Poeti post '68

Sulla poesia degli anni Duemila. Un racconto personale

Sarà l’età, saranno le avvisaglie di ciò che sta prendendo forma poeticamente in me, sarà che certi fumi e certe nebbie pare comincino a diradarsi, ma ho necessità di testimoniare, per la mia piccola parte, ciò che è stato, rispondendo così a un importante intervento di Elisa Donzelli, a cui farò esplicito riferimento in seguito, e ai quesiti da lei posti (intorno al rapporto che la “mia generazione” ha avuto con la memoria e con la storia in generale e, nello specifico, in relazione ai maestri letterari che abbiamo studiato, chiedendoci esplicitamente che cosa siamo disposti simbolicamente a uccidere di loro per crescere).

Questo intervento rappresenta, dunque, per quel che mi riguarda, un ultimo sguardo indietro, prima di avventurarmi dentro un orizzonte ulteriore, esistenziale e poetico (storico?). [ulteriori precisazioni del caso nel primo commento]

Senza padri

Quando, nel 1996, uscì il primo numero di Atelier, avevo ventitré anni. Ero spinto a quell’avventura da una percezione ancora confusa, ma che si andava delineando e che stava trovando man mano riscontri oggettivi, e che dunque avevo fretta di mettere alla prova.

Avevo cominciato a scrivere poesie a undici anni, appena uscito dall’infanzia e da alcuni traumi inscritti in essa, in una luce mitica e tragica che confondeva gioia e dolore, solitudine e apertura creaturale al paesaggio (le brughiere, i boschi, il lago, ma anche le fabbriche e le discariche). A quell’età scribacchiavo i miei primi tentativi con nelle orecchie vaghi punti di riferimento: le lezioni su Pascoli e Ungaretti, le visioni e i ritmi dei salmi (ho frequentato la scuola media in seminario, a Novara), che quotidianamente contrappuntavano una vita in equilibrio, non so come,  fra coesione comunitaria e solitudine individuale. Ero idealmente un orfano, ma preso nella relazione con i “compagni” di quell’esperienza.

Durante gli anni di liceo, questa passione è stata intercettata da Giuliano Ladolfi, mio docente al triennio. A Giuliano devo la strutturazione di un percorso storico-letterario, attraverso la lettura dei classici, e la scoperta di alcuni poeti latamente contemporanei per me, comunque, poco significativi (malgrado i bollori dell’adolescenza) come Gibran e Tagore. Ma certe sue imbeccate si rivelarono fondamentali, per una esplorazione  personale: Rilke e soprattutto Eliot, di cui approfondii la produzione critica. Anche Montale si rivelò una lettura determinante, ma soprattutto per la visione che ero riuscito a farmi oltre il manuale scolastico, già prima del quinto anno. Stavo cominciando a leggere i poeti del Novecento in modo completo, affrontandone l’opera integrale: era il privilegio riservato ai “nonni” letterari, figurativamente parlando. Mi era divenuto chiaro subito che il manuale scolastico doveva aprirsi a una realtà ben più ricca. Ma devo a Giuliano soprattutto l’espansione dell’esperienza poetica, sottratta al mero confronto solitario con la pagina. Quando fondò un’accademia, lui e alcuni amici più o meno della sua età (altri insegnanti, imprenditori, medici, ma anche artigiani o dipendenti d’azienda) si mescolarono generosamente ad alcuni giovani studenti di liceo (tra cui, appunto, il sottoscritto), ma anche qualche fratello maggiore alle prese con i percorsi accademici.

Una cena dell’Accademia Amici della Poesia, a Orta. In perfetta climax ascendente per chioma, eccomi dopo l’ingegner Giorgio Frattini, il futuro avvocato Riccardo Sappa, e con alle spalle il compagno di studi liceali, il futuro ingegner Nello Ferlaino

