La rivista Atelier in esposizione

L’amore e tutto il resto. Intervista (Atelier 110)

Ecco l’intervista, a cura di Giuliano Ladolfi, apparsa sul numero 110 della rivista “Atelier” (giugno 2023), su cui segnalo altri interventi e poesie eccellenti.

L’amore e tutto il resto (Novara, Interlinea, 2023) è il titolo dell’ultima raccolta di Andrea Temporelli, la cui lettura letteralmente mi ha spiazzato e da questo atteggiamento consegue che sento la necessità di chiarire con lui alcuni elementi chiarificatori.

È noto che il poeta è stato mio alunno nel triennio del Liceo Scientifico, che insieme abbiamo fondato l’Accademia “Amici della poesia” e nel 1996 la rivista «Atelier». Questa amicizia che dura più di trent’anni avrebbe dovuto favorirmi nella comprensione, anche perché diverse composizioni erano presenti nel Cielo di Marte (Torino, Einaudi, 2005) e in Terramadre (Rovigo, Il ponte del sale, 2012), testi che conosco molto bene e sui quali cui ho già scritto. Eppure mi sfuggono troppi elementi per giungere a una comprensione profonda.

Nel momento in cui mi accingo a stendere questa intervista, mi viene in mente il genere nuovo che tu hai ideato quando ti recavi nelle case dei poeti per approfondire il loro lavoro. Non ti limitavi a una sequenza di domande e di risposte, ma creavi un vero e proprio racconto che costituiva la cornice indispensabile per ampliare il significato stesso dei versi: l’ambiente cooperava alla presentazione dell’autore, perché – e su questo sempre sia stati d’accordo – la poesia germina sull’esperienza totale di un essere umano, compresa l’organizzazione dell’ambiente abitativo.

Da dove è nata questa idea?

Non credo di aver inventato un genere, ma è vero che, in quella serie di “incontri”, volevo inglobare la scena. Arrivavo a porre domande a qualche poeta a partire dal mio orizzonte, creativo ed esistenziale, e avevo ben presente di entrare in relazione, soprattutto inizialmente, più con un personaggio che con una persona reale, più con l’autore che io mi ero prefigurato a partire dai testi, che con un individuo concreto, di cui magari non sapevo ancora nulla, o quasi. E mi sembrava che questa cornice dovesse entrare nel racconto. O, meglio, che fosse necessario rendere esplicito un processo naturale: sempre un testo è in rapporto con il suo contesto, e se non c’è consapevolezza di ciò, il testo rischia di essere “smentito” dal contesto. L’epoca spesso fa dire a un’opera qualcosa che essa non voleva o non sapeva.

Mi fa piacere che tu abbia ricordato quelle interviste/racconti, che poi sono confluite nella raccolta di interventi “militanti” Smarcamenti, affondi e fughe che tu stesso hai avuto la bontà di pubblicare. È un libro a cui sono molto affezionato e che racchiude compiutamente, mi sembra, lo spirito di “Atelier”, almeno fino a quando avevo guidato con te quel vascello d’assalto.

Prima di parlare della raccolta, credo che ai lettori possa interessare il fatto che da alcuni decenni ti firmi con uno pseudonimo.

Ci sono varie ragioni attorno alla mia scelta. All’inizio usavo lo pseudonimo solo per la poesia, come ricorderai. Volevo preservarla e separarla dalla mia attività critica, sia per evitare che la lettura dei miei testi fosse messa in rapporto con le mie “battaglie culturali” sia per difenderne la natura differente. Inoltre, un po’ come per il Mattia Pascal di Pirandello, darsi un nuovo nome significava, per me, rendermi responsabile di una seconda nascita: togliermi gli alibi di qualsiasi condizionamento estraneo alla mia volontà per farmi carico, fino in fondo, del mio destino, paradossalmente (per non ripetere l’errore di Adriano Meis) accettando, scegliendo le stesse condizioni di partenza. La composizione di quello specifico pseudonimo è infatti significativa soprattutto perché racchiude il mistero dell’origine, della postura esistenziale che mi contraddistingue. I due nomi che lo compongono aprono e chiudono la mia infanzia. Andrea, come sai, è il nome di un fratello, di due anni più giovane di me, morto pochi giorni dopo la nascita: è l’angelo più volte evocato nella mia poesia; Temporelli invece è il cognome di mia madre, che anche a seguito di quel trauma ha iniziato una personale discesa agli inferi – alla quale ho assistito con lo sguardo inconsapevole e con l’impotenza di un bambino – culminata con la sua morte quando avevo dieci anni: età in cui, appunto, ho chiuso l’infanzia, anche con la scelta (vedi la poesia La piccola guerra) di “inseminarmi”, ovvero di andarmene di casa, attraversare le risaie, entrare in seminario, e “prendere il seme”, ovvero entrare nella pubertà.

