Autostroncatura e autoelogio del mio libro
E’ successo che un tale, bontà sua, mi ha mostrato su internet una stroncatura al mio ultimo libro, L’amore e tutto il resto (qui tutte le info relative), che mi era sfuggita. Per quel che mi riguarda, chi ci tiene a propagare le note fastidiose mi dà noia come una zanzara, e tendo a guardarlo con diffidenza ancor maggiore rispetto a chi ha comunque preso posizione apertamente; in questo caso, tuttavia, ho messo in conto solo buona fede, perché ho conosciuto di persona l’interessato, che ricordo con simpatia. Ecco comunque la stroncatura:
Credo poi di aver capito chi sia l’autore della nota critica. A dire il vero è stata ancora la persona che mi aveva riportato la stroncatura a darmi un’imbeccata ma, tardo come sono, non l’avevo colta subito (né mi interessava poi molto identificare l’autore: speravo anzi si palesasse e mi contattasse direttamente). Se la mia ipotesi è corretta, ho ulteriori motivi per soppesare bene le parole che sono state rivolte al mio libro, perché arriverebbero da un amico (non lo vedo da molti anni ma, fino a prova contraria, per me vale il rapporto con cui lo ricordo), da una persona che considero intelligente, capace anche di scelte radicali e, non da ultimo, da uno dei poeti che più stimo, di cui attendo trepidante il prossimo libro (dopo un passaggio che, come gli dissi, mi aveva lasciato perplesso).
Ma nel bel mezzo dei commenti su Facebook più di una persona ha ipotizzato (ah, la malizia fin dove arriva!) che si trattasse di un trucco autopromozionale. (Sia chiaro che ho parlato di malizia, ma il dubbio era sorto solo bonariamente. E su internet è sano essere diffidenti). Così, ho pensato che avrei anche potuto scriverla io, una stroncatura al mio libro, per due buone ragioni: uno, per dimostrare che l’avrei scritta meglio, risultando, come ai vecchi tempi, ben più cattivo e mordace, come lo sono stato con tanti poeti (quelli importanti, però, perché le stroncature si riservano a chi è più grande di te: per gli altri servono solo recensioni professionali o critiche garbate); e due, per compiere un gesto liberante e scagionare chi avesse voglia di muovermi delle critiche e si stesse trattenendo, per qualche scrupolo. Tuttavia, dal momento che non sono masochista, ho deciso di accompagnare la mia autostroncatura anche con un autoelogio. I due testi vanno letti in modalità sinottica, perché analizzano, in parallelo, i medesimi dati testuali: giusto per dimostrare quanto i testi siano scivolosi e quanto sia facile prenderli come pretesti.
Qui di seguito vi presento il frutto del mio esercizio. Ho provato, comunque, a scrivere cose vere, o quantomeno sensate, in entrambi i casi (che bel paradosso, due testi opposti, entrambi veri…). A voi la scelta a chi dare credito.
Il nuovo libro di Temporelli è, come al suo solito, una furbata bell’e buona. Anzitutto, non è esattamente un libro nuovo, ma un’antologia. Solo un terzo dei testi qui presentati è effettivamente inedito o, quantomeno, non era stato incluso nelle raccolte precedenti (si tratta, lo ricordiamo, dell’esordio con Einaudi e del successivo Terramadre per una collana della piccola editoria poetica, Il Ponte del sale: parabola letteraria di per sé già emblematica). All’autore è bastato rimescolare i testi per trovare il modo di riproporsi sulla scena, ma i piccoli ritocchi dimostrano solo un’ottusa insistenza sui temi iniziali, ormai esausti, e l’incapacità di evolvere, di uscire dalla zona di comfort. Secondariamente, il titolo è ammiccante, perfettamente in linea con le richieste editoriali, addirittura sfacciato, con quel sostantivo subito esposto: L’amore… Eppure, anche se l’autore non se ne è accorto, siamo ai tempi in cui la lirica è stata ampiamente superata: Dopo la lirica è il titolo di un’importante antologia, che i lettori più attenti ricorderanno. Temporelli tuttavia si ostina su registri improponibili, partendo da una materia biografica certo dolorosa, ma con il solo scopo di piatire un consenso.