Con l’approdo all’università, la spinta a buttarsi nell’agone letterario divenne più forte. Paradossalmente, i corsi accademici mi diedero l’innesco mostrandomi un vuoto da colmare. Alla Cattolica, all’epoca, la tradizione di studi medievali era ben più consolidata e autorevole rispetto al versante contemporaneo, per cui, malgrado le lezioni di Claudio Scarpati, esperto di un Montale che in me aveva già esaurito ogni propulsione, mi formarono maggiormente, fin dal primo anno, le lezioni di Giuseppe Frasso su Dante Alighieri (anche se poi, all’esame con lui, si finì per parlare, non so come, di Zanzotto!). Qualche ricercatore “esperto” sugli autori viventi si intravedeva, ma restava fuori dalle mie traiettorie. Partecipai ad alcune lezione di Luciano Erba, docente di comparatistica, ma giusto per vedere di persona un venerando poeta. Quegli anni furono determinanti soprattutto per ciò che Milano mi regalava: un’apertura conoscitiva fatta di librerie esplorate con foga maniacale alla ricerca di novità poetiche; di eventi a cui poter partecipare (proprio in una libreria, ebbi l’onore di assistere a pochi metri al primo incontro nella loro vita fra Alda Merini e Mario Luzi: che scena!), di contatti con giovani intellettuali. Uno di questi avvenne anzi direttamente nel collegio universitario in cui alloggiavo: Daniele Piccini era mio dirimpettaio. 

In me, nel frattempo, si era irrobustita la sensazione di dover uscire da quell’orizzonte “novecentesco” che mi sembrava ormai esausto. Senza mezzi particolari, senza appoggi di alcun tipo, mi guardai attorno. Volevo fondare una rivista. Esplorai qualche ipotesi accademica: ne discussi con Francesco Solitario, docente di Estetica, che peraltro aveva una “sua” casa editrice, ma la scintilla non scattò. Misi allora pressione a Giuliano e, malgrado la nostra dimensione provinciale (che rivalutai in seguito, deluso dalla decadenza della società letteraria milanese), rompemmo gli indugi.

In principio, eravamo piuttosto soli. Anche i miei “fratelli maggiori” del gruppo fondatore, ovvero Paolo Bignoli e Riccardo Sappa (classe ‘68 e ‘67, rispettivamente), si erano al momento avventurati in altri percorsi di vita, per cui seguirono solo parzialmente l’impresa. Mi impegnai quindi a scovare e coinvolgere vari coetanei, non per scelta programmatica, ma per propensione naturale. Daniele Piccini, però, si mostrò piuttosto scettico rispetto al progetto: era maggiormente interessato a conoscere autori già attivi, sebbene ancora editorialmente sommersi, come Davide Rondoni (che aveva letterariamente conosciuto pescando sul mio comodino un libro, O les invalides, dal mucchietto di scoperte della settimana). Se di rivista si doveva parlare, era semmai attratto da esperienze di clamoroso successo come “Poesia” di Crocetti.

Con Daniele Piccini, dicembre 1999

Altri contatti invece portarono nel tempo al costituirsi del nucleo della redazione di Atelier. Si trattava comunque di un gruppo mai completamente stabile e definito, sempre aperto ad altre figure in dialogo con noi (talvolta invitate nelle riunioni), magari autonome oppure gravitanti intorno ad altre realtà (anche per motivi meramente geografici): penso in particolare a Isabella Leardini o a Francesca Serragnoli. Sono dunque entrati nell’officina letteraria della rivista, a vario titolo, davvero molti autori, anche di diverse generazioni. Un piccolo, incompleto elenco, solo per rendere l’idea, e restando all’interno di un orizzonte in senso lato generazionale, comprenderebbe, oltre ai nomi già ricordati, i contatti più continui: Simone Cattaneo, Davide Brullo, Riccardo Ielmini, Federico Italiano, Flavio Santi, Alessandro Rivali, Tiziana Cera Rosco, Andrea Ponso, Luigi Severi, Massimo Gezzi, Martino Baldi, Tiziano Fratus, Luca Ariano e Gabriel Del Sarto. Ma fra i tanti convocati ripetutamente nella nostra officina, citando alla rinfusa e con chissà quante lacune, menzionerei almeno Giovanna Frene, Elisa Biagini, Daniele Mencarelli, Igor De Marchi, Sebastiano Gatto, Laura Pugno, Giovanni Turra, Isacco Turina, Andrea Inglese, Alberto Pellegatta, Mario Desiati, Davide Bregola, Massimo Sannelli, Valentino Fossati, Andrea De Alberti, Alessandro Moscè, Giampiero Marano, Raffaello Palumbo Mosca, Salvatore Ritrovato, Italo Testa, Angelo Petrella, Alessandro Broggi, Matteo Marchesini, Stefano Massari, Alessandro Baldacci, Maria Borio, Matteo Fantuzzi, Gherardo Bortolotti

Il lavoro compiuto dalla rivista in quel decennio e più (io la abbandonai, affidandola interamente alle mani di Giuliano, nel 2013) mi pare considerevole per più aspetti e, al di là del giudizio storico che le si attribuirà, rimane a conti fatti un’esperienza centrale di quel periodo. 

