La donzelletta

Pensare per immagini

Un giorno – erano gli anni dell’università – un mio amico di Verona mi ospitava per un fine settimana. Si avviò spontaneamente una discussione. Partita da amenità che non nominerei nemmeno se le ricordassi, finì, come capita tra giovani, per concentrarsi sui massimi sistemi dell’universo. Era una controversia razionale e filosofica (Francesco, il mio amico, studiava Giurisprudenza), ma a un certo punto, mentre tutte e due guardavano nel buio della stanza il soffitto, l’amico mi disse: “Si sente che sei un poeta”. Gli chiesi che c’entrasse ora quell’affermazione, visto che si discuteva di tutt’altro, chiamando in causa argomenti scientifici, semmai. “Tu pensi per immagini”, mi rispose.

Del “pensare per immagini” si era occupato, da par suo, Italo Calvino, nella celebre lezione sulla Visibilità.  «Da dove “piovono” le immagini nella fantasia?», si chiedeva, rispondendosi così:

Dante aveva giustamente un alto concetto di se stesso, tanto da non farsi scrupolo di proclamare la diretta ispirazione divina delle sue visioni. Gli scrittori più vicini a noi, (tranne qualche raro caso di vocazione profetica) stabiliscono collegamenti con emittenti terrene, come l’inconscio individuale o collettivo, il tempo ritrovato nelle sensazioni che riaffiorano dal tempo perduto, le epifanie o concentrazioni dell’essere in un singolo punto o istante. Insomma, si tratta di processi che anche se non partono dal cielo, esorbitano dalle nostre intenzioni e dal nostro controllo, assumendo rispetto all’individuo una sorta di trascendenza.

(Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 86)

Processi che esorbitano dalla nostre intenzioni e dal nostro controllo: così Calvino.

Anche noi abbiamo sostenuto che, più che sforzarsi di ideare la propria storia, lo scrittore dovrebbe semplicemente trovarla, o addirittura farsi trovare. Deve essere ricettivo e pronto per cogliere quel particolare spicchio di mondo e di storia che attende il suo sguardo, che solo la sua voce può raccontare. Ciò significa che lo scrittore è investito da una visione, da una scena o una storia o un personaggio che gli parlano, e si mette a scrivere per capirli, non perché debba trasmettere un messaggio già decodificato.

Sembra di raccontare un’esperienza quasi mistica, spiegata in questi termini. E allora proviamo a tradurla in esperienza con qualche esempio concreto.

Ipotizziamo che l’incontro e il dialogo con qualcuno, o qualcuna, abbia lasciato un segno profondo nell’animo di chi, poi, decide di affrontare la pagina per fissare quella situazione. Potrebbe essere l’inizio di una storia d’amicizia o di amore, comunque un piccolo evento destinato a cambiare l’esistenza, quindi ritenuto particolarmente significativo, degno di essere salvato sulla pagina. Qui, per comodità, ipotizziamo che lo scrittore desideri trasformare l’esperienza in una poesia.

In fondo, l’episodio potrebbe essere racchiuso in un’annotazione essenziale:

Le tue parole mi hanno turbato.

E’ una frase elementare ma esatta. L’errore che talvolta si commette è quello di partire da un pensiero astratto, per cercare di trasformarlo, volontaristicamente, in un’immagine. Così le parole potrebbero trasformarsi in un vento, o quantomeno in una brezza; quel turbamento, apparentemente troppo astratto, potrebbe essere riportato a qualcosa di più fisico con un richiamo al cuore del poeta, in cui la brezza riesce a scatenare… una tempesta. L’esagerazione parrebbe necessaria, per sottolineare l’importanza dell’evento. Il risultato sarebbero tre versi:

La brezza delle tue parole
Ha scatenato nel mio cuore
Una tempesta di emozioni.

Peraltro, per fortuna o per orecchio ormai un po’ addestrato, nemmeno a farlo apposta, ci troviamo di fronte a tre novenari, nobilitati da una quasi rima, un’assonanza: parole : cuore. Volendo, si potrebbe riportare al singolare anche l’ultimo sostantivo, e chiudere una catena perfetta di assonanze.

