Narrativa contemporanea: Valentina Di Cesare
Basta accostare i titoli dei libri di Valentina Di Cesare, Marta la sarta (Tabula Fati, 2014), L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) e Tutti i soldi di Almudena Gomez (Polidoro, 2022), per cogliere l’intenzione di esibire un personaggio al centro della storia. Eppure, come vedremo, a ben vedere il protagonista in questi testi risulta tutt’altro che ben definito, oggetto, anzi, di opera in opera, di un’indagine sempre più pressante.
Più che un romanzo, il libro d’esordio è una somma di racconti, che trovano appunto in Marta il pretesto per essere cuciti insieme. Il tono complessivo è comico e fiabesco, con soluzioni ed esiti difformi. Proprio al centro del libro, nel sesto degli undici capitoli che lo compongono, Marta è chiamata a definire sé stessa:
«Dunque, vediamo: ho sempre fame e sono golosa di caramelle; mi piacciono le cose colorate, i fili, i gomitoli, i vestiti, i bottoni. Ho imparato a cucire a sette anni, mi ha insegnato mia nonna, vado forte con le sciarpe e i centrotavola. Mi piacciono molto le telenovele sudamericane e sono un’appassionata di insegne commerciali. Quelle dei motel nei telefilm e dei supermercati. Ah, e ho una gran paura del tempo». In questa autodescrizione c’è tutta la svagatezza e il candore infantile che si vuole imprimere alla stravagante galleria di personaggi e di vicende che fa la spola attorno a Marta la sarta. Il carattere pretestuoso della protagonista è quasi dichiarato, appena di seguito alla citazione riportata, quando le si chiede un giudizio sugli altri: «Sì, in genere mi piacciono molto le persone. È come vedere tanti piccoli specchi che ti camminano vicino». Durante la narrazione, Marta è l’appoggio per i lunghi discorsi degli altri personaggi, tra divertissement e riflessione teatralizzata intorno a qualche specifico tema.
Oltre all’elemento strutturale appena sottolineato, ci sono ovviamente altri possibili spunti che verranno ripresi nei libri successivi (per esempio, talune questioni sociali, in particolare la perdita del lavoro), ma è l’explicit a rivelarsi particolarmente significativo: «Tutto è chiaro, evidente e visibile ed è per questo, pensò Marta, ferma sull’uscio prima di rientrare, che la verità si fa ogni giorno sempre più difficile». L’autrice ha identificato il proprio tema: la verità che si dissemina fino a rischiare di dissolversi, nel momento in cui le parole si moltiplicano e la riducono a chiacchiera.
L’anno che Bartolo decise di morire volta bruscamente su un registro più tragico, anche se il tono e lo stile tendono ad alleggerirlo, quasi esibendo il patto della finzione narrativa (vale la pena ricordare che Di Cesare ha finora optato, in decisa controtendenza rispetto alle attuali consuetudini, per il racconto in terza persona). I capitoli, quasi sempre aperti o scanditi, magari con qualche leggera variazione, dal refrain che poi diventa il titolo del libro (come già accadeva, appunto, con «Marta la sarta») presentano le vicende di un un coro di amici, giovani adulti, che si interrogano intorno alla scomparsa di Bartolo. Il tempo viene sospeso e, all’interno di un’ambientazione che resta stilizzata e astratta, di impronta ancora fiabesca, si ripresentano gli eventi che definiscono i vari personaggi: attorno al protagonista si stringe la quête narrativa. Sebbene Bartolo compaia di tanto in tanto sulla scena, prenda apertamente parola, assuma anzi a un certo punto una posizione morale precisa, si può pensare a lui come al centro vuoto attorno al quale gira il disco della storia. Il più delle volte resta infatti in una posizione di ascolto, nel ruolo dell’amico fidato che permette il disvelamento del pensiero altrui. E proprio tramite la testimonianza degli altri cominciamo a scoprire che l’immobilità e il silenzio di Bartolo proiettano sul protagonista un valore sempre più netto e positivo:
«Rifletteva Renzo che Bartolo era quello di cui nel gruppo si sentiva sia la mancanza sia la presenza, lui era quello speciale. Ognuno lo sapeva e non era necessario dirselo. Aveva un modo tutto suo, diverso e singolare di comportarsi con gli altri, era raro che non portasse la parola giusta, il senso della misura e della rettitudine, e nei fatti il coraggio, la forza, la dignità».