La visione che mi premeva condividere (o, anche, mettere alla prova) attraverso il confronto interno ed esterno alla rivista, era la necessità-desiderio, come indicato, di uscire dal Novecento, ripristinando però un contatto con la tradizione da portare avanti: ogni contrapposizione sarebbe ricaduta infatti in un gioco avanguardistico a sua volta tipicamente novecentesco. Si trattava di riprendere le fila del discorso, dunque, per innovare e superare l’eredità del secolo, ciascuno secondo la propria prospettiva (giacché ogni tradizione è in realtà un fascio di diverse tradizioni, di correnti e di tendenze che si attraggono e respingono, ma che in questo si tengono insieme, definendo un campo di forze generativo e aperto). Se il cuore del Novecento era rappresentato dagli autori più canonici che ormai mi pareva di aver assimilato (benché, sia chiaro, le riletture non terminano mai), insomma da quei “nonni” ampiamente storicizzati all’interno di un canone che comunque Giuliano Ladolfi riprendeva e rivalutava, il discorso diveniva avvincente e imprudente quando si rivolgeva all’ultima generazione in qualche modo certificata. Gli autori riconosciuti e importanti in quegli anni, per esplicitare i riferimenti, erano Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Roberto Mussapi, Patrizia Valduga, Eugenio De Signoribus, Franco Buffoni… (l’elenco è aperto, lo si completi a piacere). Tra “noi” e “loro” non c’era rapporto diretto – non ancora, se non per minime occasioni personali. Questi autori avrebbero potuto essere letterariamente dei “padri”, ma credo che quella “generazione del ‘68” (Raboni) abbia vissuto dinamiche decisamente particolari, chiudendosi almeno per molto tempo in una sorta di autoreferenzialità (pur con luminose eccezioni, su tutte la serie dei Quaderni italiani di Buffoni, figura che entrava nel novero dei maggiori della sua generazione proprio in quegli anni e anche grazie a questo suo ruolo strategico): si rilegga in questo l’intervento di Cesare Viviani, Una generazione di anarchici e autolesionisti. Tra “noi” e “loro”, inoltre, non erano ancora emerse esperienze poeticamente mature e determinanti. Nella catena di un’ideale trasmissione si era perduto forse un anello, una generazione intermedia. Non che questo rappresentasse una colpa imputabile ad alcuno: era un dato di fatto motivato anche da precise contingenze storiche e sociali. E non mancava, al contrario, chi, come il già citato Davide Rondoni, aveva pur messo in moto dinamiche aggregative e battaglie letterarie a più ampio raggio (ma, su questo, ci siamo scornati a vicenda). Altri però, che cominciavano ad affacciarsi in situazioni di prestigio (Dal Bianco, Vitale, Riccardi), apparivano sulla scena come campioni estrapolati da un contesto ignoto, inesplorato. Ciò non significa che non potessero essere effettivamente i migliori rappresentanti della nuova poesia, ma semplicemente che alcuni fattori contingenti (il prestigio di una collocazione editoriale, per esempio) potessero privilegiare alcune voci rispetto ad altre, magari altrettanto significative. Da qui, il mio lavoro critico sui Poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione, del 2005 (in verità, 2004; un saggio in parte sovrapponibile fu firmato anche da Matteo Marchesini, per un “Annuario di Poesia”); ma già nel giugno del 1998 Atelier licenziò un Omaggio alla poesia contemporanea che antologizzava autori come Anedda, Benedetti, Bocchiola, Bonito, Ceni, Dal Bianco, Damiani, Deidier, Di Palmo, Donati, Farabbi, Fiori, Gardini, Guzzi, Iacuzzi, Marotta, Pusterla, Riccardi, Ritrovato, Rondoni, Sissa, Tarozzi, Villalta, Vitale e Zuccato: non male, direi. C’era anche chi, invece, cominciava a emergere in poesia forse più per la spinta del credito acquisito in altri ambiti. Aldo Nove, per esempio (altro che poi, all’interno della sua generazione, si è generosamente speso anche contro l’establishment), è divenuto un caso con Woobinda: diversi critici hanno impietosamente notato la forbice che intercorreva tra la vivacità della narrativa “giovane” negli anni Novanta e la poesia, soffocata in sé stessa nel tentativo di difendere la propria nobiltà letteraria rispetto alla cultura “pop” dilagante (ma presto Rondoni avrebbe siglato i suoi libri, giunti a soglie editoriali prestigiose, con citazioni da Vasco Rossi). A conti fatti, se di Vitale (malgrado le successive pubblicazioni) e di altri si sono poi perse le tracce, i percorsi di Dal Bianco e di Riccardi sono stati confermati, anzi si sono rafforzati con la (tardiva?) consacrazione di un sodale come Mario Benedetti (a cui va aggiunto Gian Mario Villalta, altro autore che ha assorbito dai propri romanzi una forte spinta propositiva). Nel frattempo, si sono imposte individualità allora “emergenti”: anzitutto quelle di Anedda, di Pusterla e di Fiori, ma anche di Pierluigi Cappello (l’entusiasmo della sua “scoperta” temo però sia ora in fase calante), di Guido Mazzoni (peraltro, imprescindibile anche come studioso), di Mariangela Gualtieri (che pure anagraficamente è del ’51), di Maria Grazia Calandrone e di Giovanna Rosadini (edite, queste ultime, anche nella serie di libri di Atelier). A questi autori aggiungerei, non solo per predilezione personale, almeno Edoardo Zuccato, Paolo Febbraro (importante, nel frattempo, sarà anche l’esperienza degli Annuari di Poesia diretti da Manacorda, ma presto supportato, appunto, da Febbraro e da Marchesini) e Marco Munaro (si veda poi la splendida attività editoriale con le edizioni Il Ponte del Sale). Ma si tratta di un altro elenco del tutto aperto: non voglio qui entrare nel merito di un possibile canone duemillesco che finalmente si sta sbozzando: non sarebbe di mia competenza. Anzi, è opportuno riavvolgere il nastro e ricordarci che la lista qui avviata all’epoca includeva molte altre scommesse, non ancora perdute: in quegli anni si trattava di autori tutti sconosciuti ai più.