Ora, non serve un critico dal palato fine per accorgersi che il risultato, malgrado questi dettagli, è pessimo e non ha alcun valore letterario. Abbiamo messo nero su bianco solo ovvietà che banalizzano, anziché nobilitare, l’episodio. Trovo molto più sobria e precisa l’annotazione di partenza che questa goffa poetizzazione forzata. Ma qui non ci interessa valutare il risultato, quanto capire l’errore originario, il processo costruttivo fallace in partenza.

Il poeta, o lo scrittore, non traduce in immagini: pensa per immagini. Uno scrittore, con tutta la sua personalità, quindi anche attraverso il proprio inconscio, con risorse che lui stesso ignora e che la vita ha predisposto in lui, avverte la visione che gli si offre come materia per la scrittura. Direi anzi che la percepisce attraverso i sensi, non la domina, non la identifica, non la determina con la facoltà razionale. Se, attraverso la propria ragione, lo scrittore ha capito tutto in partenza, quasi sicuramente non arriverà a produrre una poesia o un racconto o un romanzo, più esattamente dovrebbe sentirsi indotto a scrivere una pagina di diario, o un’analisi dettagliata, o un saggio. Ecco perché si afferma che lo scrittore parte da un’intuizione: perché intravede un senso, ma ancora non l’ha decifrato; presagisce una trama, una storia, ma in verità gli si è presentato soltanto un personaggio, magari sconvolto, magari con le mani sporche di sangue. Ma la trama ancora non c’è. C’è solo l’immagine, un’immagine parlante.

Ancora Italo Calvino descrive molto bene, sulla base della propria esperienza, ciò che accade a questo punto:

Dunque nell’ideazione d’un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. Nell’organizzazione di questo materiale che non è più solo visivo ma anche concettuale, interviene a questo punto anche una mia intenzione nell’ordinare e dare un senso allo sviluppo della storia – o piuttosto quello che io faccio è cercare di stabilire quali significati possono essere compatibili e quali no, col disegno generale che vorrei dare alla storia, sempre lasciando un certo margine di alternative possibili. Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro.

(Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, pp. 88-89)

Un indicatore clamoroso del procedimento di poetizzazione forzata, per tornare al nostro esempio pseudo poetico, era l’uso delle specificazioni, che uniscono elementi concreti a qualcosa di astratto, o viceversa:

la brezza delle parole
la tempesta delle emozioni.

Quantomeno, si componga una poesia in cui si descriva la brezza e la tempesta, senza spiegare che cosa sono. Il lettore dovrebbe sentire le emozioni, non vedersele spiattellate davanti. Spesso, lo scrittore offre togliendo, trasmette rubando, aumenta sottraendo.

Non stiamo offrendo un precetto per la scrittura. Non arrivo a sostenere che partire da un pensiero razionale compiuto, da un progetto teorico, non possa condurre a un ottimo testo. Molta poesia che vedo oggi ben collocata mi sembra anzi molto razionale, molto costruita. Per non parlare poi della narrativa. Affermo solo che nella maggior parte dei casi, e soprattutto dei casi più felici, lo scrittore anzitutto “vede”: pensa immediatamente per immagini, non le costruisce con un atto di volontà. Può accadere, comunque, che un pensiero razionale già chiaro a sé stesso, già maturo, incontri a un certo punto un esempio, si sposi a un’occasione, si specchi in una vicenda, e dalla sorpresa di quel rispecchiamento, ne nasca una storia che trattenga la freschezza della scoperta, il fremito dell’invenzione (e “invenire”, si rammenta, significa etimologicamente “trovare”).

Anzi, se dovessi io stesso cercare un possibile esempio per contraddire quanto ho finora spiegato, potrei appellarmi persino a Leopardi. La sua poesia Il sabato del villaggio non mi sembra la scoperta, ma solo l’esemplificazione di un’idea che lui ha già ben presente, e cioè che la felicità è talmente fatua che consiste più nella sua attesa, che nella concreta realizzazione:

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
Giù da’ colli e da’ tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E’ come un giorno d’allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

La fanciulla che torna dalla campagna, la vecchietta, i ragazzi, il contadino, gli artigiani e tutti i personaggi del villaggio, che si preparano alla domenica, sono soltanto, forse, un esempio concreto per spiegare al lettore un pensiero filosofico già maturo, già chiaro a sé. Non a caso, il poeta alla fine della poesia, vuole addirittura spiegarcela. Ci offre la morale, perché in effetti ha costruito una favoletta educativa. Forse un poeta del Novecento avrebbe scelto di togliere la spiegazione, di chiudere la poesia lasciandoci vedere la noia della domenica tanto attesa.

