Platini e Maradona, storici numeri 10

Talento e maestria

Dunque, che cosa sono il talento e la maestria? Sono una dote che scaturisce da una costellazione di fattori. Quando tutti questi fattori sono orientati l’uno verso l’altro, quando l’oroscopo è favorevole, quando ogni variabile è di segno positivo, il salto qualitativo è garantito. 

Al netto della fortuna, quale livello di eccellenza si può raggiungere attraverso il proprio controllo, ovvero attraverso la volontà? Se non abbiamo doti naturali specifiche, se le circostanze della vita che non dipendono da noi non ci sorreggono, possiamo impegnarsi per perseguire la maestria, che consideriamo, almeno a livello di principio, identica al talento.

Dunque, se non abbiamo limiti mentali oggettivi, se la vita non ci ostacola con circostanze particolari, possiamo sopperire alla mancanza di talento? In linea teorica, forse, pur ricordando tutti i dubbi sollevati, verrebbe da affermare di sì, seppure con un certo scetticismo, considerando insomma le probabilità effettive… Ma, in definitiva, ci viene da rispondere di no. Personalmente – lieto ovviamente di sbagliare, anzitutto a mio vantaggio, giacché in questo discorso io sono solo il primo apprendista – ritengo che, dopo tutto ciò che abbiamo analizzato, siamo arrivati davvero alla soglia di quel quid, di quell’elemento misterioso e sfuggente, sovrumano direbbe forse Bergonzoni (*), che non possiamo razionalizzare. Ma su questa soglia, sostiamo il più possibile. Proviamo ad abitarla, confidando nel sostegno dell’esperienza e dell’immaginazione.

Pensiamo ancora allo sport. Immaginiamo, durante una partita, il colpo di genio del giocatore di talento, la giocata che illumina lo stadio e, magari, determina la partita. Diremo addirittura che le dà un senso, la riscatta dal grigiore atletico a cui spesso si riduce lo sport oggigiorno, esasperato com’è dalla ricerca del risultato, a causa delle logiche economiche che lo controllano (o forse anche degli eventi del passato, più che dei risultati, conserviamo la memoria di questi “gesti” isolati, di queste giocate mirabolanti?). Immaginiamo, per esempio, il tocco di prima di un giocatore che libera, verso la porta, un compagno, anche se marcato, anche se apparentemente fuori della sua visuale. Immaginiamo il passaggio che solo il giocatore di talento era in grado di pensare e di realizzare. Che cosa sta accadendo? Come si manifesta il talento? Che cos’è, nei fatti, il talento? È la capacità (intellettiva e morale) di assecondare un’intuizione che scardina gli schemi, che contraddice le regole, e che, nella maestria dell’esecuzione, rende perfetto e giusto ciò che prima era considerato improbabile e inappropriato. Continuiamo ad abitare la scena. Siamo nel mezzo di una partita. L’allenatore ha preparato una squadra, che ha una sua identità, un suo gioco. Ha stabilito il piano tattico del match. Ora, la palla sta giungendo al giocatore di talento, che è perfettamente consapevole di come l’allenatore immagina lo sviluppo del gioco e, quindi, di quello che si aspetta da lui. Tutti si stanno muovendo rispettando quei dettami. Non basta. C’è anche il pubblico che lo sta condizionando, in bene o in male. Ma il giocatore di talento ha una visione. Vede un’opportunità che altri non vedono. La sua forma mentis gli permette di andare oltre, di scoprire potenzialità latenti e ancora inespresse nel gioco che sta giocando. A quel punto decide di compiere il gesto impensato. Fermiamoci: abbiamo detto: “decide”. Ma è davvero così? È il suo io che fa i calcoli e prendere una decisione conveniente? Le aspettative dell’allenatore, dei miei compagni, del pubblico su un piatto della bilancia, e dall’altra la mia visione e la consapevolezza delle mie doti… Risultato: sì, mi fido di me. Se così fosse, verrebbe da pensare che il talento implica una buona dose di presunzione – ed effettivamente la hybris è una tentazione costante, per chi è consapevole delle proprie doti. Ma, per quanto mi risulta, in quell’istante, se il giocatore dovesse spiegare che cosa sta succedendo, non direbbe: “decido”. In quell’istante non c’è pensiero, c’è istinto. Non c’è l’io: c’è il gioco stesso che si manifesta, nella sua bellezza, attraverso il gesto di un singolo protagonista, interprete di forze che lo travalicano, che lo trascinano, che lui semplicemente sa assecondare. Per questo diciamo: mi è venuta un’idea. Perché abbiamo la sensazione di averla intercettata, come ci fosse piovuta dall’alto, misteriosamente. 

