Il gioco delle freccette

IL GIOCO DELLE FRECCETTE CONTRO I MAESTRI (E TRA EPIGONI)

Su ciò che si ignora, si dovrebbe tacere. Ma se una massima del genere vale da qualche parte, certamente non ha cittadinanza nel mondo dei social. E poi, da scrittore, su ciò che ignoro talvolta provo a scrivere. Giusto per scoprire qualcosa, per imparare. Scrivo per grattar via la mia stessa ignoranza, per scorticarmi dal cervello i luoghi comuni e i concetti consolidati.Dunque. Siamo nel pieno delle celebrazioni di Asor Rosa. Io lo conoscevo anzitutto come manualista e polemista, ma vedo che in un post Gilda Policastro esordisce bacchettando Stefano Jossa perché anche lui (stando alla lettura della Policastro: in verità l’articolo afferma ben altro) lo inquadra mettendo a fuoco anzitutto questi fronti del suo lavoro. Apprendo invece, da Policastro, che a trentadue anni Asor Rosa avrebbe scritto “uno dei libri fondamentali della critica letteraria del Novecento”. Oddio, non so nemmeno a quale titolo alluda. Così mi aggiorno, e apprendo che si tratta di Scrittori e popolo. Credetemi, nell’affermazione che segue non c’è alcuna inflessione ironica: non sapevo che si trattasse di un libro decisivo. Non sapevo nemmeno dell’esistenza di quel libro. Mia lacuna, indubitabilmente. Mi chiedo solo se quel libro è considerato decisivo in ambito accademico, o se ha segnato una stagione per poi cedere il passo, o se sia tuttora imprescindibile. Nel dubbio, mi annoto il titolo, approfondirò, se troverò risorse di tempo ed economiche.
Ciò che però mi resta da grattare in testa è l’idea che la precocità sia in sé un valore, una prova già definitiva del genio. Se penso a certi poeti contemporanei, che hanno esordito con opere bellissime per poi scadere nella mediocrità, direi di no. Julien Gracq stigmatizzava il mondo delle lettere affermando proprio che un giovane, dopo un buon libro, sarà certificato per sempre e potrà gestire la propria carriera fino alla pensione. Io a ventitré anni, siccome intorno vedevo deserto, ho ideato e fondato una rivista, che per qualche lustro ha favorito l’emersione di una generazione di scrittori, obbligandone almeno un altro paio a guardarsi allo specchio. A trentuno anni pubblicavo Poeti nel limbo, una analisi completa (sì, avevo letto tutti-tutti i libri, o almeno quelli umanamente possibili) della generazione precedente alla mia. A trentadue anni uscivo nella Bianca Einaudi con un raccolta di testi che, almeno a livello strutturale, trattandosi di canzoni, meritava forse più attenzione. Opere modeste, probabilmente. Ma il dubbio è che conti molto anche il contesto storico decisamente mutato.
Ma parlare di sé è inelegante, può permetterselo solo Moresco. E allora proviamo a chiamare in causa nomi ben più meritevoli.
Dopo Stefano Jossa, Gilda Policastro, nel suo post, rimanda al posto anche Matteo Marchesini, che osa prendere le distanze tanto a livello critico quanto a livello ideologico dal “Gran Palindromo”. Ora, Matteo spesso è tranchant, e scivola sovente verso l’ironia e persino il sarcasmo o l’imitazione caustica. Fatico anch’io, talvolta, a seguire le sue disquisizioni, preferirei analisi stilistiche e filologiche più concrete, giudico in modo ben differente molti autori (non comprendo, per esempio, la sua venerazione per Penna), ma Marchesini è sicuramente un penna autorevole e precoce. Pubblicò sull’Annuario di Poesia anche lui un saggio, in gran parte sovrapponibile, per l’oggetto di indagine, al mio Poeti nel limbo e, da lì in poi, ha dato continuità a un lavoro critico considerevole, offrendo prove anche di coraggio in diverse prese di posizione. Ma Policastro liquida il suo giudizio su Asor Rosa (ma non solo, aggiunge la bocciatura di Magrelli, per sottolineare che il modus operandi sarebbe sempre quello) come un “tiro a freccette contro i maestri”. E aggiunge: “toccherebbe, forse, avere spalle più forti delle loro, cioè una produzione solida e incisiva, nella storia e nella critica letteraria (o nella poesia) almeno la metà, considerando i tempi mutati e tutto il resto”.
Ecco, qui mi gratto la testa per un altro criterio implicito e fantomatico: la “produzione solida e incisiva”. Ohi, a me sembra che Marchesini abbia già prodotto abbastanza, e che tutti i suoi giudizi siano corroborati da ragionamenti persino sofisticati. Come ho annotato, spesso saranno discutibili ma, vivaddio, questo è il bello della cultura. Mi viene ancora il dubbio che non risultino “solidi e incisivi” per ragioni che la stessa Policastro non esclude, ovvero “i tempi mutati e tutto il resto” (già, occorrerebbe entrare nel merito anche di questo “resto”, ma qui mi sto già arrovellando su troppe questioni).
