Che cos’è il talento?
Ogni discorso sull’esperienza della scrittura, intesa come scrittura creativa, ovviamente, quindi non piegata alla mera funzionalità, alle logiche ristrette della comunicazione razionale, quindi non riducibile a tecnica, chiamerà infine in causa in concetto di talento. Con questa parola ci si riferisce all’elemento imponderabile, all’ingrediente non identificabile in modo certo che contraddistingue le opere di genio. È la sorgente ignota dell’arte stessa, per cui, se anche fosse irraggiungibile, è necessario tentare di approssimarsi sempre più, se non altro per certificare la sua esistenza.
Se nell’esperienza artistica c’è una dimensione sfuggente e misteriosa è perché l’uomo in sé contiene tale dimensione, che si manifesta in diverse circostanze della vita, anche attraverso esperienze semplici, forse addirittura quotidiane, di cui si ha più o meno consapevolezza.
Ci sono svariate espressioni che hanno a che fare con i margini enigmatici che scontornano il nostro essere: spirito, anima, intuizione, estasi, stato di grazia, mistero, dimensione trascendente, coscienza – ma anche inconscio o, come mi piace pensare, persino sovra-conscio, e così via. Ciascuno accresca l’elenco a piacere. È forse il caso di chiarire che qui, ogni volta che si ricorre a qualcuna di queste espressioni, lo si fa a prescindere da qualsiasi orizzonte confessionale. Non c’è una dottrina cui riferirsi, per cui ciascuno è invitato ad adattare i termini a piacere, a tradurli secondo la propria sensibilità linguistica.
Ciò premesso, è necessario entrare nel merito della questione. Proviamo dunque a chiederci seriamente che cosa sia il talento – se non altro per toglierci ogni alibi, per evitare che sia uno spauracchio, un incantamento, una suggestione, un trucco per giustificarsi, un bluff per accaparrarsi meriti ingiustamente. Impresa in sé impossibile e contraddittoria, potremmo tuttavia assolverci in partenza. Se è qualcosa di imponderabile e di indicibile, come possiamo spiegarlo? Se l’uomo non è solo linguaggio, come possiamo raccontarlo interamente attraverso il linguaggio? Il talento, verrebbe da dire, è pura esperienza. Come l’amore per Dante: intenderlo non può chi non lo prova. Però, se Dante stesso si è spinto a descrivere Dio, assumiamoci anche a noi le nostre responsabilità, si parva licet, e proviamo se non a definire, a circoscrivere, ad assediare l’idea del talento, a spingerci quanto è nelle nostre facoltà verso la comprensione.
Il talento, anzitutto, è un dono di natura oppure un’abilità acquisibile? Questa è la domanda cruciale. Se fosse un dono di natura, qualcuno sarebbe ineluttabilmente privilegiato rispetto ad altri. Se invece fosse una dote acquisibile, ci sarebbe speranza per tutti.
Inizialmente, suggerirei cautamente di tenere aperte entrambe le possibilità, ma chiamerei in causa un altro termine. Con la parola talento, sottolineerei la predisposizione innata, con la parola maestria, invece, l’eccellenza raggiunta attraverso la determinazione e il lavoro. Immagino il talento e la maestria come due sentieri, su versanti diversi, per raggiungere la medesima vetta. Ma forse sono sentieri che hanno tratti in comune, che si intrecciano, e che addirittura si confondono. Forse per arrivare alla vetta dell’eccellenza ci sono molte strade, proprio come non era unica la cosiddetta via della Seta per raggiungere l’Oriente. Personalmente, io considero talento e maestria come percorsi differenziati. Quando talento e maestria vanno a braccetto, si sommano, e le circostanze favorevoli permettono non solo la maturazione completa, ma anche la manifestazione continua e lo svolgimento integrale delle proprie doti, si raggiunge addirittura il genio.