Ora, però, firmo qualsiasi intervento letterario sempre e solo con lo pseudonimo.

E ora veniamo alla nuova raccolta. Il fatto che qui siano presenti, collocati secondo una diversa disposizione, testi già pubblicati, invece di rappresentare per me elementi di comprensione, hanno scompaginato le precedenti certezze. Con quale linea interpretativa possiamo accostarci a questa nuova raccolta?

Questa ricomposizione ha diverse spiegazioni. Intanto, per esempio, i due libri precedenti, arrivavano al lettore “separati”, mentre la loro ideazione e scrittura si sovrapponeva. In generale, noi abbiamo uno sguardo appiattito sull’opera di uno scrittore, determinato appunto dalle occasioni di uscita dei testi. Spesso invece le opere compongono un sistema, hanno intrecci e rapporti molto più complessi. Ti confesso un segreto: molto di quello che scriverò in futuro, se ne avrò la capacità e la grazia, sarà il compimento di qualcosa che ho già “prefigurato”, sognato, in qualche modo concepito già da tempo. Ovviamente, rispetto a queste intuizioni o presentimenti di quello che verrà (non so nemmeno come definirli) ci saranno anche novità e sorprese: scrivendole, queste opere si trasformeranno. E mi trasformeranno, se ne sarò degno. Poi arriveranno anche altre idee, altre esigenze, suppongo.

In definitiva, questo rimescolamento di testi mi serve anche per mostrare al lettore certi nessi, certe strutture di senso che mi pare non siano state ancora percepite, da chi si è confrontato con le pubblicazioni precedenti. Tutto questo, rispettando comunque un filo in qualche modo narrativo o tematico, nella lettura del libro. La prima sezione ha come temi l’amicizia e la perdita, o l’opera comune, per dirla con il codice espressivo degli anni di Atelier. La seconda sezione definisce l’intero arco di un’eredità, raccontando, in una polarità implicitamente “maschile”, passaggi esistenziali che mi riguardano (dall’epica familiare ai luoghi: c’è quasi una circolarità perfetta, e pensa che me ne sono accorto solo a posteriori: dal padre che emigra dal Veneto al ritorno ideale nel Polesine…). La terza sezione estrae, con connotati più “femminili”, il nucleo misterioso e doloroso dell’infanzia. Con la quarta sezione, il poemetto, i due poli maschili e femminili arrivano a una definitiva resa dei conti, per cui la madre-terra, la terra che ha senso, quella concimata con il concime più nutriente (ovvero: il terreno sacro in cui seppelliamo i nostri cari), diventa il luogo di battaglia tra il soggetto e la morte, finché l’angelo finalmente prende voce e permette alla storia di procedere, nel pensiero dei figli a cui ci si offre come trampolini per una loro, nuova e libera, avventura. Così ecco nella quinta sezione il tema dell’amore, addirittura preannunciato sfacciatamente nel titolo della raccolta. Quest’amore svaria da quello giovanile a quello più maturo, coniugale, che per sua natura non può chiudersi in sé stesso ma pretende la Verifica della storia, titolo non caso della poesia con cui si apre la sezione successiva. Qui si sovrappongono riferimenti personali a riferimenti storici precisi: l’Ossezia, il Kosovo, la guerra in Iraq… Il collante tra la lirica e la storia è garantito dal mestiere di insegnante, naturale punto di congiunzione tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra la responsabilità di pronunciarsi sull’epoca e il bisogno di restare autenticamente sé stessi. La settima sezione torna sul versante maschile, esprimendo meglio la paternità, al cospetto dei figli “che ci danno alla luce”. La sezione successiva è un po’ la ricomposizione di tutte le figure narrate in quella dello scrittore, che chiude, con uno Scatto, la propria infanzia, sigilla lo scrigno misterioso dell’origine, e trova la propria dimensione e la propria voce, anche in relazione ai tempi, all’epoca della povertà che non riconosce più i suoi poeti. La poesia finale, che può sembrare un po’ apocalittica (Postilla per un alieno) ricorda come la fragilità del bene non sia un tratto sufficiente per piegare il capo al male di vivere, per rassegnarci.

