Fine della società letteraria?

C’era una volta la società letteraria. Era composta, in fondo, da un numero limitato di persone, perché si viveva ancora all’interno di una struttura culturale aristocratica. L’epoca della società di massa era appena alle origini. Queste persone, che potevano considerarsi pienamente un’élite, si frequentavano, stringevano rapporti, discutevano, magari litigavano fino ad azzuffarsi, nel caso, ma avevano rapporti umani diretti.

Tali rapporti, essendo numericamente limitati, erano per ciò stesso più intensi e più curati. Magari si vedevano e si sentivano con minore frequenza rispetto a quanto si possa fare oggi, perché spostarsi non era sempre agevole e quando desideravano scriversi, per esempio, dovevano usare carta e penna, uscire per comprare il francobollo e per imbucare la lettera, attendere vari giorni prima, eventualmente, di ricevere una risposta. Pensiamo ad esempio ai molti meravigliosi epistolari che ci ricordano oggi legami di particolare amicizia e affetto, e ci permettono ovviamente di conoscere in modo più intimo un autore.

Gli ambienti più consueti in cui questa élite si incontrava potevano essere per esempio i caffé, che rendevano più informali e aperti i salotti esclusivi, di retaggio realmente aristocratico. Molti bar e locali sono diventati quasi leggendari, e non soltanto in ambito letterario. A un certo punto alcuni scrittori e/o artisti potevano organizzarsi, in nome di una particolare visione poetica, più o meno definita, attorno a una rivista, e anche qui l’intero Novecento potrebbe essere etichettato come Il secolo delle riviste (titolo per esempio di uno studio di Giuseppe Langella, del 1982). Per un lungo tratto di storia, almeno fino al fatidico Sessantotto, le università erano specializzate nella ricezione critica, anche degli autori contemporanei, e i giornali erano le piazze virtuali in cui la cultura non era ancora appiattita sullo spettacolo e certi preziosi elzeviri spiccavano come vere e proprie prove letterarie. Anche istituti accademici e testate giornalistiche, quindi, erano ambienti in cui la nostra fatidica società letteraria metteva radici. Infine scrittori, artisti e intellettuali di varia natura approdavano nelle case editrici. Le case editrici di quel tempo, pur essendo interessate al profitto, com’è nella loro finalità costitutiva, erano dunque animate da molti protagonisti della società letteraria, ma gli imprenditori stessi erano ben consapevoli di investire su progetti a lungo termine – insomma, andava bene pubblicare il romanzetto per vendere, ma era importante sostenere le collane di prestigio, che avrebbero portato profitti diretti solo nel tempo, e soprattutto vantaggi indiretti. La selezione degli autori da pubblicare, l’editing del libro e infine la sua promozione erano attività specifiche della casa editrice, che insomma era un vero centro di cultura. (A proposito di imprenditoria, è divenuto leggendario il caso della Olivetti, centro industriale capace di aggregare e coinvolgere gli intellettuali, ma diciamo che fabbrica e letterati hanno avuto un rapporto più complicato. Rimando, per questo tema, alla lettura del recente studio di Alberto Prunetti Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class).

Ma non idealizziamo questa società letteraria del tempo che fu. L’abbiamo anche descritta in modo molto sommario. Basterebbe, per esempio, recuperare le lettere in cui Ungaretti parlava di Montale per scoprire anche l’antipatia umana, la gelosia, l’odio se vogliamo, che poteva circolare anche all’interno di quel mondo, che avrà avuto, bene o male, gli stessi difetti di quello odierno. Anzi, forse allora vigeva anche un sospetto criterio (o presunzione) di autorità, che oggi vorremmo sostituito da un più democratico criterio di autorevolezza. Ma è davvero così?

Oggi esiste ancora una società letteraria? E che forma ha assunto? Il problema è enorme e probabilmente lo attraverseremo anche con altre analisi, ma qui apparecchiamo alcune caratteristiche, per rendere l’idea della metamorfosi in atto.

Intanto, la società letteraria è cresciuta a dismisura. La produzione annuale di libri è mostruosa. Il numero degli scrittori, o dei presunti tali, è abnorme. E il problema della quantità diventa subito un problema di qualità. Chi compie un’azione di setaccio, per far emergere, in questo oceano di scritture, le esperienze più significative? Nessuno, da solo, può presumere di conoscere il panorama letterario contemporaneo, ma non esiste nessuna forma di selezione incrociata, di collaborazione sistemica, all’interno del mondo letterario, per garantire spazio, per dare visibilità, per curarsi delle opere meritevoli. Anche perché oggi pubblicare è molto più semplice. Una volta, occorreva battersi a macchina un intero romanzo, fotocopiarlo, imbustarlo, spedirlo… Il digitale ha rivoluzionato il nostro rapporto con la scrittura, e tutti sanno quanto sia facile, oltretutto, autopubblicarsi – ma il self publishing è un tema su cui torneremo nello specifico.

