Intorno a due libri di Matteo Marchesini (seconda parte)
I conti con il Novecento
Padri e figli, Relazioni, Età di mezzo, Storiografia, Dal vero (a cui si aggiunge la già citata appendice di Sei traduzioni): alla luce di quanto interpretato finora, le sezioni della raccolta Scherzi della natura organizzano una fenomenologia già riconoscibile.
La poesia di Marchesini, per cercare un’immagine sintetica iniziale, è essenzialmente ragionativa. Più che nascere una situazione evidente, da una metafora continuata, mette in scena i pensieri del soggetto, che sia prima persona lirica o maschera, e talvolta più voci dialoganti. Il formato del testo è vario, dall’epigramma a poesie in diversi quadri a testi di più pagine, ma prevalgono le misure ampie, in cui il pensiero non si limita insomma all’aforisma ma si dispiega, appunto, in ragionamento. Per lo più, si procede per endecasillabi, ma alcune poesie preferiscono, attorno a questa misura, alternare anche versi brevi o alessandrini (o comunque versi eccedenti l’endecasillabo). Talvolta, le strutture costruttive si stringono ulteriormente, avvicinandosi a forme ancor più precise (la canzone). Tuttavia, la sponda privilegiata per permettere al testo di tornare su sé stesso, in modo da evitare l’andamento eccessivamente aperto e prosastico e rimarcare la natura della pronuncia poetica, è la rima. La rima, in Marchesini, non ha posizione e ricorrenza fissa, si nasconde talvolta all’interno del verso, ma è abbastanza frequente e non disdegna nemmeno l’alternanza più evidente. Se ciò accade nei testi brevi, distici o quartine, ecco che gli accenti ricordano le arguzie di Caproni; viceversa, nei testi maggiormente distesi, con giunture sintattiche significative, si direbbero gozzaniane, soprattutto quando legano parole astratte e di primo acchito “impoetiche”. Nei casi intermedi, la postura può ricordare quella di un secondo Montale, che riflette, con distacco ironico, in forme apparentemente rilassate e dimesse.
Ma questa prima descrizione non rende giustizia all’opera, ha semmai un valore soltanto propedeutico. E citare Caproni o Gozzano o Montale (ma si potrebbero chiamare in causa anche molti altri classici del Novecento, per un certo gusto desublimato di raccontare l’amore, per esempio, persino Saba) rischia di confermare la nota malattia del critico di poesia: la ricerca delle fonti, lo schiacciamento del testo sulle radici anziché l’intuizione della sua entelechia, per così dire, ovvero della sua gittata e della sua ricaduta nel mondo. Se abbiamo interpretato correttamente il testo, anzi, se stiamo intuendo qualcosa intorno al percorso di Marchesini come autore a tutto tondo, i riferimenti letterari delineano uno spazio di cui appropriarsi, esattamente come accadeva per i miti. Tale strategia non serve per cautelarsi, ma all’opposto per esporsi, senza sottrarsi alla lotta necessaria per diventare veramente adulti.
Non a caso la prima sezione delinea i termini, chiamando in causa la dimensione dell’infanzia e il confronto fra le generazioni, all’interno peraltro di una cornice storica assolutamente contemporanea (gli Scherzi di natura del titolo rimandano anche alla pandemia e alle questioni sociali che ha esasperato). Il dramma è liberarsi dall’incantesimo del tempo che impedisce la maturazione, il superamento dei padri, la conquista di un decorso storico autentico, in cui la ripetizione sia esorcizzata e l’azione garantita. Emblematiche in tal senso sono le poesie Biografia o Generazioni. Citiamo quest’ultima:
Quando camminano per strada
la mano nella mano, a testa alta,
sempre pronti a occupare una piazza
per qualche buona causa
e curiosi di ogni faccia, ogni negozio
nuovo, passo dopo passo sembrano
ringiovanire i miei,
mentre io che li spio in ozio
alla finestra, fiacco, testa bassa,
distratto dal rancore
per il tempo che passa
sono il loro ritratto
di Dorian Gray.
