Lo scrittore spocchioso e il pubblico ignorante. Sulla tribù endogamica dei poeti
Ogni tanto, in particolare sui social, qualcuno mi rimprovera di ricadere nella più classica delle contrapposizioni, quella che vede lo scrittore spocchioso fronteggiare la massa ignorante del pubblico, con il risultato di allontanare eventuali lettori, anziché avvicinarli alla poesia. Com’è possibile che si generi un simile equivoco? Credo che vadano considerate alcune variabili. Vediamo almeno quelle che mi vengono in mente.
1) Chi scrive, ovvero il sottoscritto, fa spesso riferimento a un’idea verticale, meritocratica, tesa all’eccellenza, del mondo letterario e dell’arte in generale. Il richiamo immediato è a un passato “aristocratico” che non c’è più, e che tuttavia mi guardo bene dall’idealizzare. Per me il problema è preservare un’idea alta di letteratura anche nel mondo contemporaneo, spesso definito più orizzontale e “democratico”. Ora, bisognerebbe intendersi sul concetto di democrazia, che non è appiattimento, non è perdita di tensione, non è annullamento delle specificità – anzi. La grandezza di una democrazia si misura sul rispetto delle minoranze, non sull’adeguamento medio agli standard. Mi spiego in modo elementare, come di fronte ai miei alunni: quando chiedo loro il giorno migliore per fissare la verifica, appena qualcuno chiarisce un bisogno personale e propone una data diversa, il resto della classe si rifugia in uno sbrigativo: “Allora votiamo”. E invece democrazia significa farsi carico, se possibile, delle richieste di tutti; è ascoltare, discutere, argomentare, prendere insieme decisioni ponderate. Se anche soltanto una persona ha un bisogno che non entra in conflitto con gli altri, si accoglie la sua esigenza. Di più, magari una singola persona è depositaria di idee in grado di migliorare l’intera comunità (aspetto insieme luminoso e inquietante, come sappiamo: è l’ambivalenza costitutiva dell’umano).
2) Chi legge, per lo più smarrito in un flusso ininterrotto di informazioni e di stimoli, scrollando sul telefonino o leggendo un intervento sul monitor del PC, non è detto che abbia voglia o tempo di costruirsi un quadro d’insieme. E sia. Però deve mettere in conto che in questo modo rischia di fraindere il senso complessivo di un impegno magari ben più ampio e che si applica su più fronti.
3) A sua volta, chi scrive, ugualmente sprofondato nel medesimo flusso, cerca di lanciare messaggi in grado di ritagliarsi qualche attenzione. Senza cedere completamente all’oratoria, talvolta un minimo di enfasi è funzionale, in determinati contesti, almeno come appiglio così da entrare nel merito, in un secondo momento, in modo pacato e approfondito. (Si aggiunga tuttavia a questo punto il difetto di una naturale propensione del sottoscritto verso l’omiletica, come qualcuno ha annotato, lascito di un’indole che forse rovescia e rispecchia alcuni tratti paterni o, ancora, vocazione effettivamente tradita, dal momento che ho trascorso gli anni della preadolescenza in seminario).
4) Come se ciò non bastasse, certe battaglie donchisciottesche perse in partenza, per esempio per restituire dignità a una specifica idea di poesia, richiamano per sé stesse una sproporzione che riattiva lo stereotipo dell’uno contro tutti.
Eppure, fatta la tara con quanto si è appena ricordato, spero che nella mia attività saggistica e critica, diciamo pure nell’impegno militante profuso in oltre trent’anni, emergano chiaramente alcuni principi che, in ogni caso, colgo l’occasione per enucleare qui di seguito.
Anzitutto, le sorti della poesia o della buona letteratura non dipendono certamente dal sottoscritto, né credo dipendano da alcun altro singolo individuo – almeno fino a prova contraria, ovvero fino alla manifestazione del genio. Ma non si chieda all’innamorato di rinunciare alle sue serenate solo perché è uno come tutti: si sorrida pure di fronte a tanta ingenuità, nel caso. Senza crepare d’invidia, però, se talvolta qualche fanciulla concede attenzione.
