Sinjavskij e Daniel'

L’arte trasfigura sempre la realtà ed è perciò stesso eversiva. (Il caso Sinjavskij)

Si può diventare i primi dissidenti russi della storia inconsapevolmente, per semplice amore della letteratura. E, si badi, non di letteratura impegnata, non a causa di opere scritte con intenzioni politiche. La letteratura, infatti, è eversiva in sé stessa. Questo ci ricorda la vicenda di Andrej Sinjavskij e di Julij Daniėl’, coscritti classe ’25 che negli anni Sessanta, sulla spinta dei venti riformisti durante la leadership di Chruščëv, pubblicarono all’estero, sotto pseudonimo, romanzi e racconti. Il fatto di per sé non rappresentava reato: vennero pretestuosamente accusati di propaganda reazionaria soltanto per la loro poetica non allineata al realismo imposto dall’ideologia socialista. Il Kgb riuscì a individuarli, dopo anni di fallimentari ricerche, perché durante il funerale di Pasternak, per un breve tratto, portarono sulle spalle la bara dello scrittore: chi erano quei due, così in sintonia, così devoti alla letteratura?

Il potere impone la sua verità, magari senza nemmeno dichiararla apertamente e completamente. Chi non si adegua a tale dogma, è di per sé un eversivo. Così, il processo del ’65-’66 che li condannò, assunse il valore di un attacco alla letteratura: per la prima volta le prove del reato erano i testi degli scrittori, e non più pretesti di altra natura, come nel caso dello stesso Pasternak o, per restare in anni ancor più a ridosso del processo a Sinjavskij e Daniel’, nel caso del poeta Iosif Brodskij. Al fatidico momento della lettura della condanna, entrambi dichiararono di non riconoscersi nella sentenza. Da quel momento, si registrò ufficialmente in seno al regime che un’altra interpretazione dei fatti era possibile, esisteva.

Sinjavskij dovette scontare anni di lavori forzati nei gulag, fino al ’71. Non gli fu impedito poi di emigrare a Parigi, e alla Sorbona divenne professore di Letteratura russa. Durante gli anni di reclusione elaborò Passeggiate con Puškin, mimetizzandone intere parti nelle lunghe lettere inviate alla moglie. L’opera, tra l’altro, venne accolta male, tra i Russi, per l’approccio poco convenzionale al grande poeta: il suo acume critico dissacrante e provocatorio nasceva dalla sua stessa vena creativa, e la rottura con la comunità russa emigrata in Europa diventò poi inevitabile. In prigionia scrisse anche Una voce dal coro (pubblicato ancora con lo pseudonimo di Abram Terz, già utilizzato per i precedenti libri), una sorta di Zibaldone in cui registra anche pensieri degli altri condannati, e riflessioni sul tempo, sul carattere della Russia e del suo folklore, sulla letteratura – spaziando da Ammiano Marcellino alle fiabe, dalle canzoni cecene raccolte e trascritte a intuizioni su Shakespeare o Majakovskij.

Eppure il lager ti dà una sensazione di massima libertà. (Forse soltanto la cella d’isolamento ne dà una ancora più forte).

Come si possono annotare, senza eroismo, pensieri simili?

Amo il ritmo rallentato della vita che si fa qui, in confronto a quello cui, da liberi, ci dobbiamo sottomettere volenti o nolenti: per non perdere l’autobus, per non far tardi in ufficio, al cinema. E’ per questo che, nel lager, il pensiero scorre come in modo più naturale, senza tutte quelle astuzie della ragione che servono solo ad eccellere sugli altri. Ci si affretta solo in casi precisi, isolati, ma in un senso più vasto si smette completamente di aver fretta (per andare dove?). E l’esistenza spalanca più larghi i suoi occhi azzurri.

Nella sua condizione di separatezza, scandita solo dal tempo naturale e sfumato delle stagioni o dalle incombenze più rituali e ordinarie (“Misuro la vita dal numero di volte che mi hanno rasato i capelli”), lo scrittore vede assecondata la sua stessa indole contemplativa. Del resto, negli anni dell’esilio francese, Sinjavskij non esiterà a ricordare il pericolo, per tutti i dissidenti, di diventare conformisti, in seno alla calda e tollerante democrazia occidentale. E analogamente Brodskij parlerà dei suoi stessi anni di reclusione come di un periodo proficuo letterariamente, senza in alcun modo far leva su quell’esperienza per riscuotere maggiori crediti morali.