“Noi” e “loro”

Quando “noi” autori tra i venti e i trent’anni (in seguito Mario Desiati elaborò la sigla TQ, come è noto), animavamo la stagione di Atelier, l’ultima generazione attestata era dunque quella dei nati alla fine degli anni Quaranta o nei primi anni Cinquanta (con l’aggiunta dell’enfant prodige Valerio Magrelli), e tra “noi” e “loro” c’era una serie informe e molteplice di esperienze tutta da decifrare. Una palude, o una selva oscura, magari ricca di tesori che rischiavano di sprofondare nell’oblio.

Credo che uno degli elementi di maggiore tensione, alla lunga logorante, rispetto al dibattito interno di Atelier, sia da rintracciare proprio in merito alla valutazione di tali autori e alla postura da assumere nei loro confronti. Di per sé, come sempre, la differenza di vedute è una ricchezza, finché si riesce a portarla all’interno di un dialogo costruttivo. Certe mie decise prese di posizione, in particolare rispetto a Cucchi, De Angelis e Magrelli (autori di libri a mio avviso memorabili, ma anche con una cifra stilistica altalenante oppure con implicazioni sottilmente inquietanti), avevano sicuramente turbato altri, che non condividevano tali riserve o che vivevano le vicende letterarie in modo più conciliante, meno battagliero. Ma, come detto, i punti di vista all’interno di Atelier erano diversificati e complementari, come dimostrano i susseguirsi dei numeri, delle occasioni di dibattito, delle aperture a posizioni differenti. 

Credo che, al di là di ciò che avvenne all’interno del gruppo di Atelier, il rapporto fra “noi” e tali “padri putativi” possa ancora adesso diversificare le esperienze di tanti “poeti post ‘68” (sigla su cui tornerò a breve). In rapporto a quella generazione, insomma, si apre uno spettro interessante, che ridistribuisce i poeti nati negli anni Settanta (e successivi, suppongo) su diverse traiettore: si va dalle posizioni di chi ha rivendicato una maggiore autonomia, pur non disconoscendo il valore letterario ormai storicizzato di tali autori; a posizioni intermedie, tra scetticismo sottaciuto o plauso implicito; fino ad arrivare a posizioni di pieno riconoscimento autoriale. Per quest’ultimo caso, citerei Isabella Leardini, con la sua emblematica esperienza dei Festival di Poesia, in cui erano convocate più generazioni, con spazi per i maestri e per le nuove proposte ben differenziati. La collocazione degli altri invece si dovrà ricavare via via e per ciascuno dalle opere, dagli interventi critici, dalle vicende biografiche. Va da sé, e spero che questa precisazione risulti pleonastica, che nessun collocamento in una di queste traiettorie significa alcunché, da un punto di vista di valore letterario. 