Ma per motivare questa visione non giungiamo subito alle conclusioni, e per avviare il ragionamento, teniamo valida, per convenzione, la distinzione posta tra talento e maestria: due percorsi diversi (dono di natura, determinazione) per raggiungere l’eccellenza. Quale potrà essere il tratto discriminante tra di loro? Direi, quella che chiamiamo predisposizione. È esperienza comune quella di essersi imbattuti in individui che, appena sperimentano un’attività nuova, palesano un… talento innato, appunto, una particolare attitudine. Riescono a imparare rapidamente e in poco tempo raggiungono livelli sorprendenti di prestazione. Partono avvantaggiati, dunque. Capiscono al volo, sono intuitivi. E sembrano non faticare, o faticare molto meno degli altri, nel progredire all’interno di quel particolare ambito sperimentato, che sia la musica, il disegno, la matematica, lo sport… Beati loro, non c’è che dire.
Ma che cosa sarebbe questo dono innato? Un grado maggiore di spiritualità distribuito a qualche individuo, senza una ragione apparente? Un puro fortuito accidente, dovuto a infinite variabili sociali, culturali, biologiche e genetiche? Forse, nell’esempio dello sport, andrebbero considerate anzitutto le caratteristiche fisiche di partenza, ma siccome qui ci occupiamo di scrittura, la più concreta e immediata spiegazione della predisposizione di ciascuno la cercherei nella… forma mentis, o meglio nella specifica conformazione del cervello di un individuo. A scuola si parla ormai da tempo di diverse forme di intelligenza – anche se poi tra i banchi se ne valorizzano e allenano soltanto alcune, o soprattutto alcune. Il neuropsicologo statunitense Howard Gardner nel suo libro Frames of mind afferma che esistono ben otto abilità intellettive, conosciute anche come intelligenze multiple.
Dagli anni Ottanta in poi, la tassonomia delle intelligenze si è ulteriormente complicata, se consideriamo il contributo di altri studiosi. Qui, per necessità di sintesi, ci interessa prendere consapevolezza che, sulla scorta delle neuroscienze cognitive, certe persone sono più ricettive di altre rispetto a specifici stimoli.
Il talento è sensibilità innata, predisposizione, attitudine.
Ma l’espressione latina forma mentis ci ricorda l’importanza dell’ambiente, delle esperienze che, fin dai primi anni, cominciano a plasmare la mente. Certe doti naturali potrebbero rimanere subito represse, nascoste, frustrate. Il talento potrebbe essere ignoto all’individuo che l’ha ricevuto in dono. Se non altro, a differenza della parabola dei talenti, non si potrà attribuirgli una colpa, in tal caso. Ma pensiamo anche alla situazione opposta e favorevole: un individuo già predisposto potrebbe ricevere, fin dall’infanzia, stimoli determinanti per un ulteriore affinamento delle proprie facoltà.
Dunque nella maturazione del talento incide anche l’ambiente, l’esperienza, diciamo persino la fortuna.
In tutto questo non dimentichiamo il fattore tempo. Fin dai primi anni di vita, in particolari circostanze, un individuo potrebbe vantare potenzialità, in un determinato ambito, notevolmente superiori, rispetto agli altri.
Sentiamo però spesso parlare anche di talenti bruciati. Le esperienze di vita, le scelte, le circostanze stesse potrebbero, a un certo punto, impedire la maturazione di un talento cristallino.
Aggiungiamo allora l’indole, il carattere, la personalità che, a un certo punto della vita, e arriviamo già agli anni dell’adolescenza se non addirittura della prima giovinezza, permetteranno o impediranno al talento di maturare e di esprimersi compiutamente.
Se quanto finora abbiamo detto è sensato, si è forse compresa meglio la differenza tra talento e maestria. Se intendiamo il talento anzitutto come desiderio, sulla scorta del dizionario stesso, capiamo quanto la nascita di una passione per la scrittura, nel nostro caso specifico, in seno a una persona non particolarmente predisposta, se non preclude necessariamente il raggiungimento dell’eccellenza, rende quantomeno più complicato e lungo il percorso per raggiungerla.
