moribondi. Come chi cava gli occhi ai cadaveri, perché non trovino rinascita in questo mondo, in questo tempo. Divoro le vite degli altri, come un vampiro. In modo disordinato, per una forma di azzurra consolazione, torno a Saint-John Perse e a René Char, leggo Eschilo e Lev Šestov, Pascal e Pasternak, Cormac McCarthy e Saigyo; ma è tutto come lasciare la propria impronta digitale su una pozzanghera. Da ragazzo, un maestro, Remo Cacitti – che, ho scoperto molto più tardi, insegnava a San Vittore e fu amico di Enzo Fontana, scrittore di talento incappato, neanche maggiorenne, nei Gruppi d’Azione Partigiana guidati da Giangiacomo Feltrinelli, quindi in carcere, in seguito all’esito tragico di un conflitto armato – mi inoltrò nei misteri della glossolalia. A proposito, è importante ricordare che San Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, cita la “traduzione delle lingue” tra i carismi. Tradurre, ecco, è un dono, fatto improprio, di Dio. Divergere dal verbo, quindi, un compito.

In quanto scrittore che si cimenta nell’interpretazione dei Salmi e non solo, ma in lungo e in largo dell’Antico Testamento, vengono in mente (solenne ovvietà) i nomi di Ceronetti e di De Luca, fra gli altri. Cogli analogie o differenze significative, oltre al mero dato oggettivo, rispetto alla ricerca di questi autori? Non ti chiedo ovviamente il posizionamento letterario, la gestione della fama. Ti chiedo se hai sentore della fame altrui, per meglio cogliere la tua.

Di tutti, in questa transumanza di tradimenti sono l’ultimo – mi stupisce che non sia nata, piuttosto, una tradizione della traduzione biblica, instupidita e folle: come fai a capire che lingua hai se non ti inerpichi sul Golgota della Bibbia?, vicende di attesa, di atletismo, attuare l’ascesa, cioè il crollo di sé… ah, tradurre fino a notte, con l’erba in bocca, mentre le falene ti scaraventano nel regno effimero, torturati da una lampada che ha il volto di Elia… Ovviamente, ho amato molto le traduzioni di Ceronetti, ho letto quelle di Emilio Villa e di Bontempelli, mi è parso che il passo preso da De Luca quasi subito si sia mutato in posa, in tono grigio, muratura poco celeste, mediocre, sinagoga dell’ovvio. Ho studiato la tua traduzione del Cantico, la Genesi e l’Esodo nella versione di Gian Ruggero Manzoni; un amico, Leonardo Bonetti, ha tradotto in musica il libro di Daniele. Più di una volta ho progettato la traduzione della Bibbia, libro per libro, compiuta da poeti, scrittori, botanici, passanti, montanari, alieni a ogni lingua e a ogni trigonometria della traduzione… Forse la pratica è amare il destino anonimo.

Sarebbe il caso, ora, di girare meno intorno al problema – il testo. Ma non è ovviamente possibile chiederti ragione di ogni scelta e apporre una nostra Selah per aprire un varco nel segreto sorgivo del canto. Ti chiedo però ragione della tua lingua più sintetica, refrattaria e porosa, che riduce all’osso le parole, le rende meno accessibili sull’onda di una melodia se non rigettata del tutto, almeno franta, intonata più sull’ululato che sulla preghiera, come tu stesso annunci.

Bisognerebbe saper arare, cioè spaccare il vocabolario a metà perché nasca la parola nuova, e capire quale costituzione impongono le stelle. Aprire la parola della terra come si separarono i mari alla voce del balbuziente; le lingue si separarono costruendo una torre – Babele è specchio contrario del Labirinto, entrambi luoghi dove ci si perde: nel mito cretese, però, il logos si contraddice in grugnito, il dio in bestia carnivora, mostro rifiutato, cornuto arcano – e si coagulano nell’innenì nuziale di Abramo, l’eccomi che sutura la Storia al torso di Dio, ammissione che sa di assassinio, obbedienza al sangue. D’altronde, ogni lingua è fraintesa in testo sacro – o piagata dagli indicibili –: Gesù è irriconosciuto, e quando lo fanno irriconoscibile, che penzola dalla Croce, c’è chi lo prende per Elia, per un profeta, per un mestatore di anime, comunque per un altro. Dunque, il mio spigare verbi è del tutto irragionevole, pura pratica di chi lancia le pietre e trae un destino, crede che il giorno sia un osso frontale, scopre la filologia delle nuvole, nuota muto. Non pregherei mai con queste mie parole, che abominio; bisognerebbe usare le parole una volta sola, e mai più, sempre vergini, magiche. Poi tagliarsi la lingua e lasciarla sul lenzuolo, come un granchio.

Delle raffigurazioni di Davide la più audace è quella di Tanzio da Varallo. Davide ha la faccia da bambino, i capelli, biondi e ricci, s’irradiano. Rispetto a quel volto tutto è eccessivo, impossibile: il braccio del bambino, enorme, la spada, gigantesca, la testa di Golia, nel pugno sinistro, con il buco in fronte, grande quanto un corpo. La faccia di Davide ha l’innocenza spietata di una bestia, la stessa cauta eleganza di un giaguaro. In effetti, i Salmi non vanno letti come una raccolta di poesie – ma ripetuti, ripassati a memoria, leccando ogni verso fino a smarrire le coordinate della comprensione. I Salmi non si meditano, si colgono incessantemente, finché non diventano fischio e noi ci tramutiamo in fiera, in preda (Davide Brullo)

 

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