Canone da costruire. La carota per smuovere la bestia

Come si costruisce un canone

Immaginiamo un’antologia che voglia raggruppare i migliori autori di una data epoca.

Quanti dovrebbe accoglierne? Per definizione, se si tratta di un’antologia che lavora in una prospettiva canonizzante, dovrebbe essere un numero ristretto. Ma che significa “ristretto”? Devono essere pochi in termini assoluti oppure in proporzione rispetto alle proposte editoriali e agli autori che si presume siano meritevoli? Crediamo ancora nelle triadi e nei poeti che nascono così rari in un secolo oppure pensiamo che per tutto il Seicento, per dire, valga la pena ricordare due/tre scrittori, mentre arriveremmo a venti o trenta per il Novecento, o il Duecento? Si può ipotizzare, comunque, che ogni intervento canonizzante tenderà a essere più indulgente verso la propria epoca, dal momento che il passato si avvale del senno di poi e della sedimentazione di valori messi alla riprova del tempo.

Ma tralasciamo la questione del numero e chiediamoci chi dovrebbe compiere l’impresa.

La soluzione più ovvia e auspicata è che una tale antologia rechi la firma un critico di chiara fama e autorevolezza, accreditato più o meno universalmente. (Avverto a questo punto che uso il maschile grammaticale, ma laddove parlo di critici o di autori intendo ovviamente persone di qualunque genere). Da dove gli deriverebbe tale credito? Da un decennale lavoro di monitoraggio degli autori, durante il quale si è sempre dimostrato attento alle “nuove proposte” (e attento non significa accondiscendente). Lavorando per un giornale, una rivista, un sito o altro, avrebbe con continuità offerto prova di apertura mentale, di rigore scientifico, di costante aggiornamento sul campo. Per i lettori di una simile penna non sarebbe difficile riconoscere in controluce la filigrana di una poetica, anche se magari dai contorni non ben definiti, in base alla quale prevedere che un autore venga preferito a qualcun altro o una particolare visione di letteratura sia privilegiata. Ma tale prospettiva non risulterebbe escludente. Un critico, libero di eleggere ciò che vuole, deve rendere ragione del circostante, dimostrare perché il prediletto (tanto più se amico e sodale) è più valido di altri. Ciò implica il paragone, il confronto con altre opere, ovvero critiche (costruttive) e non solo elogi apodittici. Il verbo cruciale del discorso resta: “dimostrare”. Si tratta di riportare la discussione umanistica su una base di “dialogo scientifico”, ovvero di discorso aperto alla confutazione. Ogni discorso credibile sulla letteratura si riconosce dal grado di apertura alla confutazione e di considerazione di ciò che parte anche da presupposti diversi dai propri.

Ma tranciamo pure questa ipotesi. Semplicemente, una simile penna oggi non esiste. Sulla perdita di autorevolezza della critica e sullo svuotamento di senso dei luoghi in cui essa si esercitava, si è già scritto abbastanza. Mi limito a constatare che intelligenze critiche eccelse oggi non mancano e che, al di là delle eventuali buone intenzioni, oltre alla mancanza di luoghi adatti, e quindi di risorse, lo studioso che volesse assumersi la responsabilità dell’impresa finirebbe per essere assediato, tormentato, vessato, delegittimato, ripudiato, adulato, osannato e via dicendo a più riprese, con tutte le ricadute che ciò comporterebbe sulla sua stessa impresa. Oggi, appena un critico si permette di… criticare, per quanto in termini “scientifici”, finisce per tagliarsi i ponti da solo e ritrovarsi ben presto, suo malgrado, entro un “giro” circoscritto e autoreferenziale.

Ma anche di amichettismo e di caste si è già dibattuto ampiamente.

Dunque, l’impresa parrebbe impossibile, per un solo eroe. Perciò si potrebbe considerare lungimirante, in ambito poetico, l’idea di un’antologia come Parola plurale, firmata anni fa da una squadra di critici. E tuttavia, senza entrare nel merito, mi pare che quel modello sollevi diverse problematiche teoriche: se è già difficile trovare un critico autorevole, è possibile trovarne di più? La somma di credibilità parziali non darà mai un intero. E se anche si trovassero, su quali criteri finirebbero per fondare il lavoro comune? Una coesione ideale corrisponderebbe a una visione poetica di parte; un’intesa per semplici parametri non estetici finirebbe per suggerire una lottizzazione e una giustapposizione di discorsi differenti.