Torniamo al paragone con lo sport. Saremmo stati tutti in grado, se l’avessimo voluto ardentemente, di diventare Pelé, Maradona, Platini, Ronaldo o Messi? Qualcuno potrebbe istintivamente ammettere: no, non ne avremmo avuto il fisico. Eppure i calciatori citati, e potremmo aggiungere tanti altri nomi, magari anche di difensori e di portieri, avevano caratteristiche fisiche diverse. Cerchiamo di essere ottimisti, dunque, diamoci speranza. E azzardiamo: “Sì, ne avevamo la possibilità”. Ma che cosa ci è mancato, in tal caso? Tenendo viva l’ipotesi di un desiderio sufficientemente ardente, forse individueremmo la lacuna in qualcuno dei fattori precedentemente menzionati: la determinazione, il carattere, magari anche soltanto la fortuna. “Io sarei potuto arrivare in serie A”, mi sembra di sentire la voce di qualcuno, “se soltanto non mi fossi rotto il ginocchio, se avessi avuto un genitore con più fiducia in me, se ci fosse stato un osservatore più attento durante il mio provino…”, e così via. “Sarei potuto diventare anch’io un grande scrittore, se solo fossi stato più determinato, se solo avessi avuto insegnanti migliori, se non avessi dovuto affrontare presto le necessità economiche della mia famiglia…”, e così via.
Già che ci siamo, prestiamo attenzione ai sacrifici che sono necessari, fin dalla giovane età, per incamminarsi e proseguire verso la maestria, in ambiti sportivi o affini. Certi allenamenti diventano così ossessivi da sfociare, talvolta apertamente, nel maltrattamento. Anche diversi libri hanno posto a tema questo aspetto: si pensi a Infinite Jest di David Foster Wallace o, in ambito meno finzionale, al celebre Open di Andre Agassi.
Raccontano che in passato, e non solo per Danjūrō, la via della maestria (geidō) esponeva i bambini a crudeli tirocini, paragonabili a veri e propri maltrattamenti.
(Tanizaki Jun’ichirō, Sulla maestria, Milano, Adelphi, 2014, pp. 14-15)
Al di là questo, teniamo comunque vivo il dubbio: se certi sacrifici, se certi percorsi non si intraprendono presto, forse non sarà più possibile recuperare, in seguito. Nel caso dello sport, la ragione è evidente: il fisico, a una certa età, è già formato, non è più plasmabile profondamente. E certe prestazioni sportive si possono raggiungere solo entro una certa età. Davvero chi non ha talento, chi non ha una sufficiente predisposizione innata, e un ambiente che abbia in qualche modo corroborato le inclinazioni dell’individuo, potrà, attraverso la dedizione, l’impegno, il lavoro costante, e ovviamente l’aiuto di qualche esperto, recuperare il terreno? Per fortuna il paragone con lo sport ha i suoi limiti, ci sono scrittori che hanno dato il loro meglio in tarda età… Ma è anche vero che pure il cervello, a un certo punto, è meno plasmabile: hai voglia mantenere una mente giovane quando il corpo ha seguito il suo corso naturale… Le energie, ma anche la stessa visione della vita, le condizioni in cui ci si ritrova (famiglia, lavoro, esperienze pregresse) hanno già ridotto notevolmente le potenzialità iniziali. Si tratta di un decadimento inevitabile per chiunque.
Ma diamoci speranza, dicevamo. Ci sono guru del benessere pronti a soccorrerci a ogni latitudine, la medicina fa progressi costanti, se poi un briciolo di fede (qualunque essa sia) vi permetterà di tenere allenato lo spirito, forse la via della maestria, per quanto ardua, resta percorribile. Forse, in ambito letterario, chi è dotato di talento, e ci ha aggiunto la disciplina necessaria per affinarlo, potrà costruirsi una carriera costellata di molti capolavori. Però, che bello riuscire a scriverne anche solo uno, di capolavoro. Anche in tarda età, perché no? Se poi parliamo di poesia, è proverbiale il motto per cui la grandezza di un poeta viene riconosciuta solo dopo la morte… Questi per ricordarci che occorrono doti morali notevoli per percorrere fino in fondo la strada della maestria (anch’esse non trasferibili così facilmente tramite una relazione, nemmeno in una relazione tanto elettiva quanto può esserla quella tra maestro e allievo).
Ma non scoraggiamoci. Meglio fallire nell’impossibile, che riuscire nell’inutile. La bellezza, il godimento, consiste nel viaggio stesso – se il viaggio ha senso.
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