I tempi della critica. Simonetti vs Cortellessa-Zinato
Mi stavo aggiornando recentemente su una piccola polemica interna al mondo della critica e alcune affermazioni hanno sollecitato delle postille, che vi sottopongo.
In breve, Gianluigi Simonetti replica ad alcune osservazioni di Andrea Cortellessa e di Emanuele Zinato. Questi ultimi gli attribuiscono il ruolo del critico che in qualche modo legittima la letteratura circostante (per utilizzare direttamente il titolo del suo studio, del 2018), ovvero gli autori e le opere mediocri che pure ottengono successo, secondo i criteri puramente quantitativi tipici di una “società capitalista” e di una cultura ormai piegata alle logiche dello spettacolo.
Non entro nel merito. Simonetti si difende bene da solo e basta leggere il libro in questione per capire come, anzi, il fatto di essersi occupati di determinati autori e libri, presi come sintomi significativi di quanto sta accadendo alla letteratura odierna, non significhi affatto legittimarli. Anzi, una volta tanto certi romanzi sono stati analizzati e pesantemente ridimensionati, con una ponderatezza che, al momento, non ammette repliche – e che risparmia una notevole mole di lavoro ingrato a tutti coloro i quali, come il sottoscritto, si sentirebbero in dovere di mettere alla riprova le loro intuizioni (il celebre “non l’ho letto e non mi piace” di Vanni Scheiwiller), qualora fossero veramente chiamati a esprimere un giudizio (ma, come più volte sottolineato, il “mandato critico” si è perso, ovvero nessuno chiede più a “uno del mestiere” di svolgere questo ruolo selettivo). Ribadisco: Simonetti si difende da solo. Piuttosto, c’è da chiedersi come alcuni critici, abituati a comprendere a fondo opere d’arte il più delle volte francamente incomprensibili (dovrei dire concrete? asemiche? Mi aggiornerò anche su questo, con i miei ritmi), abbiano frainteso un testo in sé piuttosto limpido. Mi pare di notare però che effettivamente alcuni fini interpreti, mentre si apprestano ad analizzare la letteratura contemporanea, compiano implicitamente delle rimozioni. Hanno insomma una poetica piuttosto forte e abbastanza esplicita (per fortuna!), ma, piuttosto che prendere in esame tutto “il circostante”, applicano una damnatio memoriae preventiva rispetto a ciò che non rientra nella loro prospettiva: prassi, questa, che, a ben vedere, contraddice il loro stesso intento militante. Mi limito a lasciar ricadere questo dubbio nell’orizzonte delle impressioni benché sia scaturito dalla lettura di diversi loro studi: verifichi chi di dovere anche in questo caso.
C’è però un brano nella replica di Simonetti su cui mi sono incagliato. Eccolo:
Il fatto è che per Zinato, e credo anche per Cortellessa, «il lavoro primordiale della critica» consiste nel «distinguere» fra spazzatura e buona cucina, fra qualità individuale e media generale, e marcare una differenza strutturale e una gerarchia qualitativa. Per me invece non è così. Io credo che «il lavoro primordiale della critica» consista nel capire il senso e il funzionamento delle opere e il loro rapporto con tutto il resto, senza scorciatoie ideologiche e senza conformismi intellettuali; e che giudicare sia utile, opportuno, necessario a volte, ma che venga comunque dopo. Se questo basta a fare di me un nemico, sia; mi accontento di non passare per un apostolo del circostante solo perché ho cercato di descriverlo fedelmente.
In particolare, quel “dopo” mi è rimasto in gola. E mi ha ricordato il titolo di un altro libro, Dopo la poesia, di Roberto Galaverni, che bene o male confermava l’idea secondo la quale il critico nulla può, rispetto alla potenza della poesia. Egli, al massimo, ne risalirà l’onda. Si trattava, da una parte, di una dichiarazione di umiltà apprezzabile (la grandezza di un poeta non dipende dalla grandezza del critico, semmai sarà il contrario), ma dall’altra, ci avvertivo e ci avverto ancora una dismissione di impegno.