Sono passati quasi vent’anni dall’esordio einaudiano di Temporelli e solo adesso, al suo terzo titolo, l’autore sente di aver chiuso una propria stagione creativa. Distillata con pazienza, senza ansia nel presentarsi sul panorama frenetico della poesia contemporanea, questa poesia, fin dalla struttura della raccolta dimostra una profonda consapevolezza della tradizione. Il libro è in effetti un’antologia, anche se con molti testi inediti, in cui i versi ripresi dalle precedenti raccolte vengono rimescolati. E’ chiaro il rimando al modello di A tanto caro sangue di Giovanni Raboni, probabilmente un riferimento fondamentale per l’autore. Il titolo, invece, non tragga in inganno: l’apparente lirismo si smaschera andando al testo da cui è stato tratto il prelievo: “Sì, va bene, l’amore e tutto il resto / ma qui fanno domande / precise…”. Il brano esprime quindi l’urgenza della storia, che preme sulla biografia e, spesso, lascia schegge e ferite nel corpo del testo, talvolta cicatrizzate in formule più ermetiche, talvolta evidenti, sotto forma magari di aggettivi o piccoli enigmi. Un esempio: “Pristina rosa”, non è solo un’eco letteraria e un richiamo a un simbolo personale: Pristina è anche la capitale del Kosovo…
Altro indice di furbizia è il contrappunto esibito di citazioni illustri, che servono, un po’ come capita nella narrativa odierna, soltanto a nobilitare il testo, a conferirgli una “patina letteraria”. Proponiamo due esempi. In Fronte del bene comune si ripetono inizialmente le movenze del celebre sonetto di Dante Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, ma qui il plazer dantesco si rovescia, come una frittata, in un testo luttuoso, in cui si ricorda la morte del poeta Simone Cattaneo, sodale dell’autore al tempo in cui questi dirigeva la rivista “Atelier”.
Altro esempio clamoroso, e francamente improponibile, per il tasso retorico implicato, è il rimando a Foscolo, con il poemetto Terramadre. E’ un testo centrale, e presuntuoso, in cui il poeta a suo modo riscrive nientepopodimeno che I sepolcri, in chiave ovviamente personale e lirica, con prestiti diretti, qualche calco e altri effetti imitativi, senza escludere la lunghezza simile. Siamo di fronte a un abile verseggiatore (buona la struttura tutta in endecasillabi, sempre in ossequio al modello) che ha bisogno ogni volta di una stampella espressiva, di un appoggio nella tradizione, non si sa se per ansia di approvazione o se per ingenua riverenza. Ma poco importa, si tratterà comunque di una postura per sé stessa epigonale. Anche il riutilizzo della canzone, modernamente rivisitata nella sua partizione interna, con rime piuttosto nascoste e non immediatamente percepibili, sono un indice di competenza costruttiva, ma la matrice leopardiana, oltre alla solita funzione di marca letteraria distintiva, è forse il sintomo di un poeta che mette in versi un pensiero, diciamo pure una filosofia, precostituita – con la differenza che per Leopardi tale pensiero era almeno profondo, preciso e articolato, mentre qui rimane indefinito e vaporoso, se non propriamente contraddittorio.
L’amore per la tradizione si traduce dunque in formule che vanno al di là dell’omaggio esibito. Ben oltre a un sentimento postmoderno del rimando fine a sé stesso, l’autore sfrutta la memoria poetica in funzione conoscitiva, o come maschera. Ecco un paio di esempi. Fronte del bene comune occhieggia a un celebre sonetto di Dante, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, ma qui il plazer evocato diventa ingrediente audace per un testo luttuoso. Il tema che permette l’aggancio fra l’esperienza personale e la memoria poetica è quello dell’amicizia, sui cui è centrata tutta la prima sezione del libro. Terramadre, invece, è un poemetto che si pone al centro della raccolta, ed effettivamente è una sorta di apice, di chiave di volta. Da molti anni non si leggevano testi così complessi e audaci nel voler “fare i conti con la morte”, per parafrasarne una dichiarazione. Nelle sue movenze spesso oscure, malgrado la sintassi sempre fluente, Temporelli richiama addirittura I sepolcri di Foscolo. Ma la strategia è sottile: il modello è in definitiva una maschera, perché ciò che viene rappresentata è una sequenza personale, in cui la “sconcia locandiera dell’albergo”, ovvero la morte, dovrà soccombere, quando si svelerà l’identità dell’angelo, ovvero del fratello prematuramente scomparso che prenderà voce e permetterà a “Nessuno” di compiere l’estremo capovolgimento, e rilanciare infine la vicenda umana sotto forma di eredità ai figli. Che Foscolo rappresenti uno schermo per narrare, ma anche per nascondere, lo dimostra il fatto che la lettura da cui è sprigionato il poema, come testimonia l’autore, rimanda semmai al Libro tibetano dei morti, che qui non lascia tracce.