Pur conoscendoti fin dai banchi di scuola pur aver collaborato per più di venticinque anni in attività diverse, e in modo particolare nella direzione della rivista, e pur essendo in grado di decifrare diversi emblemi, quali la rosa, i luoghi, i rapporti, non sempre mi sono chiari i riferimenti. Del resto, anche alcuni testi della Bufera di Montale sono ancora oggetto di studi. Puoi aiutarci nell’addentrarci in questa “selva spessa e viva”? Quale l’obiettivo di affidarti a una simbologia strettamente personale che può disorientare il lettore? 

Mi hanno detto più volte di essere un poeta “difficile”. Per un po’ me ne sono convinto anch’io. Ma il tuo paragone con Montale è illuminante. Rileggendomi, proprio al cospetto di Montale (si parva licet), mi sono sentito, anzi, chiarissimo. Il fatto è che, una volta, appunto, un poeta veniva letto nel tempo, seguito dalla critica, compreso negli anni. Ora, come a scuola, ti leggono (se va bene!) una volta e poi ti appioppano subito le stellette di gradimento. Se qualcosa non è chiaro, te lo rinfacciano, dando per scontato che sia un tuo limite.

Certamente, sono consapevole che per me diversi riferimenti risultano persino ovvi, mentre per chi viene da un altro contesto e non ha tempo né voglia di avviare qualche ricerca, certi passaggi di primo acchito suonino oscuri… Ma le chiavi interpretative sono già nei libri! Potrei affermare che, rimescolando ora i miei testi, ho persino fornito ulteriori indizi. Detto ciò, rimpiango in effetti un’attività critica un po’ meno superficiale. Tutti a chiedermi, per esempio, spiegazioni sullo pseudonimo, quando il tema del nome, e il richiamo al mio nome di battesimo, è esplicito, più volte alluso, anche attraverso vari anagrammi: e il tema, soprattutto, si apre a ben altre figure… Più che un’indagine biografica o psicologica, sarebbe proficua un’indagine testuale, insomma. Così, altri apparenti “enigmi” si sciolgono cercando la coerenza del discorso sui vari piani in cui si articola, intrecciando le isotopie, cogliendo precisi elementi stilistici, mettendo in relazione i sintomi – anche molto concreti, fisici, visivi, per esempio. Poi, per tutto quello che non si capisce, ci sono gli eventuali incontri con l’autore, o le interviste come questa. Fermo restando che nemmeno l’autore sa tutto della propria opera. Certi aspetti che adesso spiego bene, magari determinati tratti stilistici, si sono formati attraverso di me, addirittura malgrado me (ci sono parole ed espressioni che mi hanno fatto soffrire e ancora adesso mi interrogano e mi infastidiscono mentre, al contempo, le sento necessarie, perfette, essenziali per la coerenza dell’opera, che attraverso di esse si chiude e si rende autonoma).

Il titolo stesso, L’amore e tutto il resto da una parte ci indirizza all’interno di un’atmosfera di rapporti personali, quali la famiglia (padre, madre, fratello, sorella, moglie, figli, amici, lavoro di docente) e dall’altra lascia aperto un mondo più ampio, che supera tempi e luoghi della tua comune esperienza.

