La solitudine dello scrittore
La solitudine dello scrittore è un mito romantico, oppure un dato reale e costitutivo? La scena che visualizziamo, pensando alla nascita di un’opera letteraria, è probabilmente quella di un autore isolato da tutti che si arrovella con le parole e i pensieri, combatte con la pagina bianca – anzi, con il monitor e con la tastiera, ormai. Il mondo è il nemico che assedia la stanza, oppure un flusso di vita parallelo da cui pescare quel che serve, ma evitando di aderirvi, di lasciarsi travolgere dallo stesso.
La scrittrice canadese Helen Humphreys ha dedicato un libro, Un cane di nome Ivy, per indagare i rapporti tra Solitudine, legame e scrittura (come recita il sottotitolo), raccontando quanto «i ritmi lenti e contemplativi imposti dalla mia vita di scrittrice» siano scombinati dalla «vivacità caotica di un cane giovanissimo»:
Essere scrittrice è complicato perché il nostro è un lavoro solitario e allo stesso tempo totalizzante. Non mi sorprende che molti autori soffrano di disturbi mentali, facciano uso di droghe, e in certi casi arrivino al suicidio. È difficile mantenere l’equilibrio quando svolgi una professione che ha una componente così profonda di instabilità e porta con sé il germe del fallimento. È difficile conservare la vulnerabilità necessaria al processo creativo e allo stesso tempo rispondere alle esigenze della vita, far quadrare i conti, e gestire insuccessi e rifiuti che in questo campo sono moneta corrente. I rifiuti sono una costante nella vita di uno scrittore, non importa che si tratti di denaro, riconoscimenti o di un manoscritto non pubblicato. Non finiscono mai. A volte la solitudine è la parte più semplice.
Eppure esistono aneddoti o esempi anche diversi. Ci sono libri scritti a più mani, pensiamo alla coppia Fruttero-Lucentini o al collettivo Wu Ming, per stare su esempi a noi prossimi. Possiamo immaginarci, in sodalizi come questi, modalità di lavoro piuttosto diversificate. Si andrà da chi davvero lavora in sinergia, discutendo ogni passaggio e scrivendolo insieme, a chi alterna momenti di progettazione condivisa e di revisione a momenti di scrittura individuale, a chi soltanto in una fase già conclusiva mescola, ricombina, corregge, uniforma un testo. Le possibilità sono molteplici.
Sappiamo di autori americani di bestsellers lanciati senza soluzione di continuità sul mercato che lavorano contemporaneamente a più testi. Avete presente quei libri in cui compare, accanto al nome dell’autore famoso, a caratteri cubitali, una scritta più piccola, che aggiunge un altro autore? James Patterson – con Mark Sullivan. Ecco, in questi casi molto spesso a scrivere realmente il testo è il secondo autore citato. Magari scrive sulla base di un input ricevuto, oppure si è proposto sua sponte con un’idea, ma in ogni caso la stesura effettiva dell’opera spetta a lui. A differenza però del ghostwriter, lo scrittore famoso interviene, in modo più o meno sostanzioso. Come una sorta di regista, legge il testo, al punto della stesura in cui è arrivato, e annota consigli, variazioni o altro. Magari aggiunge materiali di suo pugno. Si limita insomma ad aggiungere il suo inconfondibile tocco.
L’autore celebrato (assistito da chissà quante altre figure di collaboratori specializzati) in questo caso diventa una vera e propria industria, con tanto di moderna e flessibile catena di montaggio, per produrre libri per tutte le categorie: thriller, romantici, per ragazzi. Poesia anche? No, la poesia non vende, se un autore di questo calibro si dovesse occupare anche di poesia sarebbe solo per darsi un tocco di prestigio, per rivendicare, malgrado le apparenze, la presenza di una vocazione letteraria genuina.
Ma non è mia intenzione irridere una simile modalità di lavoro, anche se di simili scrittori invidio indubbiamente gli introiti, ma non l’opera e nemmeno l’attenzione mediatica o il prestigio sociale. Mi vengono in mente, a proposito di nobili collaborazioni, le botteghe degli artisti rinascimentali, le opere in cui il maestro, dopo essersi occupato delle figure principali, demandava le campiture e il completamento dell’opera ai suoi allievi.