Quindi paradossalmente, nella prigionia, l’impotenza si rovescia in forza immaginifica e in tal modo il presupposto sovversivo di Sinjavskij (quel codice grottesco al limite del realismo magico riconducibile a Gogol’) anziché attenuarsi si rafforza:

L’arte non è raffigurazione, ma trasfigurazione della vita. L’immagine stessa nasce per un’esigenza di trasfigurazione: l’immagine si sposta dall’oggetto, spingendolo a modificarsi, a prendere un’altra direzione. Noi notiamo l’”immagine” soltanto quando essa ha trionfato di ciò che si sforza di raffigurare. Un tavolo d’oro è un’immagine. Un bosco verde non è un’immagine: ci vuole un rumore verde.

Anche quando descrive la realtà, l’artista la trasfigura, la sottrae alla trasparenza degli eventi che scorrono per restituirle l’opacità originaria. Distinguere il “qui e ora” dall’ “aldilà”, l’orizzonte trascendente dal secolo, la natura dal sovrannaturale, è semplicemente un errore che ci conduce a un dissidio insanabile, a un vicolo cieco esistenziale.

Cristina Campo (Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, p. 232) parlava in termini di “vita spirituale” e di “corpo”, cercando nella liturgia la loro rinnovata congiunzione:

Chi resterà a testimoniare dell’immensa avventura, in un mondo che confondendo, separando, opponendo o sovrapponendo corpo e spirito li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita? Nel tempo vaticinato in cui i vecchi vedranno visioni e i giovani sogneranno sogni, forse unicamente i poeti, che hanno dimora simultanea nella vecchiaia e nella fanciullezza, nel sogno e nella visione, nel senso e in ciò a cui il senso allude perennemente. E’ un poeta, il solo peta religioso oggi vivente, Andrej Sinjavskij, ad aver chiuso in due parole la gesta perduta della quale sembra divenga sempre più imperativo ricordarsi: “Non si tratta di superare la natura ma di sostituirla con un’altra natura a noi ignota

Così Sinjavskij nella sua opera tenta di smarcare l’autore non solo dai suoi personaggi, ma dall’opera stessa e, se pensiamo all’uso dello pseudonimo, persino dalla figura biografica dello scrittore:

In sostanza, il mio “io” non mi interessa affatto. Una cavia, nient’altro. Catturare nel mio sangue, nella mia testa, delle idee che circolano, delle leggi.

All’amico Daniel’, invece, il regime stesso impose un nuovo pseudonimo, obbligandolo a lavorare unicamente come traduttore per poter vivere. Quando poi riuscì a far passare attraverso le maglie del controllo un ultimo intervento, con cui prese parte a un dibattito intorno ai dissidenti russi all’estero, accusati di non aver tempra sufficiente per restare in patria, riprese voce proprio in difesa di coloro che erano emigrati affrontando la fatica di restare sé stessi pur se strappati alle proprie radici, ricordando altresì come, per coloro che erano rimasti, sarebbe stato facile invece incolpare per la propria mediocrità o il proprio fallimento letterario il sistema (si trattò di un’evidente difesa dell’amico, allora bersaglio della polemica). A seguito di tale intervento il regime gli tolse persino lo pseudonimo, cosicché a lui non rimase per sopravvivere che diventare un traduttore fantasma, un traduttore di opere firmate da altri.

Ma cancellare l’identità vuota di uno scrittore è impossibile. Glielo avrà ricordato, c’è da crederlo, l’amico Sinjavkij, o Terz, o chi per esso, il giorno in cui poté rientrare finalmente in patria e visitare la sua tomba.

2 commenti
  1. Maria Grazia
    Maria Grazia dice:

    La vicenda è presentata da Enzo Mauro ( Feltrinelli, Lo scrittore senza nome) : ci immette in una vicenda di interesse notevole sia letterario che storico con una convincente prova editoriale, optando, da giornalista quale è sempre stato, per il ruolo di scrittore, narratore, lucido ed incisivo, antiretorico. Nella nota finale ci racconta in modo storico, oggettivo, non ponendosi mai come protagonista della ricerca che lo ha appassionato per anni ed anni, la genesi di questo libro partecipato e doloroso: una scelta di rispetto e professionalità appropriata al tema, che l’autore definisce “racconto della disperazione e della dignità, dal fondo dell’abisso totalitario sovietico. Ma anche un’indagine sul potere.. di una vita impedita da ricostruire pezzo per pezzo, completando quel ritratto dimezzato che è sulla tomba al cimitero di Vangan’kovo”. Julij Daniel’( 1925- 1988) infatti, lo scrittore senza nome, privato dell’identità, è nel mondo letterario solo un’ombra.

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