Come se non bastasse, viviamo nell’epoca dei social. In gran parte la società letteraria si è trasferita su FB. Lo so, i più esperti direbbero che FB è un social già datato e forse addirittura superato, ma credo di poter affermare che la maggior parte degli scrittori abbia trovato in questo ambiente la possibilità di stringere rapporti, dialogare, confrontarsi, ecc. I più hanno anche già raggiunto la soglia dei cinquemila “amici”. Cinquemila. Va da sé che avrà rapporti più significativi, cioè curati e costanti, solo con una parte limitata di questi, ma non c’è bisogno di tante parole per spiegare quanto l’uso dei social abbia modificato le relazioni, anche all’interno della società letteraria. Sui social viviamo rapporti meno autentici? Direi fondamentalmente che questo pensiero comune sia condivisibile, senza dimenticarci comunque i vantaggi garantiti da questi strumenti: possibilità di stabilire relazioni nuove, di raggiungere più persone, di ricevere più informazioni e così via. Ma il tema dei social e del loro impatto sulla nostra vita in generale, e dunque anche sulla letteratura, è noto a tutti. 

Le università, nel frattempo, hanno in gran parte abbandonato l’attività di scandaglio del presente. Può sembrare un’affermazione azzardata, avrete mille esempi contrari, ma riconduciamo pure questa affermazione alla più generale sensazione che non esista più una critica letteraria autorevole e che anche i critici più meritevoli fatichino ad ottenere spazio sui giornali e nelle sedi più prestigiose. Oggi pesa più trafiletto con stellette di un lettore qualunque su Amazon che una recensione approfondita su qualsivoglia quotidiano. Abbiamo detto prima dei social: TikTok sta sostenendo la vendita di molti libri, crea addirittura dei casi editoriali. Bene, per una casa editrice che sa approfittare del fenomeno – ma bene sicuramente dal punto di vista economico. E dal punto di vista della qualità letteraria? 

Le case editrici, poi, si sono letteralmente svuotate. Ormai sono gestite da manager che devono rendere conto della situazione economica ogni tre o quattro mesi che sia: altro che piani quantomeno annuali. L’unico interesse delle case editrici è ormai ottenere profitto – e il prestigio, ovvero il vantaggio inteso come capitale simbolico, che perdura nel tempo? A lavorare in queste aziende, ormai, più che scrittori troviamo stagisti, o professionisti di varia natura che escono da corsi specifici. Sto forse esagerando? Sì, la realtà è sempre più complessa della nostra descrizione, ma forse stiamo tratteggiando delle tendenze forti e ben riscontrabili. Non avviene nemmeno più all’interno delle case editrici la scelta delle opere, e nemmeno l’editing. A questo, ci pensano le agenzie.

Ecco un’altra nuova istituzione all’interno della società letteraria: le Agenzie… Anche di questo, parleremo meglio in qualche futura occasione, probabilmente. Ma ci è capitato recentemente di proporre un paragone con il mondo del calcio: immaginiamo, per ora, gli agenti letterari come figure analoghe ai procuratori degli atleti.

Se esistono, significa che hanno intercettato un problema, che hanno delle finalità specifiche: la loro mission è, sulla carta, una prima risposta alla sovrapproduzione di testi, all’esorbitante quantità di proposte editoriali di oggi. E, ovviamente, esiste perché ha colto un business. Pagando una congrua somma, anche il tuo lavoro potrà diventare accettabile, per qualche editore – ché, anche di editori, ne esistono un’infinità, ormai.