Il tempo naturale si è inceppato: mentre i vecchi ringiovaniscono, i giovani sono già anziani (ma non sfugga, tra le altre, la rima miei : Gray, dal sapore in sé gozzaniano ma distanziata e in posizione strategica come nell’ultima maniera montaliana). Ebbene, se il tema in sé è culturalmente accertato forse addirittura da oltre un secolo, quantomeno, appunto, all’altezza dell’avanguardia crepuscolare, resta in sé irrisolto e attuale. I conti con il Novecento sono ancora aperti, e non solo in ambito letterario ma, ahinoi, anche in ambito strettamente storico, come dimostra l’attualità. L’atto di non fingere rispetto al problema significa entrare senza indugi nell’agone letterario, commisurarsi con la tradizione. Non è poco. Nella marea di pubblicazioni poetiche che ingolfano l’editoria oggidì, la maggior parte, anche quando, in sé stesse, di fattura buona, semplicemente risultano meteore evanescenti, gesti privi di memoria e quindi senza potenzialità innovativa. Banalità su quale spiace persino dover insistere. Fatto sta che aver colto il problema in modo nitido è il presupposto poetico per colpire nel segno, come riesce molto bene a Marchesini nella poesia che chiude la prima sezione, Autoritratto:
Ha ancora gli occhi di chi trattiene il fiato
guardando crescere l’erba.
Così una volta
Passava il dito sulla mia prima barba
mentre giravo la faccia contro il muro.
Credevo allora che fosse
adolescenza, e invece era lui – ero io.
Mi ama, mi teme e teme per me
ciò che conosce in sé stesso.
Lo so adesso che il suo dito si protende e cade
subito prima di toccare i peli bianchi
che abbasso appena sul petto.
Quest’esordio è preciso nella sua riconquistata semplicità (la rima si nasconde nella consonanza erba : barba o incalza repentinamente in modo da essere assorbita dal discorso come in stesso : adesso), si snoda con pregevole fluidità narrativa (appena un po’ faticosa, forse, solo nella parte centrale, con qualche dichiarazione di intenti troppo esplicita) per chiudere perfettamente il cerchio e ritornare sull’immagine dell’erba, nell’explicit descrittivo.
L’amore, passaggio inevitabile per l’ingresso nell’età adulta, prende subito il campo con la Canzone che apre la sezione successiva, Relazioni, di cui riporto la seconda strofa, emblematica per quanto abbiamo finora asserito in merito all’uso della rima e, persino, a un certo taglio di leggerezza sabiana:
La mia ragazza è un’elefantessa
nella stanza: ma magra, smemorata,
ossessa. E anche se infrange la cristalleria
della mia mente
davanti alla sua danza il resto è niente.
Le Relazioni che mettono in discussione i rapporti familiari sono l’occasione per scoprirsi definitivamente: «chissà se lo sapevi quando ti ho / sedotta col mio unico talento: essere un altro», confessa un inciso, prima di definire ancor più perentoriamente il contrassegno esistenziale:
Scrosta col dito la mia letteratura
fino ai nervi
e trovi questo:
un’antichissima paura
che solo il Novecento ha trasformato
in un amore […]
o, ancora, in Poesia d’amore:
Vuoi davvero sapere chi sono?
Ricòrdati allora: se ridi
e mi tendi le mani
penso subito a un plagio, a una trama
oscura, italiana;
se facciamo l’amore e rimani
a girare per casa
sento entrarmi nel corpo il contagio
e comincio a imitarti finché
diventiamo due uguali – due estranei.
A quel punto, che cosa ci resta?
Sì, i progetti: ma se parli del nostro domani
tutto intorno mi sembra un presagio.
(e non si perda la rima plagio : contagio : presagio che trapunta il testo dall’inizio alla fine).
Ancora una volta, l’apparente esercizio letterario è solo propedeutico per delimitare il campo a una voce più spiccata e personale, come avviene in particolare nei testi ampi della sezione Età di mezzo, quasi declamati, verrebbe da dire, per la potenza di fiato, per l’ampiezza sintattica che non ha indugi, appena appoggiata alla ricorsività di qualche formula, fino alla chiusura perentoria – o come accade nella più variegata quarta sezione, Storiografia, in cui comunque ogni testo coglie, con arguzia o con sarcasmo, in modo criptico e perturbante oppure persino disinvoltamente retorico (a tratti davvero ricordando il secondo Montale), la banalità dell’epoca, l’ipocrisia sociale, il disagio contemporaneo e, in particolare, la condizione perturbante di chi, anagraficamente, è sospeso nell’età di mezzo. Dovrebbe, questa età, rappresentare la pienezza di vita, l’idillio invece nasconde solo il grottesco (si vedano, in particolare, i versi di Arcadia). L’incantesimo dell’infanzia si ripete in altra forma. La paura fa capolino ovunque, appena un evento o un pensiero schiudono alla comprensione di questo tempo ancora drammaticamente paralizzato.
La conclusione (Dal vero), è al momento amara e sconsolata, ma doverosamente sincera, e raccoglie solo aforismi sparsi, duri frammenti di realtà con cui puntellare un Paese che si scopre, ancora, terribilmente desolato.
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