(Tra parentesi, è proprio andata così. Anche Montale aveva iniziato a scrivere poesie in cui Contini riconosceva due momenti, uno descrittivo e uno assertivo; poi però ha maturato appieno la propria poetica degli oggetti e delle occasioni, così vicina al correlativo oggettivo, eliminando la parte assertiva, i versi insomma più ragionativi, che esprimevano direttamente il ragionamento sotteso).

Lungi da me sostenere che Il sabato del villaggio sia una poesia mal riuscita. Cercavo anzi un esempio per smentire il mio stesso assunto di partenza, giacché le regole, in poesia e in letteratura, non esistono prima, ma solo dopo la stesura di un’opera. Le regole si scoprono scrivendo. Le regole si formano sulla base della materia stessa della scrittura: il contenuto detta la sua forma – perché contenuto e forma coincidono, non sono scindibili.

E allora, prendiamo Il sabato del villaggio come se fosse un racconto. Sarebbe comunque un eccellente racconto non tanto per il suo messaggio, per l’intento educativo che possiamo riconoscervi, ma per la vivezza e l’autonomia delle sue immagini, per i dettagli che rendono reale questa scena, che parla ai nostri sensi, ci sembra viva, con quei “fanciulli in frotta” che fanno, meraviglioso ossimoro, un “lieto romore”, con quell’alba che incombe sulla lucerna dove, solitario, il falegname cerca di portare a termine il proprio lavoro. Per tutto quello che ci fa vedere e sentire, insomma, al di là di quello che ci dice.

Qualcuno potrebbe sostenere, però, che non posso sapere come Leopardi abbia concepito questa poesia, come si sia formata nella sua testa; insomma non è detto che lui abbia poetizzato un pensiero astratto, potrebbe anch’egli aver accolto una visione. Ma qui non ci stiamo preoccupando di comprendere e giudicare il genio del grande “zio Jack”, come lo chiamo affettuosamente a scuola, stiamo cercando di accogliere alcuni meccanismi particolari che presiedono alla genesi di un’opera. E, per quanti modi diversi di concepirla ci siano, credo che il più delle volte lo scrittore sia una persona con l’attitudine di pensare per immagini.

Calvino raccontava di come, da bambino, fosse affascinato in particolare dai fumetti che trovava sul “Corriere dei Piccoli” e di come, senza saper leggere, costruisse la propria personale vicenda seguendo le immagini. Mi raccontano che anch’io, da piccolo, mi intestardivo affinché mi comprassero dei fumetti, probabilmente attratto più dal regalo in plastica che era allegato, qualche pistoletta o ascia da indiano. Poi, però, anch’io prendevo in mano il libro e, mi raccontano, lo “leggevo”, senza esserne in grado. Se qualcuno volesse tentare l’esercizio, in qualche scuola di scrittura, consiglierei di ricorrere alle mirabili opere di Jim Woodring. Magari contribuirà ad allenare quanto pertiene all’immaginazione letteraria:

l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero.

(Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 94)

Comunque, stabilire la preminenza dell’immagine sulla parola o viceversa è come discutere sul sesso degli angeli. E tuttavia, per quanto riguarda il nostro Leopardi, che la donzelletta sia più una creazione della mente che un reale incontro, lo ha già spiegato bene Giovanni Pascoli, quando ha rilevato che le rose e le viole non fioriscono nella stessa stagione: chiaro indizio del fatto che Leopardi ha rovistato più che altro nella fantasia, e che non ha frequentato particolari scuole di scrittura o non si è affidato a editor particolarmente attenti, altrimenti gli avrebbero mostrato l’errore.

Ma chissà, in quel caso, se lui avrebbe comunque accettato i suggerimenti o imposto le sue ragioni, a sostegno della verità, dentro la finzione letteraria, di quelle rose e di quelle viole – una verità simbolica e musicale, o addirittura una verità misteriosa, inspiegabile, eppure indiscutibile. Come ogni apparizione.

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