Caravaggio, Narciso

Narciso incompiuto

La strada della carriera letteraria non è il sentiero della ricerca letteraria radicale, profondamente necessitata. La prima è una scelta, la seconda un destino – anche se c’è chi, nei bivi della vita, imbocca il sentiero sbagliato, sviato da qualche equivoco.

Chi sceglie di non battere le strade (spesso affollate) della carriera letteraria, con i suoi compromessi, le sue logiche clientelari ecc., deve però combattere contro le rivendicazioni del proprio ego in cerca di compensazioni, alibi, risarcimenti. Non c’è peggior superbo di chi è consapevole della propria umiltà. Percorrere la via, più austera (anche se non per forza solitaria) della ricerca letteraria radicale, del confronto alla pari con i classici, e sopportare quindi nella maggior parte dei casi di non essere letti, di non essere apprezzati per anni e anni e forse per la vita intera − per quanto umanamente si speri che, prima o poi, le opere meritevoli riescano a emergere −, significa affrontare anzitutto il demone della presunzione. Uno scrittore di successo ha un riscontro evidente del suo valore: pubblicazioni prestigiose, consensi critici, un pubblico più o meno identificabile, istituzioni pronte a coccolarlo, e così via.

Lo scrittore misconosciuto a un certo punto corre il rischio di autogiustificarsi: “Se gli altri non si accorgono del mio valore, è perché la comunità letteraria è guasta. Anzi, proprio la decadenza dei tempi che mi condanna all’insuccesso mondano è la dimostrazione del mio genio”. Non avendo riscontri, lo scrittore “sommerso” si autoconvince del proprio talento, si avvalora da sé, si intossica da solo. Si rispecchia nell’opera, Narciso incompiuto. Da qui nasce il giochino dell’invettiva contro i tempi infami e il compiacimento per il proprio destino maledetto, che è stigma del genio.

Ma questa è una semplificazione falsificante, perché la realtà è sempre complessa e sfumata. I grandi editori, per esempio, non sono biechi e male intenzionati. Quelli che magari dedicano alla poesia esili spazi, pubblicano pur sempre i giganti della letteratura mondiale, e non solo quelli che vendono perché hanno fatto carriera, ma quelli che sono i reali maestri del nostro tempo. E se magari nella poesia non azzeccano ogni scelta, non sarà solo per ottusità. Certo, molti titoli sono marchette dovute, favoritismi, concessioni. Ma pescare nell’oceano di scritture che invade la nostra biosfera le perle assolute e misconosciute che diventeranno, al cambio dell’epoca, i veri classici, non è semplice.

Insomma, chi non ottiene il successo che vorrebbe, invece che ammantarsi con l’aura del poeta maledetto e incompreso, dovrebbe coltivare il dubbio intorno al proprio stesso lavoro, concentrarsi ancor di più sull’essenziale.

Lamentarsi per la mancanza di successo quando si è perseguita la seconda via, quella della ricerca radicale, è quantomeno un segno di incoerenza. Direi che è il sintomo di un nodo interiore non risolto.

Sto affermando, quindi, che il “vero scrittore” (pessima etichetta, ma serve per capirci) oltre a portare la croce, deve pure cantare? Sì, è proprio così. Bisogna abbracciare la propria miseria ed essere, francescanamente, felici, allegri come creature dell’infinito, leggeri nell’indigenza, compiuti nella propria fragrante nullità.

Chi sceglie la via della carriera letteraria si riempie le tasche di biglietti da visita, accumula onorificenze, protegge il nome, lavora per edificare la statua ideale di sé stesso. La scelta di chi davvero si dedica alla letteratura, anziché alla carriera letteraria, è quello di sparire, di bruciare davanti alla propria opera. Accettando persino, di buon cuore, la possibilità di non aver mai brillato di vero talento, di non lasciare nulla di degno ai posteri, ma soltanto di aver contribuito al contesto della ricerca, di essere diventato humus per il genio che verrà.

 

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