Ho come l’impressione che tra i due contendenti, Matteo e Gilda, si assista a una sorta di gioco di posizionamenti. A distanza, i due critici si studiano, e mettono in scena varie strategie per riconoscersi, attraverso un naturale antagonismo. Forse ci sono antecedenti che mi sfuggono (ah, la mia ignoranza). Eppure anche nelle belle lettere, come in tante situazioni della vita, spesso accade così: due si incrociano e sanno subito che ci sarà reciproca antipatia. Saranno i modi di fare, la provenienza, certi indizi raccolti qui e là nei discorsi dell’altro. Se così fosse, non saprei proprio che dire, se non testimoniare un senso di noia e di nausea. Se c’è da litigare su qualche punto, lo si faccia, con passione e onestà. In fondo, basta semplicemente entrare nel merito. Marchesini stronca Asor Rosa, o Magrelli? Si prenda la sua analisi e si dimostri quanto è fallace. Il resto sono tatticismi da pavoni che lasciano il tempo che trovano – anche se incantano molti astanti e molti commentatori.
A parte ciò, mi stavo grattando il pensiero della fantomatica produzione. Dunque, conta il curriculum. Deve essere bello lungo. Altrove Policastro, se non ricordo male, provocava sostenendo che forse chi non ha letto cinque o seimila libri non dovrebbe esprimere giudizi come critico. Mi pare un criterio molto accademico, e molto discutibile. Non è l’ampiezza della bibliografia in fondo a un testo a dimostrarne l’intelligenza, per intenderci. Comunque, pare che non ci siano stati, in tempi recenti, critici capaci di esordi importanti poi seguiti da una produzione solida e incisiva. Possibile? Ho commentato chiedendomi se per caso non si fosse perso di vista qualcuno e qualche titolo. E altri mi chiede possibili esempi.
Orbene, io non ho sufficienti competenze, e soprattutto sono fuori dal giro accademico. Mi pare però che gente come Andrea Cortellessa o Roberto Galaverni o Guido Mazzoni, per fare i primi nomi che mi vengono in mente, non siano così facilmente trascurabili. Se devo pensare a un impegno allargato ad altre epoche e di impianto schiettamente filologico, penserei a Daniele Piccini.
Siamo davvero così convinti che Asor Rosa sia un gigante, un maestro, e “noi” (da Gilda al sottoscritto) semplici epigoni? Può darsi. Ma la variabile dell’epoca resta fondamentale. Forse Asor Rosa viveva un’epoca più “interessante”. Forse la società in cui si muoveva dava peso alla sua opera.
O forse, giacché si parla di critica, i suoi giudizi chiamavano in causa autori più importanti. E qui mi viene in mente ancora Galaverni, che con il suo volume Dopo la poesia ricordava appunto, fin dal titolo, come il gesto del critico giunga solo in seconda battuta, e se non c’è grande poesia non ci potrà essere nemmeno una grande critica.
È così? Siamo critici minori perché intorno non ci sono opere meritevoli su cui esercitarsi? E sarebbe giusto sminuire l’intelligenza critica di oggi, se a mancare fosse la controparte?
Non sono domande retoriche, quelle appena annotate. Mi prudono davvero.
Considerata la mia ignoranza di partenza, non saprei dunque valutare se Asor Rosa viene ora eccessivamente mitizzato o è degno, come suggerisce Policastro, della deferenza dovuta ai maestri. Ho però l’impressione che lo schema che contrappone “l’uccisione dei padri” funzionale alla maturazione dei figli al “tiro a freccette contro i maestri” per valorizzare sé stessi sia sommario e fuorviante, e ponga in partenza, surrettiziamente, un’asimmetria tutta da discutere.
Discorsi del genere mi mettono in imbarazzo. Come gli sportivi che dibattono se sia stato più grande Maradona o Messi. Vai a spiegare la differenza tra un capo-popolo capace di vincere persino a Napoli ma anche di distruggere sé stesso in un delirio di onnipotenza, e il talento quasi autistico di chi gioca uno sport che va dieci volte più veloce, in mezzo ad atleti molto più “fisicati” rispetto al secolo scorso. Vai a spiegare che nel frattempo è cambiato persino l’attrezzo principale, il pallone.
Ecco, gratta gratta, il problema a me pare questo. Siamo al di là di una frattura epocale. E, per quel che mi riguarda, letterariamente io non ho avuto alcun padre, e oserei supporre che anche molti altri della mia generazione potrebbero concordare.
Quanto ai maestri, ce ne sono in giro fin troppi.

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