In verità, la formazione di un canone non spetta a nessuna singola mente o squadra di illuminati. Un canone si dovrebbe formare dalla concertazione di tutti gli interventi critici degli esperti. Ma chi può dirsi “esperto”? Rieccoci alla questione della critica e dei luoghi in cui si espleta. Senza farla lunga, oggi chiunque può conquistarsi credibilità. E, in questo, vivaddio, c’è del buono: nessuna aristocrazia benedetta per diritto acquisito alla nascita. Peccato però che in questo modo anche l’ultimo tiktoker o qualsiasi influencer in grado di muovere, anche in piccola parte, un mercato languente, finisca per autocertificarsi esperto o, peggio ancora, per essere accreditato come tale dal fantomatico pubblico. Non ci sono patentini o esami per diventare “critici letterari”, così è stata sdoganata qualsiasi critica soggettiva, estemporanea, impressionistica, che testimonia la propria personale esperienza di lettura di un testo, a scapito di un discorso tecnico che si inquadra in una visione storica dei fatti letterari. Peraltro, alla figura del critico come scrittore ci si era già arrivati per via letteraria, ovvero partendo da una solida cultura umanistica e da un’acclarata competenza testuale e retorica.

Non impantaniamoci comunque nemmeno su questo passaggio. Il canone dovrebbe essere frutto della concertazione degli esperti, ma oggi non c’è più una comunità letteraria. L’editoria risponde all’economia, nella società attuale le competenze letterarie sono tanto sottilmente necessarie e auspicate (nella punta dell’iceberg delle Soft skills) quanto svilite a livello lavorativo e nella prassi quotidiana. Oggi sei qualcuno soltanto se sei il numero uno: questo è il principio educativo che continuiamo, magari surrettiziamente, a imporre. Fino a quando, presi dal panico per l’inevitabile destino che ci attende, non si cercheranno conferme di massa: “O ci salviamo tutti o non si salvi nessuno”. Cinque minuti di gloria, del resto, ci sono stati promessi. Figuriamoci se ci negheranno un condono universale, che sulla bilancia del giudizio ha lo stesso peso di una condanna.

La massa si è fatta insostenibile. Scrivono in troppi, è stato ripetuto anche in questi giorni. E su questi desideri di riconoscimento editoriale, proprio perché sono venute a mancare le vie “tradizionali” del successo (che, lo si dica qui almeno sbrigativamente, non sono affatto da idealizzare), si costruisce il nuovo business. L’importante non è nemmeno più vendere, ma continuare a pubblicare e generare profitti sulle ambizioni da scrittore così diffuse. A questo punto, temo io stesso di fare il gioco del nemico: il desiderio di canonizzazione è la carota che muove la mostruosa bestia composta da noi tutti, e io la sto esplicitamente sventolando tra pupille e papille, all’altezza delle narici.

In effetti, da tempo sostengo che l’unica via per promuovere la letteratura è paradossale, e consiste nel non promuoverla affatto. Per quanto rette dalle migliori intenzioni, le scuole di scrittura, i festival, i premi letterari, le agenzie, i convegni e qualsiasi altro evento letterario finiscono, insieme, per alimentare un sistema perverso. Prima di una concreta pars construens servirebbe una colossale pars destruens. Ecco: la critica costruttiva è quella che anzitutto demolisce, per far spazio a ciò che può sorgere di buono o per verificare ciò che resiste.

Ma per passare anche noi, finalmente, a un ragionamento più costruttivo, immaginiamo a questo punto che, per assurdo, qualcuno voglia comunque assumersi l’immane responsabilità e tentare l’impresa. Da uomo libero, si baserà sulle proprie forze e cercherà di costruirsi sul campo una propria credibilità, soprattutto agli occhi degli esperti e dei lettori più competenti, o di quello che ne rimane. Sfrutterà biblioteche (ma troverà le ultime uscite?), gli omaggi degli autori più generosi (ma con che cuore, poi, li stroncherà, nel caso?), darà fondo ai propri risparmi per puro amore della letteratura e alto senso del dovere. Chi è del mestiere, ora starà sorridendo, perché ha una percezione concreta di quanti libri dovrebbe leggere il nostro povero eroe, e in quanto poco tempo, dal momento che il panorama è in costante e rapida mutazione e non si lascia fotografare. Ma il nostro impavido critico non è ingenuo come sembra e si inventerà qualche formula, provvisoria e labile, eppure credibile. Definirà un campo d’azione, aperto a tutte le interpretazioni letterarie, ma con qualche limite efficace. Per esempio, potrebbe decidere di occuparsi di una generazione, o di un periodo storico, o di un genere. Indubbiamente, più il campo andrà specificandosi, meno “canonizzante” e universalmente accettabile sarà il suo contributo. Si tratterà di un piccolo canone, primo tassello, comunque, in attesa di altri simili indagini che finiscano per mappare in modo più completo il territorio.