Quali sono i tempi della critica? Quando deve intervenire rispetto alla fucina creativa di un’epoca? Non dovrebbe svolgere, la critica, anche una funzione maieutica?
Sia chiaro, sono di quelli che preferisce guardare al critico come a una figura distinta dall’artista, anche da un punto di vista strettamente linguistico. Appena si deve pensare a qualcosa, occorre prendere anche filosoficamente distanza dall’oggetto della propria analisi. E torno con nostalgia al rapporto fra Contini e Montale, Eusebio e Trabucco: quanto l’evoluzione della poetica di Montale è in debito con l’interpretazione del critico, che ne accompagnava lo sviluppo stagione dopo stagione, muovendo dalle proprie specifiche posizioni filologiche e, perché no, anche dalle proprie predilezioni…
Mentre elaboro questi pensieri, mi appresto peraltro a chiudere un’antologia di “narratori emergenti”, come si era soliti dire, quindi da tempo sono già provato di mio dalle ovvie considerazioni che avrebbero dovuto farmi saggiamente desistere da una simile impresa: le antologie non vendono, che senso ha un simile lavoro presso un piccolo editore, chi te lo fa fare di leggere e leggere (a tue spese!) decine e decine di romanzi e cercare nella marea di proposte per trovare qualcosa di interessante, quando alla fine non ti resterà che l’inimicizia di coloro che non hai preso in considerazione… E così via.
Eppure, le mie convinzioni non vacillano. La critica ha senso anche prima e persino durante, non soltanto dopo il parto creativo. La teoria letteraria, l’impegno militante, il ripensamento storiografico sono tre lati di un’unica figura. Certamente, il tenore linguistico, la specificità degli strumenti di indagine, la diversa collocazione e chissà quante altre variabili mantengono vive le differenze dei tre approcci. E non è detto che un critico non possa specializzarsi in una sola di queste distinte “fantasie di avvicinamento”. Ma la critica in sé non dovrebbe abdicare a nessuna delle sue funzioni. Se manca la teoria, ogni poetica interpretativa rischia di afflosciarsi su una pratica estemporanea, incapace anche di innovarsi: puro bricolage. Se manca l’impegno militante, la lenta sedimentazione di un canone viene sempre più determinata da fattori esogeni, non pertinenti all’ambito dell’estetica. Traduciamolo in termini molto espliciti: le logiche economiche avranno vittoria facile su quei talenti che non si conformeranno al sistema, finendo per dimostrare a posteriori la supremazia della struttura rispetto alla sovrastruttura, secondo le logiche marxiste. Non è ancora sufficientemente chiaro? Rinunciare alla militanza critica, significa lasciar “morire” autori forse ingiustamente – e non si dica che le virgolette alte dimostrino che prendo alla leggera certi termini. Infine, se la critica intervenisse solo a giochi fatti, sarebbe come attribuirle il ruolo di un detective che ispeziona un cadavere alla ricerca degli indizi attraverso i quali risalire al colpevole, sapendo a priori che comunque il reato è già caduto in prescrizione. Il minimo risarcimento di memoria eventualmente acquisito, non avrebbe reso giustizia alle perdite già avallate. Omertà della critica: ecco, questo era il titolo del mio primo intervento , quando frequentavo i banchi dell’università come studente. Era ancora il Novecento.
Ma questi problemi, me ne rendo conto, si connettono a un dibattito più ampio, in corso da tempo, e che si interroga sui luoghi e sui linguaggi nuovi entro cui esercitare l’attività critica, ai tempi della perdita sociale del suo stesso mandato. Eppure, persino sulle pagine web si diffonde sempre più, per esempio, la pratica delle anticipazioni: si va di fretta, non c’è bisogno di leggere capire e scrivere, si compiace l’autore, non ci si espone troppo. E trovare recensioni negative, ben argomentate (per distruggere “con attrezzi nuziali”, avrebbe detto René Char), è sempre più una rarità. Nel frattempo, la pila dei libri da leggere cresce su tutte le scrivanie, mentre gli scaffali delle novità in libreria si svuotano dopo tre mesi.
Dunque, esistono ancora critici non faziosi che criticano per tempo?
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