Il processo creativo mette in scacco l'intelligenza

Scacco all’intelligenza

Sono ammirevoli gli scrittori che sanno spiegare per filo e per segno la loro opera, che danno ragione di ogni scelta, di ogni sfumatura, di ogni dettaglio. E tuttavia alla fine questi scrittori ci insospettiscono. D’accordo, si permettono di spiegare con il senno di poi, mettendosi nei panni del lettore (il lettore zero, il lettore ideale), ciò che è il frutto di un processo di cui, probabilmente, non avevano sempre pieno controllo o totale consapevolezza: se non fosse così, se la loro opera fosse realmente il risultato di algoritmi precisi, di equilibri ingegneristici, di un dominio totale, insomma, risulterebbero più che sospetti: ci apparirebbero come inquietanti casi patologici. L’arte, come la vita, non si lascia addomesticare. E per questo non si può insegnare. Si può semmai amarla, e cercare di contagiare gli altri di un analogo amore (salvo poi soffrire di gelosia).

Per quanto possiamo essere intelligenti, la creazione artistica eccede il nostro controllo, per varie ragioni. Anzitutto, l’intelligenza assoluta non esiste. Per quanto si riesca a essere competenti, per esempio nell’ambito della poesia e della narrativa, la nostra competenza avrà pur sempre limiti, temporali o linguistici, per esempio. Se anche non fosse così, la poesia e la narrativa abbracciano qualsiasi argomento, per cui la nostra competenza settoriale sarebbe messa in scacco. Ma è un dato umano generale da tener conto: qualsiasi progresso nella conoscenza comporta un incremento (talvolta esponenziale) nell’ignoranza. Per ogni risposta, sorgono altre domande. L’orizzonte dello scibile si sposta sempre più in là, a ogni nostro passo.

Detto questo, la stessa intenzione originaria che ci spinge alla scrittura è spesso vaga. Se anche fosse ben focalizzata, attrarrebbe intorno a sé una miriade di altri temi o elementi accidentali che dovranno, in seguito, prendere forma.

Dunque, ecco l’altro motivo per cui i processi creativi ci sfuggono: la materia con cui operiamo, fosse anche presente fin dall’inizio, andrà composta, rielaborata. E, come sommare atomi di idrogeno e di ossigeno, a un certo punto assisteremo a un imprevisto salto qualitativo, ci troveremo di fronte a una materia nuova. L’opera lievita, si trasforma, compie salti strutturali, magari anche in conseguenza a scelte casuali o a varianti estemporanee a cui noi, e la nostra materia di lavoro, è stata soggetta. I piani compositivi originali andranno rivisti e aggiornati, talvolta andranno persino rivoluzionati.

La materia prima della scrittura, peraltro, non è data dai semplici contenuti, ma dal mezzo espressivo: la lingua.

Noi partiamo da zero, e le parole no; che è la cosa importante, la più importante, sempre. (Eudora Welty)

Ogni parola che adoperiamo ha una sua storia, è già stata usata da altri scrittori, raccoglie stratificazioni millenarie: noi spesso ci gingilliamo con strumenti di cui ignoriamo la potenza. Trattiamo come bigiotteria pietre preziose dal valore impensato.

Ma persino noi stessi siamo chiamati in causa nel processo creativo e, in quanto materia di lavoro, prendiamo parte a tale processo anche con le facoltà che ci sfuggono, con le nostre zone d’ombra, con il nostro inconscio. L’arte è una forma di conoscenza che rispetta il mistero. Il suo sguardo non rende oggettivo, non riduce a oggetto ciò di cui si occupa: il suo sguardo comprende: accoglie in sé, inglobando anche quella porzione di indicibile che pure circoscrive, intuisce, protegge. (L’oggettività dell’arte riguarda semmai l’oggetto artistico in sé, il prodotto in cui tale forma di comprensione viene registrata o tracciata, anche con il suo movimento desiderante più che con la sua capacità di raggiungere effettivamente il proprio obiettivo. Anche un’opera incompiuta può avere senso, se ha già una forma riconoscibile, almeno a livello globale).

Ancora Eudora Welty:

Lo scrittore studia intensamente come scrivere proprio mentre è preso a farlo; poi, quando il tal romanzo o il tal racconto è finito, è facile che dimentichi come ha fatto; ed è meglio così.

Siamo di fronte alla regola della formatività dell’arte, ben teorizzata e analizzata da Pareyson. Ma qui vorrei sottolineare la coda, apparentemente innocua, dell’ultima citazione: è meglio così.

Già, non pretendiamo di capire troppo. Accettiamo il fatto che l’arte metta in scacco la nostra conoscenza.

Torneremo spesso su questo margine, che ci espone all’aperto. Ma per ora facciamo qualche passo indietro, su terreni meno insidiosi. Meglio così.

BIBLIOGRAFIA

Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Milano, Bompiani, 1991 (2° ed.)

Eudora Welty, Una cosa piena di mistero. Saggi sulla scrittura, Roma, Minimum Fax, 2009, pp. 91 e 93.

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