Oggi, rigiriamo la frittata, si scrive talmente tanto che sicuramente ci stiamo perdendo per strada chissà quanti capolavori. Ci ho scritto un romanzo, sulla faccenda. Quest’idea, nei momenti di sconforto, riattiverà le energie del nostro impavido eroe, lieto di rimediare, per quanto nelle sue possibilità, alla mancanza di una comunità letteraria capace di mantenere viva una tradizione, in grado cioè di riconosce e trasmette “automaticamente” le opere meritevoli. (Anche qui: una tradizione è un agone in cui ci si scanna all’infinito, di secolo in secolo, non un locus amoenus in cui si chiacchiera amabilmente. O Dante o Petrarca. O Ariosto o Tasso. O Pascoli o D’Annunzio. Ma, intanto, ecco che Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Pascoli e D’Annunzio, stanno nell’arena. Ogni nuovo ingresso, invece, dovrà reggere lo sguardo un po’ di tutti e modificare l’intero scenario di battaglia).

Qualsiasi criterio adottato per definire un ambito comporta dei limiti. Come se ciò non bastasse, oggi si dovranno però sopportare anche le pressioni infinite del politically correct. Si vorrebbe indicare le opere migliori di una determinata generazione o di un periodo o di un genere o di altro ancora, ma al criterio della qualità al nostro povero critico verrà chiesto subito altro. Qual è il rapporto tra maschi e femmine? Quanti autori del nord e del sud ha valorizzato? Quanti delle isole? Non avrà per caso trascurato qualche regione? Avrà inserito solo autori benestanti oppure avrà rispettato i diritti della working class?

Viviamo nel tempo del genderfluid, della globalizzazione e della società liquida, ma queste richieste, e chissà quante altre, costruiscono la pressione dell’epoca, dalla quale non si può prescindere. Ma, in tutte le situazioni limite, il nostro astuto eroe avrà buttato un occhio anche a questi criteri, pur senza venir meno ai propri principi, elastici il giusto eppure resistenti.

Che altro si potrebbe chiedere di più? Per esempio, sarebbe auspicabile che il nostro critico ideale operi un po’ oltre la cerchia dei rapporti personali. Stringere amicizie o simpatie sarà inevitabile, ma non sarebbe male, suppongo, se a valutare una generazione fossero le generazioni successive. Mi pare anzi il motore stesso della tradizione: occorre un giudizio severo ma leale, frutto di uno sguardo autonomo, che va a selezionare ciò che si reputa ancora vitale e non semplicemente ciò che viene trasmesso, ossia ciò che una tale epoca ha espresso di sé, in modo più o meno consapevole e molto probabilmente non equo (la storia è scritta dai vincitori). Il giudizio dei posteri attiva invece un filtro in grado di selezionare in ciò che è noto e di ripescare costantemente nel rimosso. Peraltro ora il margine di autonomia delle generazioni a venire è forse più solido che in passato. Quando ancora una società letteraria esisteva, criticare liberamente chi, prima di te, si era conquistato una certa reputazione e magari anche una fetta di autorità in ambito editoriale non era per nulla conveniente. L’attuale corrosione dei luoghi di potere favorirebbe invece uno sguardo critico più limpido, severo e disinibito.

Come accogliere e sostenere al meglio un simile sguardo? Come gli autori delle “generazioni di mezzo” dovrebbero disporsi rispetto alle generazioni successive?

Prima di qualche sommaria indicazione su questo fronte, chiariamo i termini. Per “generazione di mezzo” si intende tutti gli scrittori che non sono nel novero dei più celebri e accreditati, ma che hanno un percorso letterario sufficientemente ampio e strutturato (non sono cioè semplici esordienti e hanno raggiunto la maturità espressiva). In ambito poetico, l’idea di generazione credo funzioni un po’ meglio, perché è facile indicare una serie di poeti, nati all’incirca nei primi tre lustri del dopoguerra, e percepirli, almeno in qualche misura, se non come già “canonizzati”, quanto meno sulla soglia del canone e in attesa dell’ultima verifica (che poi, come abbiamo spiegato, non sarà comunque definitiva). Per quanto riguarda la narrativa, invece, il discorso si complica, perché la sedimentazione critica è costantemente attratta, direi distratta, dal successo editoriale magari clamoroso, che talvolta può arrivare persino a bruciare opere non prive di effettivo valore (l’uso e l’imitazione sviliscono: i maestri stiano attenti al boomerang che sventolano!). Oggi, in Italia, dopo il secondo romanzo, un autore è già legittimato a scrivere un manuale di scrittura; e, c’è da scommettere, il suo prossimo lavoro avrà per soggetto uno scrittore, magari in crisi. Ah, quante precoci consacrazioni verranno scontate nel giro di qualche decennio! Ma torniamo a noi e immaginiamo comunque di tenere ben salda la barra di navigazione, concentrati sul valore acquisito in seno alla critica di miglior rango in un lasso di tempo ragionevole.