A segnare la fase declinante della stagione di Atelier, intervennero comunque anche altri fattori. Alla parabola fisiologica di ogni gruppo (destinato a passare da una fase nascente a una di “istituzionalizzazione”, prima di un inevitabile scioglimento), si sovrapponevano le vicende personali dei protagonisti: il trascolorare della giovinezza comportava scelte forti in svariati ambiti: lavoro, famiglia, trasferimenti, scelte esistenziali, e così via. Ma un evento tragico divenne il simbolo, per noi, della fine di una stagione: il suicidio di Simone Cattaneo. Era il settembre del 2009.

Poi, richiusa la fossa, ognuno scese
in un gorgo di paura e fortuna.

Chi indaga il vuoto
stagione su stagione e chi col brandy in mano
esplora in versi i domini d’Europa.
Chi sul divano sfregola
un novecento di sconforti e chi
startufa l’epoca nella provincia.

L’appello ci precede.
Il tempo per esistere fu quello.
Così per noi fedeli d’amore senz’amore
adesso scrivere
è pasqua in un aborto: liberare
il torsolo di morte
dal marmo del sudario.

Racconto tutto ciò, poeticamente, nella prima sezione della raccolta L’amore e tutto il resto. Non aggiungerò altro.

Dopo un breve tentativo di rilancio, per esigenze personali che ho in parte spiegato altrove e per alcune divergenze di vedute, decisi infine di abbandonare l’esperienza di Atelier. Chiesi invano di marcare una discontinuità quantomeno aprendo una nuova serie. In ogni caso, l’operato della rivista dopo il 2013 è un discorso che, nel bene e nel male, non mi riguarda.

Borgomanero, 17 giugno 2006. Cesare Viviani, Tiziana Cera Rosco, Massimo Gezzi, Giuliano Ladolfi, Simone Cattaneo (che sovrasta tutti), Federico Italiano. Poi, dopo la mia improponibile maglietta rosa, Alessandro Rivali, Giovanni Tuzet e Davide Brullo

Poeti post ‘68

Recentemente, Elisa Donzelli è ricorsa a questa sigla per identificare chi (nato negli anni Settanta e Ottanta) non è riuscito ad auto-organizzarsi come “generazione”. Concordo pienamente con il quadro di partenza, in particolare mi hanno colpito i richiami a Fortini e Sereni, “nonni” a cui mi sono effettivamente rivolto con interesse anch’io, e i termini con cui si delinea il contesto storico e sociale che ci contraddistingue. Mi pare che questo suo discorso, se non lo fraintendo, riconosca il tentativo storicamente svolto da Atelier, ma nel contempo ne registri il fallimento. In qualche modo, dunque, le difficoltà della generazione che ci aveva preceduto hanno avuto la meglio anche su di noi. L’avvento del web e altri mutamenti sociali importanti hanno contribuito notevolmente a un cambio di paradigma, che ha imposto varie questioni nuove e amplificato quelle pre-esistenti: la sostenibilità di una produzione letteraria ipertrofica, per esempio, o il dissolversi di una società letteraria che filtri le individualità e delinei una tradizione, o ancora il (mancato) superamento dell’orizzonte poetico novecentesco. Su tali argomenti, altrove, mi sono espresso.