Si noti subito quella «parola giusta», in cui si riverbera la citazione posta in esergo al libro, dai Frammenti di un vangelo apocrifo di Borges: «Pensa che gli altri sono giusti o lo saranno, e se non è così, non è tuo l’errore». Quando si arriva ai passaggi effettivamente più drammatici della vicenda, la figura di Bartolo viene scolpita in modo definitivo:
«Se mi chiedessero di pensare a quel che sei tu, se ti potessi definire non saprei da dove iniziare. Mi vengono in mente tante cose da quando ti conosco. Però in quei giorni, durante quella vacanza, ho capito con tenerezza che tu sei sempre stato tragico, e questa cosa mi faceva sorridere, non per prenderti in giro, lo sai, è il cuore che mi rideva con te, e succede anche adesso, perché è nella tragicità che si vede la tua intelligenza. Tu ti preoccupi, sei un osservatore incontentabile, uno preciso nei sentimenti, rigoroso nelle cose che non si vedono. Bartolo tu sei un drammatico, un macina-vita e più sei tragico a volte più diventi comico! Dovresti vederti da fuori quanto sei forte! Impara a essere meno duro con te stesso, fammi questa cortesia, te lo dico perché sei il migliore amico che ho».
Bartolo è dunque, potenzialmente, un eroe a tutto tondo, ma dopo un novecento di inettudine e nell’epoca del nichilismo la sua figura non si può dare che ambiguamente, tramite il giudizio degli altri personaggi, nel movimento che può ribaltare il suo stesso statuto: tanto drammatico da risultare comico. Più precisamente, non può darsi che per sottrazione. E, in effetti, le vicende ruotano attorno alla sua scomparsa, ma anche ogni verità che riguardano questo mistero potrebbero rovesciarsi. Il nucleo tragico, nella vicenda, c’è, ma se la morte di uno degli amici è certa, ciò che riguarda Bartolo resta sotto il dominio della chiacchiera. Potremmo, infine, dubitare persino della sua stessa morte ribadita tanto ossessivamente, e intenderla in senso metaforico; ma la guida per queste riflessioni è l’anziano maestro Nino, sociopatico, confidente di Bartolo, preso dai più per folle. Questa figura incornicia il racconto, ma lo trapunta anche, con occasionali, deliranti monologhi con cui discetta intorno ai massimi sistemi. È lui per esempio che avverte Bartolo che «Alla bontà non ci crede più nessuno», e gli spiega come la causa di tutto ciò sia l’abuso della parola:
«Ricordati che quando una parola è abusata, vuol dire che chi la pronuncia non ci fa più attenzione, sa di non essere solo e di poterselo permettere, perché molti tutt’intorno fanno la stessa cosa, e quindi la declama a rotta di collo, la mette dovunque come si fa con il sale in cucina. E questa leggerezza vedi, questa facilità nell’enunciarla la svilisce, sembra un maglione indossato da troppe persone, c’è chi lo allarga, chi lo stringe, chi lo accorcia, chi lo macchia, chi lo ricuce. È l’uso eccessivo che se n’è fatto il primo guaio, perché ormai tutti ce l’hanno e ne reclamano il possesso, tutti ce l’hanno in bocca, e allora, per esempio, dicono bontà come direbbero tavolo, caldaia, asciugamani, ma non capiscono di sbagliare, che una parola del genere andrebbe misurata, che non è un oggetto, un arnese utilizzabile al posto di un altro. […]».