Il titolo è forse emblematico per vari motivi. È sfrontato, come divento io stesso oltrepassata la prima cortina di timidezza. Promette una temperatura emotiva alta, una comunicatività che poi sembra perdersi, come mi sottolineavi. A me però pare, anche nei punti meno “razionalizzabili” del testo, che la fruizione “estetica” tenga sempre. A differenza di molta poesia più fredda, le mie sperimentazioni sono veicolate da una musicalità spero abbastanza moderna, eppure riconoscibile. A tratti mi sembra di scoprire nelle mie raccolte persino una certa cantabilità. I dati personali, i miti e le figure più intime, devono comunque diventare, sulla pagina, autosufficienti. Cerco in ogni poesia la situazione ampia, la metafora continuata, la coerenza narrativa, anche quando la trama si fa densa. E, comunque, l’idea che il lettore provi sia attrazione sia resistenze, nei miei versi, mi piace. Oso sperare che le mie poesie non si consumino troppo facilmente, non siano usurabili in tempi brevi. E immagino che questo sia l’auspicio, in fondo, di ogni poeta. “Ma arrivati fin qui / fermarsi non avrebbe senso”. “Non capisci? Non capisci”.  “Tutto è così difficile… Daccapo”. Ecco, ora che ci rifletto, mi sembra che questa sfida al lettore sia persino una trama testuale. Un po’ come le filastrocche-enigma che mia madre mi sottoponeva da bambino: “Tela dico, tela ripeto, se non lo sai, un asino sarai. Che cos’è?”. “La tela!”.

“Atelier” si è proposta di riallacciare i legami con la millenaria tradizione della poesia. In che modo tu ritieni di contribuire a questo obiettivo? Sotto il profilo metrico, all’interno dello tsunami di “acapisti” sei un tra i pochissimi in grado di comporre secondo i canoni classici canzoni e sestine mantenendo un linguaggio standard e una sintassi lineare. A questo attribuisci un significato particolare?

Ci sono tanti strumenti a disposizione del poeta, che raddoppiano nel momento in cui si negano – purché lo si faccia con consapevolezza, e voglio dire non solo a seguito di una presa di posizione personale, ma seguendo, in armonia o contrasto, le tensioni del tuo tempo. Insomma, ancora una volta il contesto agisce sul testo. Ci sono pressioni che derivano dalla tradizione e dall’epoca in cui vivi: tu, come in un combattimento, puoi contrastarli, oppure, come nelle arti marziali, usare le forze esterne a tuo vantaggio. 

E, come in un combattimento, c’è un’armonia di momenti e gesti da seguire, secondo una strategia personale. Ciò significa che una raccolta può variare strutture chiuse o aperte al suo interno, oppure che di libro in libro l’autore alterna le soluzioni più adatte alle circostanze, al tema o ai propri impulsi interiori. Oppure, perché no, ci saranno autori che fanno una scelta di campo definitiva, e decidono per esempio di rispondere rigidamente alle pressioni dell’epoca restando fermi, in un loro specifico grado formale.

Però, ecco, spero che nelle mie poesie si percepisca che le strutture non sono congegni esteriori, applicati astrattamente. La forma è dettata dal contenuto. Mi sembra in questo senso emblematica la serie Cheloidi. In quel caso le parole sembrano sparpagliarsi sulla pagina, come non mi è mai successo in altri casi: ma perché il corpo lessicale si è messo a replicare l’immagine/emblema! Così per molto tempo ho trovato congeniale la canzone, proprio perché la struttura della stanza si creava solo dopo la prima gettata: colta la musica del pensiero, dovevo solo seguirla.