Canone da costruire
Canone da costruire: uno spicchio della mia libreria

Eccoci dunque alle domande che ci eravamo posti. Come favorire, eventualmente, uno sguardo critico da parte delle nuove generazioni? Intanto, cercando di alimentare una discussione letteraria virtuosa, che non si limiti a difendere la propria parte (ovvero la propria poetica, il gruppo di appartenenza, l’età anagrafica e quant’altro). Nel rivendicare legittimamente il proprio particolare punto di vista, non si deve delegittimare mai quello altrui. Occorre pensarsi all’interno della scena complessiva, smarcandosi dal proprio egotismo (mossa particolarmente ardua, si sa, per un letterato).

Inoltre, è il caso di curare la memoria. Chi verrà dopo di noi, ha bisogno del racconto del tempo che fu, di ciò che è successo, di come si operava, di quali erano le condizioni entro cui si è formata una determinata voce. E significa anche continuare a ricordare i testi ritenuti meritevoli, senza appiattirsi sulla novità del momento. Vale a dire, curare la memoria di quelle persone più a rischio di essere dimenticate, perché di indole meno propositiva o perché scomparse prematuramente, oppure perché rimosse a causa di un mutamento di paradigmi.

Altra postura auspicabile: non è il caso di opprimere lo sguardo critico dei posteri con l’ansia di riconoscimento che ci contraddistingue e che, a tutti gli effetti, è già un sintomo di incompiutezza, al netto delle problematiche insite nel trauma della nostra specifica epoca ormai post-umanistica.

Ma l’atteggiamento più importante da mantenere, che è anche quello più difficile da descrivere perché più sottile, subdolo, implicito, è il rifiuto di qualsiasi forma di ricatto. E come si potrebbero ricattare le nuove generazioni? Sfruttando il loro stesso desiderio di emergere. Ci sono contratti non scritti, non letti, non firmati, che tuttavia molti seguono scrupolosamente. “Riconosci il mio valore? Hai qualche possibilità di uscire nella mia collana, di presenziare al mio festival, di essere tu stesso certificato come autore attraverso la mia presentazione (per la poesia) o la mia fascetta (per la narrativa)”. E così via, secondo tutte le variazioni possibili all’interno delle relazioni umane, in qualsiasi ambito. Quante antologie i “padri” compilano per rafforzare il loro ruolo? Qual è il confine fra la generosità e la furbizia, nel firmare decine di prefazioni all’anno? Certo, è auspicabile che le nuove leve siano sufficientemente forti da non lasciarsi condizionare, ma è inutile essere ipocriti, sappiamo bene che molti scrittori investono tante energie, più che nella scrittura delle proprie opere, nella ricerca di adepti, di discepoli da allevare e favorire. Con ciò, nessuno si permette di giudicare e distinguere la gratitudine dalla ruffianeria o l’apprezzamento dalla compiacenza, ma è bene sollevare il coperchio anche di questa pentola che, nel farsi della letteratura, ha sempre continuato a bollire.

Proviamo ora un esempio concreto. Immaginiamo che il nostro fantomatico critico decida di comporre un’antologia canonizzante. Dovrà porsi un limite: optiamo per un’antologia delle migliori scrittrici attuali nell’ambito della narrativa. Una di soli uomini sarebbe improponibile; di sole donne, risulta ancora dovuta e meritevole. Prescindiamo dal fatto che di simili repertori ormai ce ne sono tanti e che separare le opere di donne da quelle di uomini non fa il bene né di una categoria né dell’altra: ciononostante il campo di indagine andrà ancora limitato. Da Dacia Maraini a Carolina Cavalli, infatti, il territorio sarebbe troppo vasto. Inoltre, Dacia Maraini è già nel canone, o sui margini pronta all’ultima verifica. Supponiamo allora che l’eroe del nostro discorso voglia occuparsi delle scrittrici emerse nel Duemila. Possiamo permetterci di restare nel vago, su questo criterio, per procedere con l’esempio.