Da sola si bonifica
la terra vilipesa. Se io pure
procedo tutti i giorni a questi campi
è appena per vedere:
non attendo nessuno
non ho nulla da dire
piuttosto prendo appunti
su questa pasta d’alberi. Ma scrivo
impugnando uno stelo di nipitella e quindi
non troverete segni.
Secondariamente, nessuno si illude di reclutare un vasto pubblico per la migliore letteratura e la migliore poesia (qualunque essa possa mai essere: il dibattito resta aperto, in tal senso, e sarà storicamente soggetto alle revisioni del caso). Anche qui, peraltro, occorrerebbe intendersi. Potenzialmente, di lettori interessati alla poesia ce ne sarebbero, persino in numero sufficiente per competere con titoli di romanzi di successo. Ma non è questo il punto.
Il punto è esattamente svincolare il giudizio di valore di un’opera dal mercato. Non è una logica quantitativa che dovrebbe determinare il pregio di un libro. Indubbiamente, tutti auspicano che, almeno a lungo termine, in qualche modo il valore si imponga anche sul mercato, tuttavia, per motivi ben noti, non si possono dare più per scontati i meccanismi che una volta non dico garantivano, ma quantomeno lasciavano intravedere tale possibilità. Da qui, la spinta a un rinnovato impegno militante. Lungi da me, però, l’idea che la poesia possa insediarsi sul trono di spade del consenso generale. Per sua natura, essa vive ai confini: è lì che splende e conquista terreno, nella migliore delle ipotesi, per l’immaginario dell’uomo e della letteratura che verrà, o che quantomeno preme per resistere.
Dunque, in alcune affermazioni nette che hanno dato adito a quello che mi sembra un semplice equivoco (“lo spazio concesso alla poesia è il nostro ombelico”; “chi può smettere di praticare la poesia è bene che lo faccia”, e sim.), c’è il riconoscimento della mistificazione del presente rispetto alla prospettiva qui abbozzata. La denuncia di talune disfunzioni del sistema non è quindi automaticamente una lamentazione per qualcosa che si ritiene dovuto per diritto di nascita. All’opposto, è la poesia stessa che difenderà, a suo modo, la propria natura, o muterà forma, per preservare il proprio valore. Nulla è dovuto allo scrittore che rivendica il diritto alla ricerca dell’eccellenza; si chiede solo che il dibattito intorno all’idea stessa di eccellenza e, nel merito, ai criteri per riconoscerla e alle pratiche per averne cura non sia delegittimato a priori, magari appunto in ossequio a un’idea blanda di democrazia e di libertà del “pubblico”.
A proposito di tale soggetto dai contorni indefiniti, ricorderei alcune ovvietà. Anzitutto, i numeri vanno interpretati. In sé stessi, possono significare una cosa e insieme l’opposto. Tanto per cominciare, diecimila libri venduti (per prendere una cifra simbolica) non è detto che corrispondano ad altrettanti libri letti. E ogni libro letto non significa che corrisponda a un’opera apprezzata. Del resto, quando si parla di “caso” letterario, si sa che il dissenso è parte fondamentale per alimentarlo. È un meccanismo ben noto nell’audience televisiva. Quando ero in collegio, ai tempi dell’università, il tg che andava per la maggiore era quello di Rete Quattro, condotto da Emilio Fede. Per noi si trattava di un’opera di avanspettacolo, di una parodia popolare che scatenava grasse risate. Il suo pubblico non era dunque composto solo da presunti pensionati da circonvenire o da casalinghe sprovvedute, come era comodo credere.
Ricorderei, inoltre, che spesso nel “venduto” si conteggiano copie acquisite da enti, istituzioni, associazioni e quant’altro. In riferimento in particolare a personaggi influenti, nascono ulteriori perplessità sull’effettiva lettura di un’opera.
La variabile delle vendite andrebbe poi misurata nel tempo. Taluni autori di poesia, magari anche non semplici, nel corso degli anni sono riusciti a superare, nelle vendite, campioni di stagione. Ma, in questo, la nostra epoca pare radicalmente mutata: le logiche autodistruttive della distribuzione libraria imperversano e il canone si discioglie in una miriade di voci per cui, seguendo l’ideale di salvare tutti, non si salva più nessuno. Ecco uno dei punti nevralgici su cui occorrerebbe applicarsi con determinazione, per chi desidera ancora assumersi qualche responsabilità nella cura di un bene comune come la letteratura – se tale, almeno, ancora la si ritiene.
