“Scenario” di Riccardo Benzina
Si fa presto a cogliere nel procedere apparentemente prosastico dei versi di Scenario il soffio residuale ma autentico di un canto (l’improvviso dilatarsi o restringersi dei versi, in cui comunque si riconoscono misure canoniche, e certe inattese inarcature e persino violente tmesi, mi hanno ricordato le movenze dei testi di Cristina Annino); si fa presto a percepire il rollìo di una visione nelle immagini dimesse e quotidiane che scorrono nella prima sezione, Madre di nessuno, in cui essenzialmente si racconta, in una sorta di discorrere continuo, di flusso poetico raziocinante, un mito: il mito della transizione, che la nostra epoca impone di rivivere sotto forma di paradosso.
Svariati sono i verbi e i sostantivi per indicare il movimento: camminare, andare (ma “andare senza missione”), migrare, “anonimo navigare”, “transito immobile”, trasloco, e così via. Si potrebbe parlare di un moto di fuga, perché l’umanità ha alle spalle un minaccia ormai consumata, ma che ancora condiziona: “frana”, “disastro” o “trauma” non precisato, ma universale. In questo orizzonte dunque tragico ma senza declamazione, ci si muove come attendendo primavere sempre disattese. “Non c’è nessun pericolo ma l’emergenza è sempre”, ci avverte l’autore, circondato da altre persone più sopravvissute che vive (di un “sopravvivere in degenza”, oltretutto). Dunque questo andare si compie in una incongruente immobilità: ponti, rive, sottopassaggi, marciapiedi: ogni soglia è smentita, ogni strada è percorsa anche “contromano”. La stessa geografia di questo mito è ridotta: riconosciamo Bari, i suoi quartieri, le sue periferie, le sue tangenziali e le strade secondarie, ma anche la riva o l’entroterra, le Murge: sembra che la madre evocata nella sezione sia la terra stessa, scenario su cui si consuma una vicenda che è tanto personale (“Gioventù indicibile, passa: passa veloce e con / decisione fa il tuo, relega- / mi al tenero non più.”) quanto universale (“Nuova gente sotterranea / suda nel cuore dell’Europa e un’ombra sta precipitando verso l’alto. / L’altro. La manovra / è delicata”). Dunque “il mondo una volta ha parlato e adesso è zitto”, per cui si procede immobili in un epilogo che non ha fine: “Vorrei dirti la fine, lì da dove viene. Fare ciao / dall’altra parte. Ma invero / c’è poco movimento, e di sfinirsi”.
Così la negatività, nella seconda sezione, La fame, impone la spossatezza: “sto fermo lì da dove vengo – / e lì (dove sono) è dove resto. Faccio il morto / e guardo il confine”. Ma più che una resa è una resistenza: divenire adulti, farsi carico della (propria) storia impone responsabilità e dovere. Ed è nella cura della parola, nonostante tutto, che si dimostra questa resistenza, mentre più che il viaggiare adesso cresce la percezione di una “casa” da abitare. Inaspettatamente, la primavera c’è stata, ma se ne prende atto solo dopo, solo attraverso il ricordo. E tuttavia l’impulso ricevuto è inderogabile: occorre “esaudire” (verbo che apre la sezione, ma che viene ribadito anche al suo centro), ma anche “esaurire”: “Avevo esaurito le gambe le forze. Anni / che non camminavo più, / che potevo permettermi ben poco: / tirare fuori questa lingua ch’era autunno / e le onde masticavano il vento, l’alba, le / bandiere ferme”. Così l’estate trascolora in un inverno in cui le tracce della morte impongono il pensiero dell’estinzione. Ma l’explicit sorprende: “la casa, mia, tua, che/ ho deciso / che lascio”.
Così la terza sezione, Nero, si compone di un unico testo, che prosegue il filo logico (ma spesso da una poesia all’altra ci sono legami testuali evidenti, nel libro, come appunto per riprendere il discorso): “Verso Acquaviva…”, chiudendo, tra l’altro, o rilanciando, il moto di partenza della raccolta: “Sono giorni di pioggia ho camminato. Addio / Canneto e Montrone / e altre perse latitudini”: si era annunciato subito un gusto per i toponimi che richiama la lezione di Sereni, proiettata e straniata al sud. Ma con la poesia che suggella la raccolta si completa il paradosso e il movimento si rilancia solo nella fissità del limite estremo, lo strappo della morte: “Io svoltavo, per cancerose entropie”. Ci si aggrappa all’ultimo, definitivo slancio di pietà, che declina il possibile grido, ancora una volta, abbassando il tono, permettendo alla speranza, o forse solo a una consapevole ma necessaria illusione, di farsi parola: “Ma ci sarai ancora, ci saremo / ancora, ci / saliranno in testa le cicale appena dopo / il tramonto. Lunga estate. Noi andremo / per i paesi in festa nascondendo il nostro male / in uno scherzo”. La vicenda umana, il passaggio dell’uomo sulla terra, madre di nessuno, è come il bagliore di un fiammifero che ha garantito un attimo di senso ma che deve accettare di scomparire, di farsi riassorbire nello scenario.
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