Ritmo e sintassi

Verso libero, ritmo, sintassi

Ho l’impressione che in poesia i più confondano l’idea di naturalezza con un semplice assecondare, nella versificazione, i sintagmi. Non è questione di ribadire le ovvie ragioni della metrica, contro la quale oggi resiste un pregiudizio che non vale nemmeno la pena di commentare (fermo restando che la metrica è solo l’approccio più semplice alla questione del ritmo, che i versoliberisti pretendono di seguire sebbene non sappiano in alcun modo spiegare in che cosa consista: ecco, ve lo spiego io, nel novanta per cento dei casi consiste nel rispettare i sintagmi). E quando annoto simili ovvietà, gli stessi credono di potermi etichettare come neometricista. Macché. Io trovo sempre una forma sulla base della materia. Vedessero che cosa tengo nel cassetto…

Comunque, al di là del verso e della sua misura, metrica o ritmica, ci sono pochi, pochissimi poeti che mi interessano oggi in Italia sul piano del lavoro sintattico. Non che si debba essere poeti di ricerca, sperimentali o altro. (Anche in questo caso, appena muovi un problema, ti inchiodano in una posizione opposta.) Per esempio, nel mio caso il più delle volte la sintassi è ampia e scorre abbastanza semplicemente, nonostante poi l’attrito con la metrica o in generale la struttura (formale, immaginifica) del testo. Ho scritto canzoni, per dire, e nella maggior parte dei casi nessuno si accorge nemmeno delle rime. Eppure, ogni tanto la lingua mi si apre, l’immagine fiorisce in modi imprevisti forzando la sintassi come una corteccia. Ho scritto per esempio:

Imparerà
che scrivere col tempo non ha senso
c’è nello spazio quantissimo spazio

Ora, sintatticamente la frase si raddrizzerebbe così: “Col tempo imparerà che non ha senso scrivere: c’è nello spazio quantissimo spazio”, ma non è questo ciò che volevo dire esattamente. Quello che volevo scrivere è proprio: “scrivere col tempo non ha senso”. E che significa? Forse non lo so nemmeno io, eppure l’ho sentito subito un verso esatto, nella sua vaghezza. Con il senno di poi, direi forse che avvertivo la necessità di accogliere in me la creatività di una lingua aperta all’errore, senza limitarmi alla citazione in corsivo. Dovevo anticipare, sussumere poeticamente l’errore. Dargli radice, non esibirlo soltanto come corpo estraneo inglobato. Così, almeno, mi verrebbe da dire.

Non è per mere ragioni metriche che la sintassi è saltata. Altrimenti, avrei potuto scrivere: “Imparerà / con il tempo che non ha senso scrivere / …”. Lo avrei preferito per la preposizione più naturale: “con il” anziché “col”. Ma il verso avrebbe portato con sé una sfumatura completamente diversa: “non ha senso scrivere”. Una sfumatura netta e negativa, che nel mio verso non è del tutto assente, forse, ma che resta aperta al suo stesso rovesciamento: “scrivere col tempo non ha senso”. Quindi scrivere ha senso, ma aprendo il gesto a un’altra dimensione, fuori dal tempo.

Caspita, adesso che l’ho scritto: ma la poesia rivendica proprio questo! La poesia “dice quel che è”, scrivo pochi versi dopo – e non si tratta di una semplice rivendicazione dell’importanza della forma poetica, ma un modo di definire la poesia come pronuncia assoluta, testo che accade nella sua stessa esecuzione: scrittura del presente, insomma, mai trascrizione di ciò che è già detto, quindi morto, puramente refertato.

Sì, tutto si tiene. Lo percepivo confusamente. Ne avverto ora l’esattezza.

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