C’è qualcosa di pirandelliano in questa ambivalenza delle parole, che insieme rivelano e nascondono, ma i temi dell’amicizia e della morte riconducono la controversia su un terreno morale e non soltanto intellettualistico:
«ricordati che le parole esistono, sono il nostro gagliardetto […] Tu le devi sentire anche se sono orribili, non ficcare la testa sotto la sabbia, limitati a sentirle, ascoltare è già una forma di coraggio. Ascoltare, non ripeterle. Basta una persona, ed ecco che il pensiero prende forma, anche un pensiero infimo, traditore, travestito da libera opinione. L’unica scappatoia dinanzi alle sciocchezze è non ripeterle, sentirle, capirle, guardarle in faccia e poi andarsene a fare il contrario, senza livore […]».
Per questa ragione il protagonista è anzitutto uno che ascolta: «Bartolo sapeva che avrebbe rimpianto se avesse mancato di gentilezza e ascolto di fronte a un altro essere umano addolorato, perché, diceva, se non ascolto le parole degli altri, non ascolto neanche le mie».
La perdita di corrispondenza tra parola e verità è un tema tipicamente novecentesco, ma l’autrice lo ripropone con consapevolezza. Pare anzi che nel passaggio fra le generazioni sia insito un continuo decadimento. Come spiegato, a parlare alla fine è il maestro Nino, che agli occhi dei «giovanotti baldanzosi» in cerca di notizie di Bartolo è solo un «vecchio pazzo» che protesta: «E che vi devo spiegare? È quello che ho detto. E poi scusatemi, non siete voi moderni che non fate altro che ripetere che non serve dare spiegazioni? Che fate, siete moderni quando vi pare eh?».
Se risolvere il dilemma della verità è impossibile, nella nostra epoca, Di Cesare ha cura nel far brillare, nell’ultima pagina, almeno una scintilla di vitalità da quel nucleo misterioso e passivo che è il soggetto perduto, al centro della narrazione. Un vitalismo eroico e romantico non è possibile, ma almeno indirettamente, sotto forma di rabbia, ci ricorda che l’ascolto deve mutarsi in gesto – un gesto che si compie altrove, che rimane perduto perché cade fuori da libro, nella vita.
Tutti i soldi di Almudena Gomez è in perfetta ascesa, secondo le prospettive delineate. Intanto, rispetto ai precedenti, la trama non è data dalla somma di episodi-racconti, ma dà corpo a un romanzo vero e proprio. In sé, non è significativa, potrebbe ricalcare una di quelle telenovele sudamericane che piacevano alla Marta del primo libro, ma ha un incedere sapiente, con la fatalità di un romanzo russo chiaro fin dal titolo, rilanciato internamente con qualche sospensione o depistaggio e soprattutto arricchito da intrecci tematici costanti e da movenze e frasi che si ripetono non soltanto per reggere determinate campiture narrative, ma acquisire, di volta in volta, il valore di una sentenza sibillina, fino alla chiusura della storia. Ma nel colpo di scena finale, e nell’ambiguità eletta a statuto della realtà (la badante protagonista della storia sarà accusata di aver manipolato il testamento della signora Cols, diventerà ricca, si rivelerà insieme innocente e colpevole) è anche un testo beffardo e spiccatamente contemporaneo. Qui, oltre alla maggiore consapevolezza stilistica, si vuole sottolineare ancora una volta il profilo della protagonista: Almudena occupa interamente la scena, finalmente, ma a lungo rimane ancora una figura di appoggio per l’esibizione degli altri caratteri. Il personaggio della badante ecuadoriana si fa carico di tratti ancora fortemente stilizzati, utili per risaltare la contrapposizione morale fra la integerrima e al limite bigotta straniera e i figli ricchi e viziati della signora Cols, dai comportamenti decisamente stereotipati, ma è ormai chiara la strategia implicita nel patto narrativo. Dando risalto quasi allegorico ai personaggi, l’autrice ammette la natura fittizia del testo per rivendicarne la funzione conoscitiva. Accogliere una simile narrazione significa “prendere posizione” di fronte al continuo gioco metamorfico