Ora, quel particolare gesto di talento, non è programmabile, non si può organizzare né riprodurre. Non è uno schema. Si può allenare la tecnica, quindi la capacità di passaggio, ma non si può predisporre un’intuizione. Ci sono troppe variabili, talmente tante che consiglierebbero un altro sviluppo del gioco, con una probabilità di riuscita maggiore. E invece no, il giocatore di talento, in questo davvero solo e a rischio di restare incompreso, prende una direzione opposta. Persino la creatività si può allenare, e a scuola, vivaddio, lo si fa anche. Ma far sì che certe abilità diventino competenze (per usare terminologie brutalmente scolastiche) all’interno di un sistema così imprevedibile come è una reale partita di calcio (in cui entrano infiniti fattori imponderabili rispetto a come la si è preparata, “giocata a tavolino”), è tutt’altra cosa. Si allena la creatività, ma la creazione continua a sottrarsi al nostro controllo.

L’immagine del gesto di talento in mezzo alla partita forse è meno peregrino di quel che può sembrare, applicato alla letteratura. Quanta disciplina, quanto lavoro sarà stato necessario a quel giocatore per trovarsi lì? Quanto studio, quanta applicazione servono a uno scrittore? Anche la maglia che si indossa condiziona notevolmente. Certi fenomeni in una squadra hanno deluso appena cambiato casacca. E forse una squadra è un po’ come la casa editrice di cui porti la veste. Lo stile di gioco dipende anche dall’epoca e dal campionato che giochi; ma forse in letteratura è altrettanto importante la lingua e la tradizione in cui ti inserisci, e gli anni e le vicende storiche che ti sono dati da vivere. Se nel calcio è importante l’allenatore, oggi a insegnarti gli schemi giusti di gioco ci pensano le scuole di scrittura. (Quanti talenti soffochiamo, imponendo la nostra visione di gioco? Del resto, ormai, gli allenatori più aggiornati non parlano più di schemi, ma di “princìpi”). Ma come un giocatore gestisce la sua carriera grazie a un procuratore sportivo (sperando che non gliela rovini), così oggi uno scrittore si affida a un agente letterario. E poi ci sono i tuoi compagni di viaggio, quelli con cui condividi lo spogliatoio – gli altri che, come te, scrivono, e magari ti leggono, ti sostengono o ti criticano. Forse le tensioni segrete di una squadra assomigliano, a tratti, alle rivalità, alle alleanze, alle simpatie, al distacco più o meno professionale, che si riscontrano anche in un ambiente letterario – o in quel che ne resta. E poi c’è il pubblico, vasto o contato che sia, sempre determinante, sempre condizionante. Con le sue aspettative, gli applausi a prescindere, per puro amore di maglia, oppure con il suo attaccamento sincero e viscerale, pur sempre pericoloso. Per non parlare dell’antipatia a prescindere, della rabbia per la prestazione non all’altezza, o anche solo della freddezza. E, nel pubblico indistinto, ci sono quei volti riconoscibili verso i quali, magari, esultare, nel momento della gloria, perché è con loro che, a tutti gli effetti, si condividono i successi, è per loro, è grazie a loro, che ci si trova lì. E così via.

Ebbene, ci siamo soffermati sulla soglia il più possibile. Dunque, dal nostro punto di vista esistono la maestria e il talento, che non sono esattamente la stessa cosa. Se il frutto della maestria è la perfezione, il talento ci aggiunge la naturalezza. Ma, al di là di questi dettagli, la maturazione del talento e della maestria, se davvero le due strade, alla fine conducono alla stessa meta, non è programmabile. Ci sono ostacoli, imprevisti, accidentalità che condizionano troppo il nostro viaggio. Per questo continuo a pensare che il talento non si insegna, e affonda le radici su aspetti del nostro essere che non dipendono da noi, si nutre di infiniti dettagli che non ci è dato comporre, organizzare, calcolare, riprodurre e inscatolare. Non esistono pillole che, per quanto vengano assunte quotidianamente, ci permettano di cambiare la nostra conformazione esistenziale. Detto questo, riconosciuto il fatto che nasciamo pesantemente condizionati, non ci resta che motivarci alla sfida. Noi siamo, con le nostre determinazioni sociali, culturali, persino genetiche, una tastiera. Qualcuna è più ampia, qualcuna è ridotta. Qualcuna manca di alcuni tasi, qualcuna non è accordata. Non perdiamo tempo a lamentarci, essere noi stessi è il punto di partenza possibile. Detto questo, preso atto della tastiera che ci è data, sta a noi decidere quale musica suonare.

(*) Alessandro Bergonzoni – Giuseppe Sassatelli, L’arte come cura, Bentivoglio (BO), Asmepa, 2012

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