I pericoli dell’impegno
In più di vent’anni ormai di insegnamento rarissime volte ho pronunciato, ai genitori di qualche mio alunno o alunna, la fatidica frase: “Deve impegnarsi di più!“. Quando è successo, per quel che ricordo, è stato come gettare la spugna, più nei confronti dei miei interlocutori adulti che degli alunni.
L’impegno, come si accennava l’ultima volta, è un concetto insidioso. Anzi, una vera e propria trappola.
Tra le molteplici questioni che entrerebbero in una ipotetica mappa concettuale sull’argomento, sottolineo almeno questi nodi, con relativi ragionamenti.
Anzitutto: come si misura l’impegno? Il genitore (o qualunque altro osservatore esterno) che certifica l’impegno di un alunno, su che cosa si basa? Molto spesso, le risposte celano già l’inganno. “Mia figlia ha detto di essersi impegnata molto”. “L’ho visto chinato sui libri per ore!”. “E’ stata in camera tutta la sera a studiare!”. L’osservazione, in tutti questi casi, è superficiale e non raccoglie dati pertinenti, quindi immettono nel confronto del docente solo tossine fastidiose.
Ma si ammetta pure a un certo punto che l’impegno ci sia stato, e si sia profuso in quantità adeguata o addirittura notevole. Ebbene, all’impegno non corrisponde automaticamente un risultato soddisfacente. Servono, per il raggiungimento del successo, fra le altre cose, almeno capacità di base sufficienti e metodo. L’esempio più immediato e forse ancora efficace viene dallo sport. Non basta allenarsi, occorre allenarsi bene (un allenamento sbagliato può addirittura danneggiare l’atleta: allo stesso modo, un impegno male orientato a scuola può compromettere lo sviluppo della persona!) ed è necessario, anche, essere portati per quello sport – almeno se si vogliono ottenere risultati alti, sulla soglia, insomma, del professionismo. Se l’impegno dunque è evidente, ma non ottiene riscontro nei risultati, occorrerà prendere in esame le capacità e il metodo. Su questi punti, in effetti, cerco di spostare sempre la mia disamina sulla situazione scolastica degli alunni.
Ancora: l’impegno è la creatura di un dio bifronte che ha nome: motivazione/bisogno. Qualora l’impegno sia evidente e proficuo, occorre comunque monitorarne la sorgente. Magari per averne cura, affinché continui a garantire l’energia giusta per affrontare le fatiche dell’apprendimento. Occorre dunque generare sempre nuovi bisogni. “Alzare l’asticella”, si direbbe in termini sportivi. Inoltre, occorre preoccuparsi perché le motivazioni siano sempre meno estrinseche (il premio, la conferma delle aspettative altrui, ecc.) e quindi sempre meno ansiogene e mettano radici all’interno della personalità e dell’autocoscienza dell’individuo nel quadro del suo progetto esistenziale. Per onorare il dio bifronte, occorre che al sacrificio corrisponda comunque un’adeguata gratificazione. Non si può continuare a venerare un dio muto, un simulacro che non offre mai, in alcun modo, risposte. Dunque, all’impegno profuso per rispondere a determinati bisogni o sgorgato per precise motivazioni personali deve seguire una gratificazione: qui la mappa concettuale collegherà questo “ramo” al precedente: tornano in ballo, infatti, le capacità e il metodo.
Solo dopo aver chiarito e verificato queste voci, si potrà tornare alla misurazione dell’impegno. Posto che le capacità ci siano e che il metodo sia corretto, verificate le spinte autentiche e sane alla base dell’impegno, se persiste la frustrazione perché il risultato ottenuto non è ancora soddisfacente, ne conseguono, dal mio punto di vista, due possibilità. O l’impegno effettivamente non è ancora sufficiente (del resto, ogni percorso, anche quello destinato al successo, richieste tempo e pazienza, talvolta persino ostinata dedizione) oppure l’errore è in chi valuta.
L’ultima ipotesi è reale – non è inserita per semplice amore di logica.
Ecco perché nel processo valutativo è oggetto di valutazione anche l’insegnante.
Ecco perché lo sbocco naturale e conclusivo della valutazione deve essere… l’autovalutazione.
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