Ma il livello metrico (e sarebbe più fruttuoso parlare di ritmo) si coniuga anche con il livello linguistico, oppure con quello sintattico. Tu noti che nelle strutture più complesse io uso un linguaggio standard; poi però nei passaggi meno complessi, magari l’intensificazione scatta nella combinazione delle parole: “se tu sei non passata”, “muta di carne mente la materia”, “Imparerà / che scrivere col tempo non ha senso”, e così via. In questo gioco di spinte e controspinte, l’improvvisa mancanza di tensione, la prossimità alla prosa, si sovraccarica di memoria, accoglie l’assente, assume su di sé la traccia d’ombra di una rinuncia. Ogni tanto si esibisce un tratto che la nostra epoca percepisce come retorico (la rima! la parola ricercata!), ma lo si fa non per ripristinare idoli a cui non si crede più, ma per compiere il rito di una spoliazione. 

Tutto questo, e perdonerai la banalità, serve per ricordare che poesia è arte di comporre. Non basta buttar giù alcuni bei pensieri o delle belle immagini, per affermare di aver scritto una poesia.

E ora veniamo a questioni più generali. «Atelier» è nata per superare il “novecento”, concetto inteso come puro sperimentalismo linguistico in poesia e come strutturalismo nella critica letteraria. A tal fine abbiamo approfondito la questione sotto il profilo epistemologico, appellandoci alla concezione filosofica del personalismo, abbiamo riletto la poesia dell’intero Novecento, abbiamo promosso voci nuove, soprattutto giovanili, e abbiamo proposto gli autori, a nostro parere, più significativi del nostro tempo. Mi ricordo di un tuo editoriale (Atelier n. 5, marzo 1997), dal titolo Novecento in liquidazione, nel quale scrivevi: «Così, nel generale clima di nevrotica euforia che respiriamo – come se ci fossimo tutti quanti accorti adesso, d’un tratto, che il secolo attuale è finito e si avvertisse perciò il bisogno di liberarsene al più presto, per aprire al mercato altre frontiere –, ma che nasconde, invece, una preoccupante stagnazione, offriamo ai nostri lettori un numero, presumiamo, ricco di spunti di riflessione, aperto a molte problematiche e, soprattutto, sempre esposto alla critica (tutti sono i benvenuti nel nostro atelier)». Eppure in molti ambienti accademici, come pure in molte pubblicazioni, per non parlare del sottobosco, il “novecento” sperimentalista e avanguardista è profondamente radicato. Per incapacità di proposte diverse oppure per fede nell’autonomia del significante?