Chi sta seguendo il mio discorso avrà però capito che qui la scrittura si intende ancora come un’avventura che chiama in causa la personalità dell’autore, le sue scelte radicali. Il che non significa che la scrittura non possa aprirsi a qualche forma di collaborazione, ma si tratterà di casi piuttosto eccezionali e con caratteristiche davvero peculiari.
Qui tralasciamo anche il discorso che riguarda il processo di compimento di un’opera dopo la sua stesura individuale, quando intervengono i primi lettori, quando si ricevono suggerimenti da altri scrittori o dalle figure professionali del mondo editoriale: di questo parleremo in altra occasione.
Dunque, a noi piace ancora l’idea di un autore che effettivamente è solo, durante il processo di scrittura. Ma vorremmo anche mettere meglio a fuoco questo concetto.
Intanto, il mondo non è chiuso fuori dalla porta. Certo, ci sono scrittori che riescono a lavorare per alcune ore della giornata in uno spazio riservato, senza distrazioni, senza la moglie che reclama una mano per le pulizie o i figli che hanno bisogno di un aiuto in qualche faccenda – per non parlare delle bollette, delle mail di lavoro, degli altri scrittori che cercano un consiglio o addirittura sperano in una dettagliata analisi del loro inedito, e coì via. O beata solitudo, o sola beatitudo. (Io, qualche minuto di effettivo isolamento riesco a ritagliarmelo – e non sempre – a fine giornata, quando, anche se stanco, mentre tutti dormono, arranco verso la scrivania, entro nel cono di luce della lampada, e graffio qualche parola sulla pagina). Il mondo, dicevamo, non è chiuso fuori dalla porta, ma è convocato sulla pagina. Sia perché nell’immaginario dello scrittore ci sono tutte le scorie, ma anche i tratti più significativi, della sua epoca, sia perché una parte di mondo, filtrata dalla fantasia, rielaborata inconsciamente, concettualizzata secondo la visione complessiva dell’autore, viene convocata, come parte interessata in un processo – difesa o accusa a seconda delle circostanze – nell’opera che si va formando.
E quando si usano le parole, ovvero una lingua che ci precede e che è più grande di noi, si è per forza in dialogo. Riceviamo la parola da altri e ad altri la rivolgiamo. Quando si scrive, si è nella tradizione, si ascolta la propria voce, dentro a un coro, e si cerca l’armonia in quel coro o il contrasto, il contrappunto appropriato.
Quando qualcuno afferma di scrivere per sé stesso, credo intenda rivendicare autonomia e autenticità, libertà da qualsiasi forma di committenza, esterna o interiorizzata. Insomma, rivendica il movente originario, intimo e potente, che lo muove all’impresa. Anche chi non ha un pubblico, nel suo “io” si confronta quantomeno con i propri modelli letterari, e probabilmente anche con qualche figura umana concreta, una porzione di umanità che, se esiste, è una comunità più o meno identificabile e, se non esiste, è una comunità ideale, desiderata, sognata.
Insomma, la solitudine di uno scrittore è popolata e noi qualche volta confondiamo questa solitudine con la concentrazione, come sottolinea Manuela Mazzi:
“Non c’è niente da fare: […] scrivere, anche quando lo si fa in solitudine, alla fin fine è sempre un recupero di relazioni passate, e un investimento nelle relazioni future, come minimo.
E per concentrazione intendiamo la capacità, nella folla di voci che si intreccia creando l’illusione dell’identità, di ascoltarsi e di ascoltare, di sfondare le pareti dell’ego, di dare spazio e voce, qui e adesso, al mistero fondativo dell’essere, all’altrove in cui radichiamo le impalcature della coscienza.
BIBLIOGRAFIA
- Helen Humphreys, Un cane di nome Ivy. Solitudine, legame e scrittura, Playground, Roma, 2022, p. 183
- Manuela Mazzi, Tutti scrittori! Come difendersi dai corsi di scrittura creativa, Novate Milanese, Prospero, 2022, p. 113
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