Nell’ultimo decennio, per quel che mi riguarda, ho preso un po’ le distanze dal mondo letterario, perciò non sarei più in grado di offrire uno sguardo con una minima speranza di completezza, intorno alla “letteratura circostante” (sigla di Gianluigi Simonetti). Ho vieppiù dismesso l’attività critica, tra l’altro. E ho lasciato decadere ogni contatto o, per meglio dire, ho preso atto del distanziamento altrui, salvo rare eccezioni. Tra queste, in particolare, il dialogo è continuato con Davide Brullo, nel segno forse di una radicalità che ci avvicina, pur nelle differenze evidenti (tra l’altro, abbiamo intrecciato le nostre voci in un dialogo poetico che sarebbe stato bello pubblicare, ma ormai Davide, nel suo recente Lince, ha incorporato la sua parte: il dialogo si attuerà dunque a distanza, se e quando vedrà la luce una mia nuova raccolta). Recentemente, comunque, la vita mi ha regalato qualche ricongiungimento, a cui spero faranno seguito altri. Per quel che in ogni caso mi è parso di capire, dal mio mutato e ristretto ambito di osservazione, l’esperienza più significativa, l’ipotesi poetica che maggiormente va presa ora in considerazione, è quella che riconduce a un’idea di post-poesia. Si veda in questo il percorso di Marco Giovenale (e sodali), altro autore incluso nella collana di poesia diretta dalla stessa Donzelli – serie che ha dunque il pregio di tenere insieme esperienze diverse: caratteristica che, chi scrive, non può che apprezzare.

Ma occorre acquisire la consapevolezza, per tornare alle espressioni proprio di Elisa Donzelli, che ci siamo rivelati anche noi «una generazione che non c’è, e non può esserci»:

«una ‘non-generazione’ di poete e poeti che ha vissuto la propria giovinezza a cavallo del nuovo millennio ed è percepita, o si percepisce, ancora con fatica come voce adulta. Perché si accorga, tra progresso e dissolvenza, di se stessa. Soprattutto, perché si accorga di non essersi accorta.» 

Questi, probabilmente, saranno gli anni in cui alcuni di noi usciranno dalla linea d’ombra, gli anni dei libri di una piena maturità – ci si auspica. E, siccome da tempo sono certo del valore di alcuni compagni di strada, non sarei sorpreso di ritrovare, fra le figure di spicco della “generazione mancata” a cui (forse) appartengo, alcune delle individualità che già si erano precocemente palesate e parzialmente aggregate, tra fine Novecento e primi Duemila. Il mio sospetto, d’altronde, è che, se la generazione dei padri putativi che scrutavamo allora all’orizzonte ha avuto la capacità di imporsi con esordi perentori, la generazione dei poeti post ‘68, in parte battezzata confusamente con una sequenza inusuale di antologie che ci ha messi in fila e fotografato nella nostra impossibilità di co-esistere, potrebbe rivelarsi all’opposto capace di una decisiva crescita di libro in libro. La sfida è insomma di conquistare con il tempo una fisionomia sempre più marcata, temprati dalle vicissitudini dell’epoca, dai mutamenti sociali e dalle difficoltà affrontate in ambito letterario (ricordiamo che negli anni Settanta un giovane esordiente o quasi poteva senza troppe difficoltà inserirsi anche nei cataloghi delle maggiori case editrici nazionali, mentre in seguito si è assistito a una contrazione degli spazi editoriali senza precedenti). Idealmente, per tenere insieme i capi del percorso compiuto dai poeti post ‘68 e misurarlo, direi che si potrebbero prendere gli estremi delle edizioni di Atelier e della collana poetica di Donzelli editore – abbracciando ovviamente gli altri spazi che si sono nel frattempo aperti e qualificati, da Marcos y Marcos a Elliot, da Industria&Letteratura a Interno Poesia.

Alcuni libri delle edizioni Atelier, più quello complessivo di Cattaneo, in una recente foto di Simone Migliazza (grazie!)

Del resto, l’approccio generazionale ha una sua limitata utilità e sensatezza. Andrebbe corretto, per esempio, tenendo in considerazione più gli esordi letterari dell’anagrafe o comunque lasciando aperta una generazione a tutte le acquisizioni successive, dovute a vicende biografiche, editoriali o anche semplicemente a una diversa maturazione artistica (per esempio, un altro autore che potrebbe inserirsi fra i “padri”, in questo mio racconto, sarebbe Alberto Bertoni). Ma il punto è che, alla fine, contano solo i libri. A cavallo fra Novecento e Duemila, io pensavo all’opera comune come a una rete che garantisse un credito di esistenza, che permettesse libertà e autonomia, in modo da non dover scrivere e agire letterariamente per compiacere nessuno. Allora, un simile “nucleo di società letteraria” garantiva riconoscimento e cura anche per un libro edito in circuiti minori (del resto, le collane di poesia erano davvero poche, e controllate da pochissimi “padri”). Oggi, una rete generazionale avrebbe forse una funzione opposta: nella marea di proposte, sui social o su vari canali editoriali sempre più accessibili, un dibattito interno (purché selettivo, esigente, sincero) funzionerebbe come filtro per additare opere a cui dedicarsi, per curarle, promuoverle, farne memoria. E ben vengano iniziative come quella di Elisa Donzelli, se servono a tale scopo.