Qui mi provochi davvero. Finché si tratta di poesia, si può accettare di non sapersi valutare e ci si affida al giudizio altrui. Posso sentirmi un grande poeta, ma se al mio tempo e ai lettori più attenti non piaccio, devo farmene una ragione. Ma il discorso critico intorno ad Atelier è abbastanza oggettivo e attualmente è in corso una mistificazione storica piuttosto grave. Mi spiego. Diversi studi che mi è capitato di leggere, aggiornati sulla letteratura e in particolare la poesia Duemillesca, ignorano l’esperienza della rivista. Tra l’altro, il problema che sta emergendo, nel dibattito critico, è capire se, tra Novecento e Duemila, c’è soluzione di continuità oppure no. Caspita, ma questo è stato il nostro grande tema! Noi abbiamo lavorato per ripristinare una “tradizione” che si stava perdendo, non in un’ottica restaurativa, ma innovativa, sfruttando la leva generazionale. Atelier è stata, oggettivamente, l’esperienza più significativa nei decenni tra fine Novecento e primi Duemila. Attraverso il fermento della generazione dei nati negli anni Settanta, abbiamo chiamato a giudizio (per la prima volta in modo serio e non compiacente, forse persino duro, e da una posizione di rivendicata autonomia) la generazione del Sessantotto (per dirla alla Raboni), quella allora “al potere”. E non lo abbiamo fatto per promuovere, per contrapposizione, i poeti allora esordienti, cioè noi stessi: abbiamo contemporaneamente suscitato la generazione dei “fratelli maggiori”, la generazione dispersa, che io ho studiato con i Poeti nel limbo (il cui sottotitolo resta indicativo: Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione). Abbiamo innescato così la stagione delle antologie dei “Poeti nati negli anni Settanta” (quante ne sono uscite, dopo la nostra Opera comune? Ho perso il conto. E vai a riguardare i poeti inclusi della nostra antologia: direi che nella maggior parte dei casi siamo stati lungimiranti e accoglienti verso poetiche eterogenee). Ma pensa anche ai convegni nazionali e internazionali, in particolare al ritrovo di Firenze a Palazzo Vecchio e alle centinaia di autori, critici e poeti, di diverse generazioni, che erano presenti. Pensa a Giudici che suggerisce a Ielmini di scrivere a noi, quando ancora non ci conosceva, o agli eventi organizzati insieme a Luzi, o ai fitti incontri con Buffoni, o Viviani, o Fiori, e tanti altri (c’è chi stimava in particolare Majorino, chi Neri, chi Aldo Nove: ce n’era per tutti i gusti!). Pensa alle monografie sugli autori che abbiamo proposto, per dimostrare che oltre a quelli già consacrati ce n’erano molti altri di valore… Trovare un poeta attivo in quegli anni che non si sia confrontato con noi è davvero arduo. E il discorso, come sai, potrebbe continuare, ricordando pure il tuo lavoro organico di studio del Novecento più storicizzato, o guardando alle pubblicazioni (gratuite) con cui davamo spinta alle voci emergenti. Mi fermo qui, perché cantarsela addosso è davvero insopportabile – ma i fatti sono fatti, ed è bene difenderli. Detto questo, Atelier è oggettivamente un’esperienza non trascurabile. Eppure si cita piuttosto (per fortuna come episodio fatuo, quasi folcloristico), la polemica dei manifesti TQ – ricordi? –, che a me sono subito parsi una riproposizione, a un livello mediatico certamente più favorevole, di idealità da sempre attive nella nostra rivista, e soprattutto applicate, messe in pratica per anni… Del resto, lo stesso Desiati era tra le voci accolte nel convegno animato da noi poeti emergenti, qui a Borgomanero.

Chiarito tutto questo, si può pensare che l’intera nostra avventura sia stata fallimentare, o che i poeti migliori siano esattamente quelli che non sono passati da Atelier (ipotesi più che lecita, sebbene da sottoporre a verifica), ma raccontare una letteratura di quei decenni senza nominare Atelier è un errore grave.

Quali sono le ragioni che possono spiegare una simile lacuna? Ci ho riflettuto e ho annotato una serie di fattori, che ti enuncio senza svilupparli e in ordine sparso. 

Conoscere tutto, in un mondo letterario ipertrofico, è impossibile: un’ammissione di ignoranza sarebbe giustificabile. Atelier è un’esperienza nata dal basso, dalla provincia, fuori dai poteri editoriali. Molti dei suoi protagonisti hanno scelto di mantenere un impegno alto ma un profilo basso, senza sollevare bandiere, senza chiudere la propria appartenenza nella cerchia di Atelier (per fortuna: questo era lo spirito dell’opera comune!). Forse il nostro tentativo di superare il Novecento, nei termini che tu racconti, è oggettivamente fallito (io, in poesia, ho cercato di andare oltre al male di vivere e all’ironia, senza ricadere in un’ingenuità ovviamente non più credibile). Forse, come ha suggerito se non sbaglio un critico come Galaverni, il fatto di essere stata una generazione che ha avuto un battesimo “collettivo” e non libri d’esordio eclatanti o riconosciuti come fondamentali, è stato in fin dei conti un danno (tra parentesi, secondo me la mia generazione ha prodotto eccome libri memorabili, ma è il contesto, e forse la stessa critica, che non li ha capiti). Di certo, la nostra apertura di sguardo non ci ha reso facilmente identificabili: non abbiamo elaborato una poetica in senso stretto, insomma.

