Duccio di Buoninsegna, Disputa di Gesù fanciullo con i dottori

Intorno a due libri di Matteo Marchesini (prima parte)

La conquista della naturalezza

La prima impressione, inoltrandosi nei sedici racconti che compongono i Miti personali di Matteo Marchesini, è quella di imbattersi in un, pur pregevole, esercizio postmoderno. La ricerca della sorpresa, magari del semplice capovolgimento o comunque della variazione sorprendente, all’interno del corpo statico del mito, delineano un’intelligenza e un piacere letterario sofisticato. Poi però i temi si infittiscono, la profondità aumenta, gli indizi si annodano. In più, si risale cronologicamente fino al presente per approdare, in un crescendo artistico, al magnifico Conoscersi, racconto che da solo occupa la seconda sezione del libro, e il cui titolo diventa infine sintomatico. I miti classici dell’inizio (Orfeo, Ettore e Achille, Atteone…) lasciano il posto a rivisitazioni di personaggi storico-letterari (Gesù, Leopardi, Kant…) fino a dare corpo a figure contemporanee. Si tratta dunque della restituzione di un percorso che piega la cultura verso la naturalezza, intesa ovviamente come ricca stratificazione, seppur vestita coi panni di una maggiore semplicità o immediatezza. E anche i titoli dei racconti occhieggiano a una struttura di pensiero complessa, suggeriscono un itinerario culturale completo (Poesia, Fine dell’epica… Storia… Religione… Dio, Prosa).

Forse il tema che contrappunta ogni storia è la ricerca dell’autenticità. Dapprima si tratta di forzare gli archetipi più consolidati, luminosi in virtù della loro immobilità. In seguito, la sfida è sottrarsi alle grandi forze che guidano l’esistenza, dalla fede ai condizionamenti sociali (le figure genitoriali anzitutto) fino a fare i conti con la propria stessa visione del mondo e della propria cultura. L’approdo non è comunque consolante: la nostra è un’epoca che non può concedersi ingenuità. L’Occidente è la terra del tramonto e su ogni cosa si deposita la patina di una storia che ha scoperto, nella sua corsa lungo l’illusione di un progresso inarrestabile, la decadenza, l’assurdo e il male assoluto. Anche la giovinezza e l’amore (miti per eccellenza per ciascuno di noi, quindi narrati in prima persona nell’ultimo racconto) devono scontare questa assenza di innocenza. Fine e principio del libro (che esordiva con la storia di Orfeo ed Euridice), dunque, idealmente si rinsaldano; la circolarità mitica è ripristinata. Perché ogni volta che la legge era stata violata, anziché la liberazione, il risultato era stato tragico: se Atteone profana la divinità, se Narciso smette di imitare gli altri e scopre sé stesso, se Giobbe può concedersi una seconda felicità, se insomma in qualsiasi modo ci si sottrae al destino, il tempo si piega e costringe l’esistenza a una consapevolezza che la paralizza, la rende insensibile: la ferita del pensiero, che dilata e consuma la percezione e svuota di senso l’azione che ne scaturisce (la citazione in apertura del volume è tratta da Vico: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire”) è irrimediabile. L’infanzia resta tempo perduto e la sua riconquista (come per la rivisitazione di Edipo) non può che risultare un’ulteriore tragedia, solo apparentemente meno violenta. E uscire dall’infanzia per entrare nella storia (come capita persino a Gesù, un racconto per molti versi centrale, se non altro cronologicamente) è sempre un tradimento. Possiamo al lampo drammatico sostituire il languore, allo scacco romantico e individuale la devastazione universale, ma la sostanza, a ben vedere, non cambia.

Se dunque tutto si ripete, anche dopo la metamorfosi dell’adolescenza verso l’età adulta, se il tempo mitico dell’infanzia non accetta di svolgersi ma resta un grumo, un blocco originario da scontare magari sotto forma di demenza senile, come si persegue l’autenticità? Paradossalmente, attraverso la finzione letteraria; per questo i miti possono essere riscritti, per questo a un certo punto un apparente esercizio di divagazione sul noto apre una crepa e lascia filtrare, rinnovata, la potenza di un mito (in quanto tale, universale) che ha trovato nuovo sangue per rinascere, per diventare personale.

Per raggiungere il confine in cui universale e personale si congiungono, ovvero per entrare nell’orizzonte letterario attraverso la chiave della finzione che apre a un’autenticità di secondo grado, non originaria ma conquistata, Marchesini non si affida solo alla narrativa, ma anche alla poesia e alla saggistica. In lui, le tre vie non si contrappongono, anzi spesso si intersecano, perché in effetti ripetono la medesima matrice generativa dei Miti personali: il gesto è sempre quello di appropriarsi della parola altrui (come Gesù fra i dotti del Tempio: «Lui intanto ripeteva i ragionamenti uditi, e ripetendoli li trasfigurava. Non si capiva bene cosa aggiungesse alle parole degli altri, ma solo la sua voce le radicava sul terreno giusto e le rendeva inconfutabili»), di acquisire l’intelligenza del nemico. Non per nulla molti suoi saggi, senza difettare di precisione filologica, amano esondare nell’imitazione, persino con spirito sarcastico, e il suo stesso libro di poesie più recente, Scherzi della natura, si chiude con una serie di traduzioni-tradimenti. Tale intelligenza mimetica, come raccontato nel mito di Narciso, non è felice, innesca semmai il dramma: affrancarsi dagli altri per diventare sé stessi. E, per diventare davvero adulti, non si può evitare il trauma, lo scontro anzitutto con le figure predilette: padri, madri, amori.

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