tra vero e falso; e si ricordi in tal senso la citazione di Giuliano Mesa sulla soglia del libro: «di una vita non rimane quasi niente / e quello che rimane, spesso, non è vero», che si conclude tuttavia riconoscendo come il nostro continuo approssimarci a ciò che continuerà a sfuggirci «è meglio di niente». Se all’inizio il personaggio di Almudena potrebbe sembrare una versione esotica del nostro tipico inetto, magari baciato dalla fortuna, il rapporto ruvido, ma educativo, con l’anziana, rilancia la dinamica dei precedenti libri: la taciturna Almudena ascolta senza rispondere le ramanzine della signora, ma anche gli sfoghi o le raccomandazioni degli altri personaggi che entreranno in scena: è, ancora, una sorta di pietra utile agli altri per affilare le loro armi. La signora Cols è ricca perché ha vissuto con pienezza, ha un io forte e vitale fino all’ultimo respiro, e rimprovera Almudena per la sua indole remissiva, che non le permette di esprimere le potenzialità del suo corpo e del suo carattere, potenzialità che l’anziana ha colto e apprezza. Ma se nel precedente volume, con Bartolo assente, si lasciava brillare solo una scintilla di rabbia, propedeutica a un’azione ancora solo ipotetica, qui invece la trasformazione alchemica della protagonista si compie, in un finale che si rileva insieme lieto e luciferino.
Dunque, annunciato al termine del primo libro, messo al centro del secondo ma ancora in chiaroscuro, perché legato a un personaggio intermittente che, alla fine, si delineava sottraendosi, in questo terzo libro, il tema della verità è reso esplicito fin dall’incipit perfetto («Per qualche tempo nessuno aveva saputo la verità, e la verità è quella cosa che tutti vogliono sapere ma che pochi riescono a dire, perché dirla significa, il più delle volte, restare soli») e si lega, nell’evolversi della trama, a una protagonista che non può sottrarsi al relativismo del nostro mondo, e che dunque resta marchiato dall’ambivalenza, ma che a suo modo evade dal vicolo cieco del nichilismo e dell’inettudine novecenteschi, per tornare ad agire, a muovere le vicende secondo una propria volontà, consegnandoci una storia con un finale lieto ancorché complesso: un esito che i più avrebbero decretato insostenibile, di questi tempi.
La morale di quest’ultima fiaba parrebbe di facile interpretazione. L’eredità vitale della nostra cultura non sarà portata avanti da figli viziati e corrotti, ma da coloro i quali, apparentemente lontani e diversi, si riveleranno infine nella loro strabiliante somiglianza, e saranno quindi in grado di rovesciare i valori in campo. Palingenesi di una cultura e di una società che tuttavia, nel suo decorso inarrestabile, dovrà complicare e corrompere a sua volta, almeno in parte, l’indole pura degli umili e dei pazienti:
«Non ti fidare mai completamente di nessuno, in particolare quando si tratta di soldi. Recita, accertati di saperlo fare mi raccomando, e distaccati dal pensiero sciocco dell’essere te stessa perché non ha senso, Almudena cara. In mezzo agli uomini e alle donne solo il silenzio è la parola migliore. Fingi sempre di non aver capito quando qualcuno ti mente anche per una sciocchezza, quando chi ti parla è convinto di poterti imbastire la sua tela, tu stattene lì senza fiatare e incamera, ascolta, nulla è più forte del silenzio, è la migliore imboscata che tu possa fare a chiunque, l’unica e infallibile. Le parole, quelle vere, quelle che prendi dai tuoi fondali più lontani, se tanto ci tieni a dirle, usale per pregare chi ti manca, per chiedergli aiuto quando hai paura di non farcela ma per il resto tieni tutto per te. Non spercarti in confessioni o in accuse, accumula, sequestra i discorsi degli altri e portateli dietro, non vi è mai stato un tempo adatto per chi parlava, figurati ora che parlano tutti!».
Sii candido come una volpe e astuto come una colomba, avrebbe chiosato il ruvido, buon vecchio Fortini.
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