Dicevamo di come il poeta, malgrado le citazioni esibite, non sia veramente aggiornato sulle migliori esperienze contemporanee, che muovono semmai verso la prosa, verso uno stile prossimo allo zero, addirittura andando oltre la poesia stessa nel caso dei più coraggiosi e, probabilmente, lungimiranti autori. Al contrario, Temporelli ha uno stile da una parte robustamente, e spesso fastidiosamente, retorico per quel che riguarda i temi, dall’altra banale e piatto, specie per ciò che concerne la sintassi, talmente scolastica da lasciare sconcertati e imbarazzati. Molti testi esibiscono una metrica esatta e squillante, addirittura strutture chiuse, fino a giungere alla sestina: ma si tratta di un’altra stampella per reggere un dettato di per sé senza nerbo, spesso involuto nei suoi ragionamenti astratti. Poi, all’improvviso, probabilmente nello sforzo di compiacere un po’ tutti i gusti, ecco il verso libero, o addirittura testi che si sparpagliano sulla pagina. Sembra una dichiarazione esplicita: l’apprendistato di questo autore, malgrado l’età anagrafica, non è ancora terminato, perché non c’è amalgama, non c’è una voce riconoscibile e coerente a tessere ogni evoluzione interna, di sezione in sezione.
Va notata poi la maestria con cui l’autore si muove con naturalezza in strutture chiuse, dalle canzoni alla sestina (ma si rilevano persino acrostici in due casi, che nessun critico ha ancora colto, anche se l’autore li suggerisce attraverso i titoli, in poesie che in questo libro sono state addirittura accostate). Metri e rime sono rispettate, mentre la sintassi resta lineare: malgrado l’oscurità simbolica di alcuni passaggi, è evidente che ci troviamo di fronte a un poeta assertivo, che non si compiace nella zona di comfort dell’oscurità gratuita, come tanti poeti d’oggidì, ma ha materia su cui lavorare. E quando il testo è strutturalmente più lasco, la sintassi si complica, fino a stringersi nodi in cui il senso si addensa e la logica, che pare ancora scorrere, in realtà si increspa, lascia emergere il soffio dell’irrazionale: “se tu sei non passata”, “muta di carne mente la materia”, “Imparerà / che scrivere col tempo non ha senso”, e così via. La varietà delle forme assunte dimostra poi come sia proprio il contenuto a dettare soluzioni diverse. Se si limitasse a un’unica matrice, l’autore ricadrebbe nella maniera. Questa la ragione di una raccolta nervosa, che di sezione in sezione trova una misura per sfondarla quanto prima. Temporelli anzi ama “sporcare” il testo con riferimenti personali e storici, mette in scena gli attrezzi della tradizione poetica per offrirli in sacrificio, arriva ad autodenunciare la propria retorica con una sorta di doppia voce del testo che si palesa in particolare negli incisi. Compie un rito.
Non è un caso che molti siano i nomi che si sono proposti, per mostrare le ascendenze di questo sedicente poeta: dai più prossimi De Angelis, Viviani, Fiori ecc. ai più classici Caproni, Montale, Luzi, Sereni (ma noi siamo risaliti agli antichi Leopardi, Foscolo e Dante). In particolare, Mario Luzi è omaggiato con la citazione diretta di alcuni versi (“Amore difficile / a portare, difficile a ricevere, / ma sono versi non miei che non senti”, dalla poesia Due in un film) e di un titolo (Fino a che sia limpido): ennesima riprova della condizione di riverente allievo che cerca di compiacere il maestro. Con Mario Luzi tra l’altro l’autore ebbe una discreta frequentazione; insieme organizzarono anche un convegno nazionale, svoltosi proprio a Firenze. Occorreva invece avere la forza, attraverso una voce personale, di dialogare veramente con i poeti della tradizione, o meglio ancora di superarli, non di ripeterli.
Come direbbe Bersani (quello che canta, non quello che dirige la Bianca einaudiana), L’amore e tutto il resto non è altro che “la copia di mille riassunti”, ovvero il sintomo di una volontà di scrittura e di poesia che non ha trovato la sponda del talento per innalzarsi oltre una medietà francamente stucchevole.
Sempre dunque coraggiosamente esposto al rischio, sia sul fronte metrico sia su quello linguistico sia su quello tematico, l’autore dimostra non soltanto di aver attraversato e ricostruito la propria tradizione, con cui combatte, che tenta di distruggere e di rinnovare dall’interno, ma anche di eccedere rispetto ad essa. Lo denota la varietà estrema delle possibili ascendenze. Fin dalla quarta di copertina einaudiana, che lo poneva nella zona di confluenza di diverse tradizioni, Temporelli non si può limitare entro una tendenza o una corrente letteraria assodata: è inclassificabile. Appena si cita un possibile autore di riferimento, ne emerge un altro diametralmente opposto nello stile. Ecco perché ci troviamo di fronte a una voce poetica già matura, sebbene pronta a nuovi imprevedibili sviluppi; una voce che porta avanti un discorso originale e solitario: pare assomigliare a molti ed è diversa da tutti, ovvero, si è intonata al coro della tradizione, e ha trovato il varco per il proprio assolo.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!