Elogio del litigio
Sono un innnocuo attaccabrighe. Ho delle doti naturali ereditate per via paterna: il tono di voce sempre troppo alto (eppure io non lavoro in fabbrica), lo spiccato gusto per la punzecchiatura, la propensione a straparlare e a prevaricare l’interlocutore, persino una comica e impacciata vanità. Sono il timido che urla, insomma. Ho cercato, con gli anni, di affinare queste caratteristiche, dosarle e acuminarle, fin dove possibile. Ma le passioni culturali, anziché piegarmi a una saggia humanitas, si sono tramutate in benzina sul fuoco.
Un po’ per scelta e un po’ per indole, se c’è una discussione mi metto sempre nella prospettiva opposta. Ho di fronte un baciapile? Ragiono come un ateo. Mi intrattengo con un non-credente? Mi metto in testa di mostrargli quanto creda nel suo “non”.
Eppure, mi sento un moderato, almeno in partenza. E la sapienza popolare ricorda come can che abbaia non morda. Solo che, una volta innescato, non mi piace fermarmi a metà strada e dunque cerco di arrivare al fondo di ogni pensiero. Così, divento assertivo, determinato, categorico. Non so come i miei civilissimi colleghi mi sopportino: espongo la mia prospettiva, loro replicano cortesemente e dibattono moderati e inclini al compromesso, finché io riprendo parola carico come una pentola a pressione e sottopongo il caso estremo, gelando il collegio. Accidenti alla poesia che mi ha armato di analogie, di sviluppo per paradossi, di pensieri rapidi e immaginifici – anche liberamente contraddittori, giacché non si capisce come una pentola a pressione possa gelare gli astanti.
Per fortuna, l’ardore della giovinezza è scemato. I tempi di reazione sono più lunghi. Talvolta, riesco persino a zittirmi. La valvola di sfogo funziona meglio. Nei casi migliori, nemmeno si accorgono di quanta pressione stia gestendo.
Ma litigare – continuo a crederlo ancora adesso – è anche un’arte e mette un po’ di pepe nel piatto. Oggi però se ne sta perdendo il gusto. In azienda, un litigio si tramuta in una crepa insanabile e il direttore risorse umane deve gestire il trauma, probabilmente ricollocando qualcuno, altrimenti il sistema produttivo si inceppa. A scuola, due marmocchietti che litigano scatenano una faida tra famiglie e il docente, anziché svolgere una paziente funzione educativa, cogliendo l’occasione per far crescere entrambi i contendenti, deve tramutarsi in un giudice inflessibile e perfetto, e soprattutto rapido, che individui esattamente la colpa originaria e calibri le pene conseguenti – altrimenti l’ombra del bullismo si diffonderà sull’intero istituto. In casa, se marito e moglie battibeccano (ma non lo fanno, hanno troppa paura di scioccare irrimediabilmente i figli, che così cresceranno ipersensibili) entrambi si vedono già a breve in cortile, con le valigie in mano.
Per non parlare della società letteraria, ovvero di quel che ne rimane sul web, nei circoli di potere (festival, premi), nei giri di posta delle agenzie. Prova a dirne mezza e sarai bannato, poi esposto nella bacheca di un altro, taggato per sempre. Se ti va bene: censurato. Altrimenti: espulso. I letterati, poi, hanno una memoria impressionante. E non sai mai fin dove arrivi la loro lingua. Un poeta cristiano, per esempio, intervenne anni fa presso un piccolo editore per impedire la pubblicazione di un mio saggio (che non lo riguardava affatto, nemmeno indirettamente). Sospetto che anche pochi mesi fa abbia interdetto a una studentessa universitaria, che mi aveva contattato per i suoi studi letterari, di continuare il rapporto epistolare con il sottoscritto. (Ah, ecco. I difetti tornano a galla. Il primo aneddoto è certo, il secondo una mia provocatoria illazione, seppur basata su indizi precisi). E tutto questo perché diversi lustri or sono ho affondato lo sguardo critico sui suoi versi e ho discusso con lui senza compiacerlo, anzi. Poi, peraltro, alla prima occasione non l’ho mica evitato: mi sono imposto al suo sguardo sfuggente e gli ho teso la mano, pronto anche a ricevere una sberla, semmai.
Il fatto è che mi dimentico delle persone, di me stesso in primis, e mi lascio travolgere dalla discussione in sé. Finisco per offendere, laddove io non voglio affatto colpire l’individuo, ma solo bruciare il ragionamento, ardere fino all’ultima fiamma. Mi lascio ispirare, e suppongo erroneamente che anche gli altri siano posseduti dal loro daimon e che alla fine, ripresa coscienza, la battaglia si sia combattuta altrove, nell’iperuranio.
Così, dopo decenni di attività letteraria, malgrado un lungo periodo di lavoro sommerso in cui sono rimasto appartato, mi sto accorgendo di stare ancora sulle scatole a molti, sebbene io non senta di dover annoverare nessuno nella categoria dei nemici. Anzi, appena trovo qualcuno che, come me, si accende e dibatte, ribatte, combatte fino in fondo, sono grato per ogni ferita che mi ritrovo addosso, una volta sceso dal ring. A seguito di un litigio, dopo aver digerito i miei sensi di colpa e i buoni propositi andati ancora in fumo, provo una sensazione di pace molto costruttiva. Rimugino le parole degli altri, che magari pareva non avessi ascoltato. Ripasso la scena al rallentatore, imbarazzato nel prendere atto della mia stessa presenza, che mi ostino a considerare accidentale. Ripenso alla Cosa, al Tema, alla Questione in sé. Lascio che la lava si raffreddi. Esploro il territorio del mio sapere, irriconoscibile, sconquassato e fertile.
Penso che in letteratura sia importante recuperare la capacità di litigare. Avrei dovuto usare la parola discutere? Ma a furia di discutere, di confrontarsi, di farci le pulci con delicatezza, ci stiamo tutti addormentando. Buttiamola pure un po’ sul personale, tanto siamo solo maschere al servizio di ciò che ci ispira (perciò io stesso ho scritto questa provocazione alla luce di una prima, invereconda persona). Suvvia, alziamo i ritmi. Proviamo qualche entrata coraggiosa. Il palleggio a centrocampo serve solo se è rapido e prepara l’affondo. Senza pressing, non troveremo mai gli avversari impreparati. Se si torna indietro col giro palla è solo per costruirsi nuovo spazio, da attaccare con un’improvvisa verticalizzazione.
Ma il litigio che ci serve, ripetiamolo in conclusione, è quello che non mira alla conquista di posizioni. Terminata la partita, si torna tutti a casa, in pace con sé stessi e con gli altri. Non c’è niente da difendere, in letteratura. Le opere, se sono destinate a rimanere, rimarranno orfane. E allora tanto vale cominciare a svezzarle.
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