Abbiamo infine già parlato diffusamente in uno dei primi video delle scuole di scrittura. Ecco, in sé possiamo presentarle come cenacoli in cui si celebrano nuovamente i riti della società letteraria che fu. Sono luoghi in cui ci si confronta sui testi, si migliora la propria scrittura, si cerca la propria voce, si invita alla lettura dei classici, si stringono rapporti umani, e così via, lungo una serie di intenti che sono anche molto diversificati, per cui non è nemmeno giusto parlare genericamente di scuole di scrittura creativa: esistono esperienze molto, molto differenti tra di loro. Lo abbiamo già detto, le nostre descrizioni sono sempre imperfette, sono solo dei primi passi di avvicinamento al reale. Ma, dal mio punto di vista, in questi luoghi la vita letteraria è appunto organizzata in attività formali, ci si prefigge di diffondere alcune precise tecniche, è cementata da vincoli economici (l’alunno paga per essere letto). Certo, prima o poi avremo anche noi il nostro Carver italiano, o forse ne abbiamo già avuti a dozzine, ma queste scuole sono ingranaggi di un sistema, oliato dal denaro, che non fa altro che alimentare la sovrapproduzione, congestionare gli spazi e, anche involontariamente, svuotare dall’interno il senso del fare letteratura oggi. Oggi scrivere e pubblicare sono un business, un’industria autoreferenziale. Abbiamo dunque inventato, con le scuole e i corsi di storytelling, una nuova forma di sostentamento per alcuni scrittori o esperti del mestiere (che peraltro magari non hanno nessuna formazione pedagogica – ah, ma prima o poi nasceranno anche i corsi per formare i docenti di scuole di narrativa) e un nuovo genere letterario, ovvero la manualistica intorno alla scrittura (che ha già una lunga tradizione alle spalle, lo so, ma che mi pare in espansione).

Ribadisco, tutti i nuovi ambienti in cui ha messo radici la società letteraria abnorme e democratica di oggi presi in sé stessi sembrano innocui. I social favoriscono i rapporti, le case editrici pensano a vendere, le agenzie aiutano gli autori nel labor limae e li supportano nella ricerca di un luogo adatto per piazzare i loro prodotti, i corsi di scrittura ti preparano a sostenere la competizione con lo storytelling delle serie tv o ti formano come esperto che potrà lavorare in uno degli ambiti precedenti, case editrici, agenzie ecc. E così via. Ciascuno fa la sua parte. Ciascuno si è specializzato.

Paradossalmente, però, nel mezzo di questo sistema, lo scrittore rischia di subire una morte per squartamento. Torturato già dai personali dilemmi interiori e dal proprio talento, sempre incerto di sé o inviso al mondo, deve resistere alle “spinte gentili” che lo tirano da ogni parte. 

Di che cosa si occupa, oggi, infatti, uno scrittore? Di tutto un po’. Se non è uno che vende talmente tanto da poter davvero vivere della propria attività creativa, è una persona che si dedica ai social, che arrotonda lo stipendio tenendo corsi di scrittura e correggendo i testi di altri aspiranti scrittori, che si occupa della promozione del proprio libro, che deve restare ricettivo rispetto ai suggerimenti della propria agenzia, perché se vuole piazzare il prossimo romanzo è bene che conosca le tendenze attuali e le richieste del mercato. Ah, già, il prossimo romanzo. Uno scrittore è anche uno che deve avere il tempo di scrivere, e di leggere, per nutrire il proprio immaginario, in sovrana libertà.

Sì, lo so, anche prima uno scrittore si dedicava un po’ a tutte queste faccende. Ma ho come l’impressione che il mondo sia drasticamente cambiato e che questo stia influendo sulla nostra idea di letteratura. E temo che la letteratura stessa rischi di morire – per eccesso di opulenza, si badi bene, per obesità, per autosoffocamento. È solo una mia impressione?

Il discorso sugli ambienti e le dinamiche che caratterizzando la cultura odierna è appena abbozzato. Non ci siamo occupati dei vari festivals, dei premi letterari, della serie imperterrita di convegni che si tengono un po’ ovunque, delle trasmissioni televisive o radiofoniche, dei vari eventi culturali che animano la Penisola. Ma tant’è, qui serviva tratteggiare a grandi linee il panorama generale. Quali segni, dunque, leggere all’orizzonte?

Io resto di base un ottimista, ma in mezzo alla metamorfosi in corso, che non si può avere certamente la pretesa di governare, mi sembra importante spronarsi quanto meno per vigilare, per favorire anche piccole scelte importanti. Perché? Perché persino i sistemi più complessi possono essere sabotati, anche da variabili apparentemente piccole. La nostra recente storia ce lo insegna. 

Vigiliamo, dunque. E continuiamo a porci determinate domande. Non per perpetuare il rito di vane, decadenti discussioni, ma per elaborare una personale e consapevole visione. Magari, qualcuno ammetterà che la Grande Letteratura è estinta e oggi ha senso solo una buona letteratura di consumo: tanto vale, dunque, adattarsi, senza lamentele. Altri invece potrebbe non essere d’accordo, e imboccherà un’altra strada, altrettanto consapevole.

Lo scisma è in atto da tempo, per chi non se ne fosse ancora accorto.

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