In ogni caso, le ragioni della differenza specifica fra presunti padri dagli esordi felici e ipotetici figli dalla maturazione difficile, andranno rintracciate in gran parte nei mutamenti sociali qui appena evocati, ma noti a tutti, piuttosto che prese come indicatori assoluti di valore. «Non possiamo allora colpevolizzarci troppo pensando alle ragioni ‘collettive’ che contraddistinguono il nostro non essere in comune», ci scagiona Elisa Donzelli.

La domanda sostanziale, tuttavia, non ha ancora risposta. Tra ciò che fu il Novecento poetico e la poesia duemillesca c’è continuità oppure discontinuità?

I meri fatti testuali (post-poeti a parte) sembrerebbero confutare le ragioni che mi spinsero, anni fa, a intraprendere una certa battaglia culturale: le forme, i toni, le sembianze complessive parlano di una continuità rispetto al repertorio del secolo scorso, nel segno di un postmoderno o di una ipermodernità che sia (sigla, questa, di Raffaele Donnarumma). Ma forse l’effettiva novità della poesia di questi decenni necessita ancora di tempo per manifestarsi compiutamente, poiché andrà rintracciata in elementi più sottili e sfuggenti: antropologici, esistenziali, che marcheranno una distanza rispetto al male di vivere, alla fuga ironica, o persino alla foga sperimentale, più o meno euforica o nevrotica, al lirismo disilluso o al gioco consolatorio tipici del Novecento. Del resto, le forme sono state più o meno esperite tutte. Da secoli. L’anima che muove oggi le nostre parole, però, potrebbe essere già differente. 

Prendetevi il tempo che vi serve, per accorgervene.

1 commento
  1. Andrea Temporelli
    Andrea Temporelli dice:

    Annoto qui quanto scritto rilanciando su FB l’articolo:
    ATTENZIONE: quello che segue è un post lungo, che vi invito a leggere, se vi interessa, sul mio sito, per la migliore impaginazione ma anche per la presenza di immagini e di link.
    Si tratta di un resoconto del tutto personale, benché sincero, di come abbia vissuto dal mio punto di vista il “farsi” della poesia italiana di questi anni. Ora sta giungendo a maturità la “mia” “generazione”, ma in effetti nel testo annoto i profili degli autori che ci hanno preceduti. Lungi da me l’idea di proporre un canone, ma siccome questi nomi cominciano a imporsi, il mio racconto serve proprio per un eventuale arricchimento con punti di vista altrui. Attenzione. Non sto chiedendo: quali sono gli autori che preferite? Io stesso, nel mio discorso, cerco, pur partendo da un punto di vista personale, di annotare quanto ormai è storicamente accaduto nella poesia duemillesca. Ma è molto probabile che i miei limiti (intellettuali, geografici, ecc.) mi impediscano di cogliere fatti, eventi, ecc. (specie dell’ultimo decennio, vissuto da una posizione defilata), per cui ringrazio fin d’ora chi avrà la bontà di correggermi o integrare quanto scritto. Questo dibattito serve insomma a mettere alla prova il canone emergente (che è canone instabile al massimo grado, in quanto relativo a decenni freschi freschi, e con protagonisti, vivaddio, vivi e vegeti), ossia, eventualmente, per ribaltarlo.
    La grande domanda, sullo sfondo, è capire se tra la poesia degli anni Duemila e quella del Novecento c’è o no soluzione di continuità.
    [Scusate eventuali “personalismi” ma, come detto, questa è una sorta di pagina di diario. Se la mia presenza risulta ingombrante, fate la tara, spernacchiatemi, tiratemi freccette, quel che vi pare, insomma. Ma guardate oltre al mio dito a quello che indico. Grazie. Ah, io non ho taggato nessuno, malgrado il discorso coinvolga molti miei “contatti”. Se credete che il testo vada sottoposto a qualcuno, giratelo voi. Rigrazie]

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