Ancora: Atelier è stata l’ultima rivista “cartacea” del Novecento: non siamo rimasti autonomi solo rispetto al mondo accademico, ma anche rispetto a quello dei social, che in seguito è esploso (anche adesso, se permetti, il sito di Atelier ha tutt’altra natura e spirito rispetto alla rivista: dimostrazione che non abbiamo mai realmente “traslocato”, o quantomeno messo almeno un piede in quel mondo, in particolare nella rete di Facebook, dove nei primi anni del Duemila si è effettivamente trasferito il dibattito e quel residuo di “società letteraria” persistente). Dopo di noi, le principali novità sono nate direttamente sul web… Infine (in cauda venenum), forse ci sono interessi di qualcuno che premono perché si ignori la nostra esperienza, o il mondo accademico è ancora davvero attardato su paradigmi d’avanguardia e ha strumenti solo formalistici o, peggio ancora, ideologici, per pescare nella fenomenologia del contemporaneo. Insomma, più che analisi di testi, vedo analisi di poetiche, che peraltro valorizzano una scrittura che si avvicina sempre più al fantomatico livello zero dello stile: se davvero quella è la voce che interpreta il nostro tempo, l’unica che il contesto epocale avvalora, stiamo auscultando il fiato sempre più flebile di una poesia davvero morente, già adagiata nella posa dell’installazione museale. E te lo dice uno che legge e apprezza molto anche queste ricerche artistiche, che però rappresentano, sempre dal mio misero punto di vista, solo uno spicchio limitato di una realtà ben più complessa. Ma se davvero l’Accademia soffrisse di questo limite, di questa antica tara avanguardista, tutti i giudizi sulla poesia contemporanea sarebbero probabilmente da rovesciare, perché il difetto non sarebbe nell’oggetto indagato, ma nello sguardo. E allora, se non i miei, si leggano meglio i libri di tutti gli altri autori passati nel solco di Atelier: ho la sensazione che ci sia un tesoro letterario ancora interamente da valorizzare.

Se tu dovessi indicare il nome di poeti significativi, che cioè, hanno saputo e sanno interpretare lo spirito del nostro tempo, lo Zeitgast, quali nomi avanzeresti e per quali motivi.

Da quando ho lasciato Atelier, dieci anni fa, sono passato dall’opera comune a una sorta di “profezia privata”, come l’ho definita. Da qui, non ho sguardo critico, non posso abbracciare un tema tanto grande. Mi sento come uno che sta viaggiando in direzione contraria rispetto a molti altri, costruendo un sentiero che non c’è. Perso in questa selva, magari orientato verso la parte sbagliata, non saprei indicarti un panorama. Ho solo squarci, indizi, ipotesi. Ho lavorato per decenni in un’ottica di condivisione, tentando un discorso più ampio, non personale. Ora, per questioni anche anagrafiche, devo restare concentrato su di me e sulla mia poesia. Ciò non toglie che, tutte le volte che posso, quando mi imbatto in qualcosa che mi pare significativo, lancio un urlo di gioia. Chi mi segue, lo sa. E, nel folto di questa selva, sento che qualcuno, magari perso su un altro versante oppure posizionato su una traiettoria non troppo lontana, sebbene imperscrutabile, ricambia il mio urlo. È poco, accade raramente, ma sono momenti di festa e di grazia già impagabili, in questo tempo impoetico.

Ultima domanda: oggi sui massmedia si pubblica molta poesia. Del resto, tu stesso sei stato un antesignano nell’uso dei social, perché hai fondato e diretto per molto tempo il blog di Atelier, talvolta in dialogo con la “badante rumena” di Mario Luzi (hai mai scoperto la sua vera identità?) e ancora oggi mantieni un sito molto vivace. Si dovrebbe dedurre che mai come oggi la poesia gode di considerazione. Invece ufficialmente non se ne parla mai. In televisione si presentano romanzi, fumetti, si parla di canzone e di cantautori, ma la poesia è praticamente scomparsa: nelle scuole superiori e all’università di solito si arriva a studiare Montale. I nostri giovani non conoscono il nome di un poeta contemporaneo. Quali ritieni possano essere i motivi e quali possono essere le conseguenze?