In ogni caso, come si affermava, nessuno s’illude che la migliore letteratura e, nello specifico del mio discorso, la poesia, riescano a ottenere numeri non marginali, rispetto al mercato. Questa, però, non è una dichiarazione di stupidità rivolta al pubblico. Il lettore “medio” resta sovrano. Se cerca titoli mediocri secondo il giudizio altrui (e non è detto che lo siano davvero), sarà bene che il lettore “forte” o lo stesso scrittore se ne facciano una ragione. Peraltro, lettore medio e lettore forte spesso hanno i medesimi tratti. Se mi volto a guardare la libreria, magari negli scaffali meno comodi, o se penso ai libri stivati in varie altre zone della casa, io stesso non mi sentirei di giurare sulla qualità assoluta della mia bibliotechina personale. A parte il fatto che ciascuno è despota in tali faccende, chi non cela qualche amore inconfessabile per romanzi tutt’altro che impeccabili, ma che hanno fatto breccia nel nostro immaginario, magari in un momento particolare della nostra vita? Chi non nutre predilezione per qualche strano autore minore? Chi può dirsi immune dal fascino popolare di certi libri? Ancora: spesso a me capita di acquistare, per i motivi più svariati, libri verso i quali nutro forti pregiudizi. Nel mio caso, spesso incidono ragioni “di studio”, ma la pressione mediatica, l’insistenza della cosiddetta opinione comune, la vera e propria pubblicità possono, occorre ammetterlo, colpirci in qualche momento di debolezza, quando dubitiamo di noi stessi e ci autoaccusiamo di snobismo. Dove ancora l’autocontrollo non vacilla, arrivano infine i conoscenti con i regali, o gli scrittori e i servizi stampa, per portarti (vivaddio) libri di cui si ignorava persino l’esistenza. E in quei casi non si nega certo una curiosità bendisposta, anche se il calcolo delle probabilità, sulla base dell’esperienza, dovrebbe spingerci verso un cauto pessimismo.
A proposito di probabilità e di esperienza. Tendenzialmente, stando almeno agli ultimi decenni, un libro di successo difficilmente confermerà negli anni la propria qualità. Quantomeno, si tratta di un pregiudizio piuttosto condiviso. Ma rimane, appunto, un pregiudizio e lo si sottolinea perché ogni volta che ci si mette dalla parte della minoranza, ovvero della buona letteratura spesso condannata dal mercato ai margini del sistema, non si vuole imporre surrettiziamente l’equazione secondo la quale chi vende sia automaticamente un autore commerciale e di scarso valore. Anche questa precisazione andava fatta. (Aggiungiamo però qui un altro dolente punto su cui occorrerebbe impegnarsi: spesso il successo, anche in termini di vendita, è decretato da premi letterari che, ormai la tendenza è assodata, concorrono a definire e legittimare il mainstream).
Abbiamo già accostato, poco sopra, il presunto lettore forte allo scrittore. Come si sa, in alcuni circuiti in cui si presume attecchisca la migliore ricerca letteraria, le due figure tendono a coincidere. Per esempio, sempre più la poesia sopravvive in una tribù endogamica. Questa, anzi, sarebbe in assoluto la nota dolente, l’indizio di un’inevitabile, imminente estinzione della specie. Ma l’immagine ha i suoi limiti e una sua frettolosa interpretazione negativa innesca un fraintendimento: “Occorre conquistare”, proclamano a questo punto i salvatori del regno, “nuovi lettori per la poesia, lettori puri”.
Per quel che mi riguarda, non sono affatto certo di un simile programma. Conosco pochi, troppo pochi lettori di poesia che non scrivono a loro volta. In linea di massima, direi: ben vengano nuovi lettori. Ma sono piuttosto convinto che da sempre (oppure: ormai) il lettore di poesia sia anche uno che a sua volta scrive in versi. Direi che mi limito a constatarlo. Chiarito ciò, nella pratica della scrittura poetica non trovo nulla di sconveniente, anzi, credo faccia soltanto bene. Sopperisce a una perdita di esperienze non solo estetiche, ma persino spirituali, che connotano la nostra società contemporanea. Il problema (e anche su questo ultimo punto lavoro da decenni) è la pretesa, per il fatto stesso di aver scritto una poesia, di aver prodotto arte, di aver raggiunto l’eccellenza, di aver diritto, quindi, a un posto al sole nella patria letteraria.
