Antonio Moresco

MORESCO E IL GRANDE DILEMMA INTERIORE

La recente risposta di Moresco (l’Espresso n. 36, agosto) a un intervento di Cotroneo che rilanciava il ritornello lamentoso di una letteratura esangue, soprattutto perché incapace di rompere gli schemi dei generi e pedissequamente allineata con i dettami delle scuole di scrittura (così, almeno, nel filtro di Moresco; a me pare che l’intervento di Cotroneo muovesse però da presupposti più interessanti e non sviluppati), è sintomatica e mostra il tratto critico dello stesso autore dei Canti del caos, che si pone come campione di coloro che non hanno sciolto il grande dilemma interiore: perseguire metodicamente la via della carriera letteraria o dedicarsi in modo assoluto alla realizzazione della propria ricerca artistica?

Per anni Moresco si è raffigurato come il grande rimosso, l’escluso dal mondo editoriale, l’impubblicabile reietto – vivendo questa dimensione come conseguenza del suo stesso genio. Poi, però, la fortuna gli ha arriso e ha potuto pubblicare presso svariati editori di prestigio assoluto. Ora, il nocciolo della sua replica è davvero luminoso: «Non che i miei libri non vengano recensiti, ma poi, quando si tratta di fare delle sintesi e dei compendi generali, io non ci sono o ci sono solo in modo marginale, di striscio». A Moresco manca dunque la canonizzazione ufficiale, la consacrazione del nome nel novero ristretto dei classici, patisce la mancanza di un Meridiano (o collezione analoga) e l’esclusione dai circuiti più accademici e tradizionali. Non gli basta l’elenco delle gratificazioni (dal suo punto di vista sacrosante) faticosamente conquistate: «[…] la mia circolazione continua a essere quasi del tutto estranea a questi canali, avviene soprattutto attraverso scrittori e lettori giovani, che fanno il passaparola di persona e in rete, che mi hanno dedicato decine e decine di tesi di laurea, avviene attraverso coraggiosi amici di elezione, attraverso alcune rare figure che stanno dentro l’establishment ma che ci stanno con libertà e autonomia di giudizio, avviene attraverso persone che, all’interno dell’editoria, credono in quello che faccio e non hanno paura di continuare a propormi, avviene attraverso le numerose traduzioni all’estero, che per me hanno riaperto i giochi».

No, a Moresco tutto questo non basta: vuole l’ovazione generale, il consenso unanime, la gloria letteraria senza se e senza ma.

Ora, a prescindere dal fatto che, per quel che pare a me, la sua opera è il prototipo di una scrittura schiacciata da una poetica eccessivamente muscolosa e autoconsapevole, che soffoca ogni possibile grazia (come il gesto di un’atleta che riesce male per eccesso di potenza, per una prevaricazione della volontà sulla naturalezza), il suo caso dimostra il perdurare dell’equivoco che sto cercando di sciogliere. La carriera letteraria, in quanto tale, si può benissimo perseguire. C’è metodo e tecnica trasmissibile (per cui, le scuole di scrittura hanno senso). Con lavoro e dedizione, prima o poi da qualche parte si arriva. Mi vengono in mente decine di nomi e di volti di scrittori della mia generazione, conosciuti a vent’anni quando non si era ancora nessuno, tutti esordienti o giù di lì; scrittori che ora invece sono molto ben posizionati nel mondo letterario, ad altezze esorbitanti rispetto al loro talento (giudizio mio opinabilissimo ovviamente, e tacciabile da me medesmo di supponenza e invidia). Ma la ricerca letteraria radicale, il vero, intimo, devastante e godurioso confronto con i classici, è altra cosa.

Secondo i più, sarebbe auspicabile che le due strade coincidessero (ho molti dubbi in merito); di fatto, comunque, ci sono innumerevoli intrecci fra i due sentieri e, ovviamente, non mancano esempi di scrittori la cui storia smentirebbe apparentemente la distinzione.

In verità, l’eventuale successo mondano è un’occorrenza accidentale (augurabile, certo) che rischia di confondere il diverso orizzonte verso cui muove l’artista concentrato non sul pubblico, ma sulla risonanza intrinseca dell’opera; non sulle proiezioni dell’ego, ma sulle prospettive dischiuse dall’esperienza stessa della creazione artistica, che nel proprio farsi inventa le proprie regole costitutive (cfr. Pareyson).

 

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