Come ho spiegato, quel passaggio sul web è stato un momento intenso ma breve, che si è concluso. Sul web non abbiamo mai messo realmente radici. Ricordo però con simpatia quei dibattiti e quei personaggi. Ci fu qualcuno che creò anzi un sito che scimmiottava, sarcasticamente, il nostro – ricorderai anche questo. Era l’epoca, appunto, dei blog. La bolla stava esplodendo, c’era vivacità, disordine, confusione. Le esperienze autorevoli sono arrivate dopo, e sono nate direttamente nelle logiche di quel mondo.

Oggi la situazione è caotica perché la società è cambiata, più che la poesia. Inoltre, si cerca di proporla e di difenderla nei modi sbagliati, secondo logiche assurde. Oggi il mondo editoriale, per esempio, è al collasso. Non c’è più una società letteraria. Proprio come sui social, i poeti sono insieme i produttori e i consumatori, senza accorgersi che la merce… sono loro stessi! Bisognerebbe litigare, difendere, lottare sulle idee e soprattutto sui testi. Farci la guerra per amore, come rivendicavo una volta. E invece, ci si scambiano solo carezze, osservazioni delicate, like generosi. Siamo tutti troppo sensibili e fragili: moriremmo, di fronte a una critica seria. È una questione antropologica. Se uno non ci accetta, diventa subito un nemico, uno da eliminare dai contatti. 

Anche sul fronte della scuola, fosse per me, farei una rivoluzione, ma il discorso sarebbe lungo. 

Non fraintendermi, so benissimo che la maggior parte delle mie idee è condivisa da molti scrittori o docenti, e che tanti altri, più bravi di me, nella letteratura o nella scuola stanno portando avanti, altrettanto soli, battaglie analoghe alla mia. Ma l’impero continua a vincere perché ci tiene divisi, ci addormenta con dosi omeopatiche di successo, ci mette in lista per i premi. Giuro, ho visto gente festeggiare sui social per essere nell’elenco (sgangherato, fin dalla modalità di stesura) dei 135 poeti visibili, novità dell’anno, al Grande Occhio dello Strega! (Ti invito a guardare, se vuoi sentirmi ribadire vecchie convinzioni, il video su YouTube in cui propongo una piccola guida ai premi letterari). Che tristezza…

Eppure, come affermavo, non c’è tempo per le lamentele. E proseguo il tentativo di scovare un sentiero, in direzione ostinata e contraria: “A poco a poco anche l’epoca evapora, / si slaccia la metafora perfetta / e il fiato dentro il vuoto prende forma: / un nuovo mondo dietro l’angolo aspetta”.

Nel momento in cui concludo questa intervista, mi viene in mente l’ultimo sabato di novembre del 1988, quando uno studente, prima di accingersi a svolgere un compito in classe di italiano, mi porge sulla cattedra una sua poesia: quella folgorazione è ancora presente in me dopo 35 anni!

1 commento
  1. Massimiliano
    Massimiliano dice:

    Le tue risposte vanno senz’altro lette ma confesso che fatico a farlo perché l’intervistatore è tra quei commercianti che si spacciano da amanti della poesia ma che poi vogliono essere pagati per poter essere pubblicati dalla propria casa editrice, sfoggiando un’esperienza decennale, e richiamando il povero poeta di turno a una responsabilità personale e attiva se vuole davvero essere degno di entrare attivamente nel processo di pubblicazione, ovvero pagare. E ora viene il bello: ci tengo a dire che l’intervistatore, a suo tempo, interessato a una mia raccolta, a differenza di qualche altro della stessa risma, arrivati al punto, optò per questa strategia: mi disse che lui non decideva quante copie io avrei dovuto acquistargli, no, mi disse che lo avrei deciso io stesso! Capite la raffinatezza a sfondo vagamente evangelico: il giudice chiede all’imputato quante frustate secondo lui si merita. Il risultato è il seguente: se ne chiederà poche avrà il timore che il giudice lo farà massacrare, perché poco consapevole della sua colpa, se invece ne chiederà molte, allora bene, ma prenderà molte frustate. Questa è arte, altro che poesie.

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