Il tempo della gratitudine

Ho praticato per anni il discorso critico, mio malgrado, piegandomi, da poeta, a un impegno che mi sembrava necessario per colmare una lacuna, per reagire a una narrazione falsificata della letteratura del mio tempo.

E ho sempre inteso la pratica critica nell’alveo della stilistica: analisi dettagliata dell’oggetto letterario, per arrivare a un giudizio credibile e motivato. Anche molto severo, come più volte mi è successo (ho recentemente scoperto un’intelligenza critica ammirevole, proprio nell’ottica con cui la intendo io: Gianluigi Simonetti, autore della Letteratura circostante). Perché oggi più che mai, in tempi tanto complessi e confusi, occorre il coraggio del giudizio.

Auspico, per il mio libro, il medesimo atteggiamento rigoroso, severo se è il caso. Stavo per scrivere: “mi aspetto”, ma non ho la presunzione di ottenere chissà quale attenzione intorno. La moneta con cui si viene solitamente ripagati, in questi casi, è l’indifferenza, il silenzio.

Ma, al di là delle attese, sono contento che la prima analisi del mio libro esca da una penna (Isabella Bignozzi) che pratica un’altra modalità di lettura. Si tratta di uno sguardo critico che empatizza con il testo poetico, che ne prolunga il linguaggio, che cerca insomma di abitarlo, per metterne alla prova l’incanto (tra l’altro, l’antologia di testi proposti dal libro è magnificamente messa in dialogo con altre opere di Tiziana Cera Rosco, quasi prolungando il contrappunto innescato con la copertina del mio libro).

Ma il giudizio è sempre implicito nella descrizione e dunque anche uno sguardo più accondiscendente, nell’abbracciare un testo, ne evidenzia tratti che innescheranno, in chi legge la lettura altrui, una simpatia o viceversa un sospetto.

Per me, dunque, se non è ancora giunto il tempo del giudizio esplicito, si è già avviato il tempo della gratitudine.

POSTILLA

(L’articolo a cui mi riferisco si trova qui, ma per comodità di lettura, riproduco qui sotto il testo di Isabella Bignozzi)

Luoghi della mente e stagioni trascorse, gli amici cari raccolti intorno a un lutto o a un ricordo d’infanzia: un sovrapporsi d’immagini che attendono nuovo passo, custodendo il senso profondo delle cose. È Andrea Temporelli, autore del riserbo e dell’enigma, che qui riappare con un’opera poetica importante, dalle ampie stanze (L’amore e tutto il resto, Interlinea edizioni 2023).

Temporelli visita e rievoca, fa memoriale: primavere a scandire i ritorni, nel cerchio che cerca il proprio centro. Sguardo nel vivere, e consegna di sé stessi a quello che verrà, su scenari mobili ma immutabili. Una natura deflorata eppure ignota, fondale di bosco dell’impervia fiaba, dell’altissima acrobazia di esistere. Sul filo, come funamboli, servire la caduta, cessando il darsi credito, disertando la propria stessa gravità.

Ci si lascia proteggere da quel sé stesso accanto, da quel sé stesso oltre, che sa di noi e degli equilibri: minuti e precisi, labirintici sensori, che d’ogni sussulto s’accorgono, e della vertigine coltivano contrappesi e simmetrie, scartando il precipitare, nell’accudirlo.

L’attesa è, per sé stessi e l’altro, attesa morale che vince il tempo, e dà fiducia senza per forza averne: l’amore è quel gesto immenso di sottigliezza, posteriore alle dure geometrie dell’esserci.

C’è, in quest’opera, un silenzio significante, di strumento posato: nei versi brevi, che sottendono; c’è, nondimeno, la lirica più musicale, che s’eleva a un salmodiare intonatissimo, nel paesaggio madido d’innocenza, epico centro di tutta una giovinezza. Una commozione in accenno s’increspa qui, dal fraseggio colto o colloquiale; e un sentire ancora, nonostante tutto.

Nel porsi onesto verso l’altro da sé, e nella dialettica col passato, quello che nitidamente s’avverte è una figura diafana, eppure salda, che osserva, arruolata al candore. Temporelli sorvola sugli stili, li indossa come vuole e va oltre, ha ali libere di grande apertura, e prontezza al dire: in sintesi o nel fasto, al gioco semantico e al canto. Non è qui, il poeta, nello stile: è più in là. Dove ruotano le età nei destini, e volteggia la vita attorno all’inconosciuta sua essenza.

L’amore, dorsale di ogni geografia, è quel dettaglio d’angelo che tutto chiarisce. A ritroso va la sua luce a ridare coordinate agli oggetti, agli spazi, ed è sempre nel segno della nascita il levarsi da un dolore che segrega nella balbuzie, inceppa nell’angolo cieco. Dunque esser sposi, farne canzone radiante, giusta voce di gioia, pur nella misura; e sempre ripartire per epiloghi che siano nuova origine.

La dolcezza stinta, sdrucita della sconfitta, dopo il clamore e i percorsi destini, e il biondo a farsi grigio, è quella mite concordia di futuro anteriore, quel lieve planare; la perdita, in Temporelli come in Zagajewski, è un traguardo soffice, aurorale, oltre il fruscio dei prati, dei libri, degli oracoli: il pane buono del lasciarsi essere pace.

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