Se tutti coloro che scrivono versi – i più non mancano di sottolinearlo – comprassero qualche libro di poesia ogni anno, ecco che anche il più misconosciuto fra i generi letterari avrebbe trovato un suo pubblico, persino cospicuo. Se all’interno di un simile circuito ci fosse la capacità di dibattere, democraticamente ma senza ipocrisie e calcoli di convenienza, intorno al valore di un’opera, ecco che la formazione di un canone (pur ampio) cioè la cura delle opere degne di provare la loro tenuta nel corso degli anni sarebbe in qualche modo garantita.
Ma a questo livello di intervento le insidie sono davvero molteplici, perché il terreno si fa effettivamente sdrucciolevole. Come non scivolare da un piano puramente tecnico a un piano di giudizio etico/morale? Molti poeti soffrono davvero di vittimismo. I più non sanno gestire il loro investimento simbolico sull’opera rispetto a qualsiasi discorso critico, che tenti un giudizio di valore. La tribù dei poeti non è ancora pronta per “costituire una comunità”, per mettere in relazione (“fare rete”) le individualità e autodeterminare i nodi più forti in modo da dare slancio alle esperienze di maggiore valore. Per ciò, collassa su se stessa, sulle proprie paure e ipocrisie, come la peggiore delle democrazie, preoccupata unicamente di difendere i diritti privati di ciascuno.
Se dovessi dunque sintetizzare, per concludere, il nucleo del mio discorso, talvolta male interpretato in alcuni risvolti, affermerei questo. Lo esprimo in prima persona, perché a questo punto il ragionamento è diventato davvero personale.
In quanto poeta posso permettermi, essendo estraneo alle logiche del mercato, una ricerca letteraria senza compromessi. Il che non significa che mi compiaccia di scrivere per esperti, anzi. Le categorie stesse di chiarezza e di oscurità, o di pubblico, mi sono comunque estranee (e credo che davvero pochi oggi possano sentirsi cantori di una qualche reale comunità). Cerco semplicemente l’esattezza poetica della lingua e nel mio ideale destinatario intravedo un volto non univoco eppure sempre individuale, un volto che può assumere fattezze improvvisamente più riconoscibili e repentinamente diventare altro, ma che resta metamorficamente un unico individuo. La mia parola si fa precisa perché è rivolta non a una massa indistinta, ma a uno sguardo specifico, per quanto insieme prossimo e alieno. Chi afferma di scrivere per sé stesso credo intenda dire che si rivolge a quell’altro che è in noi, a quell’ipotesi di umanità verso la quale ci siamo, per qualche ragione, affacciati. Se parla di pubblico, saprebbe pronunciare i nomi di tutti quelli che lo compongono.
In quanto poeta estraneo alle logiche del mercato, dedito alla cura della lingua (che non è solo conservazione, ma anche lotta, ricerca, sfondamento) e del valore letterario (intrinsecamente umano), declinato secondo una poetica che può variare, perché in rapporto con il contesto, non provo alcuna invidia per chi ottiene un successo di pubblico, perché mi è chiara la distinzione tra profitto e valore: distinzione che, anzi, mi preme preservare. Come lettore, a mia volta, posso semmai ammirare l’opera che mi chiama in causa e mi scuote, in riferimento a quanto espresso finora; un’opera che, come scrittore, addirittura mi annichilisce, mi spinge al silenzio dell’ammirazione – silenzio da cui eventualmente potrei riemergere per accettare la sfida di un rilancio ulteriore, oppure che mi consegnerà, beatamente, a una condizione di seguace, di promotore di quell’opera.
Al netto di ogni sbavatura stilistica o di qualsivoglia interpretazione di tono, il mio impegno è quindi rivolto a una letteratura che si avvicini a una democrazia ideale, capace ancora di trasformare la mera somma di spazi privati in un’opera comune degna dell’uomo, per ciò ancora desiderabile.
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