Ecco, vediamolo il nostro impavido critico che, contando soltanto sulle proprie forze, si mette a esplorare il campo d’indagine definito. A un certo punto, si imbatterà in un post di Giulia Sara Miori (uno dei tanti che ciclicamente compaiono), la quale avanza una lista “parziale e discutibile” di 21 scrittrici dalle quali, secondo il suo punto di vista, non si può prescindere. Insomma, è la proposta di un canone personale, in fieri, ovviamente, e consapevole della propria soggettività; una sorta di messaggio infilato dentro una bottiglia scagliata contro l’oceano dell’epoca. Il nostro critico nel pescare simili messaggi sarà entusiasta: si annoterà immediatamente il prezioso dono di 21 nomi:

Viola Di Grado, Valentina Durante, Claudia Durastanti, Maddalena Fingerle, Veronica Galletta, Natalia Guerrieri, Yasmin Incretolli, Valentina Maini, Lavinia Mannelli, Francesca Mattei, Ilaria Palomba, Valeria Parrella, Romana Petri, Claudia Petrucci, Laura Pugno, Andreea Simionel, Nadia Terranova, Veronica Tomassini, Anja Trevisan, Maria Rosaria Valentini, Carmen Verde.

Siccome il nostro ipotetico critico dà credito a Miori, perché la legge da tempo e la stima, inserirà nell’elenco anche il suo nome (anche lei, naturalmente, scrive). Non si preoccuperà di controllare quali nomi dell’elenco sono presenti tra i contatti FB della stessa oppure hanno con lei qualche altro legame (stessa agenzia o casa editrice, conoscenza diretta in qualche evento) oppure sono atti di ossequio rispetto a figure già molto considerate: conoscendo e stimando la scrittrice, il nostro integerrimo critico si fiderà, sa che le opinioni espresse sono sincere a prescindere da eventuali rapporti professionali o legami con alcune delle incluse (sarebbe, del resto, illogico e impossibile che l’autrice non avesse rapporti con diverse scrittrici da lei stessa indicate). Insomma, il nostro eroe avrebbe finalmente 22 nomi da cui partire.

Macché, il post è utile perché si apre ad altri suggerimenti: grasso che cola, per il nostro attentissimo critico. E così aggiungerà (pesco almeno alcuni dei nomi realmente annotati dai lettori del post) anche Melania Mazzucco, Giorgia Tribuiani, Carmen Pellegrino, Simona Lo Iacono, Nicoletta Verna, Simona Vinci, Elena Varvello, Francesca Manfredi, Donatella Di Pietrantonio, Marta Cai, Carmen Totaro, Bianca Pitzorno, Silvia Ballestra, Carmela Scotti, Lorenza Ronzano, Wanda Marasco, Sara Gamberini, Maria Grazia Calandrone, Isabella Santacroce, Angela Bubba, Laura Liberale, Silvia Tebaldi, Nicoletta Vallorani, Laura Pariani, Grazia Verasani, Nadia Busato, Silvia Bottani, Mariapia Veladiano, Ben Pastor, Letizia Muratori, Lavinia Mannelli, Giaia Giovagnoli, Emanuela Canepa, Elena Giorgiana Mirabelli, Claudia Grande, Hilary Tiscione, Emanuela Cocco, Francesca Manfredi, Giulia Scomazzon, Germana Urbani, Daniela Gambino, Vanessa Ambrosecchio, Giulia Muscatelli, Arianna Ulian, Ruska Jorjoliani, Monica Acito, Ginevra Lamberti, Elisa Ruotolo, Milena Agus, Marta Barone, Antonella Berni, Antonella Anedda, Alessandra Sarchi, Igiaba Scego, Stella Poli, Silvana Grasso, Sara Maria Serafini, Francesca Veltri, Francesca Matteoni, Francesca Clara Fiorentin, Francesca Tuscano, Antonella Cilento, Anna Segre, Silvia Cassioli, Chiara Valerio, Marta Zura-Puntaroni, Silvia Vecchini…

Fermiamoci qui. A questo punto, vediamo il nostro critico prendere il blocco degli appunti, meglio: vediamolo aprire un’applicazione opportuna dello smartphone e leggere altri nomi da tempo appuntati: Giulia Baldelli, Gilda Policastro, Emmanuela Carbè, Eleonora Caruso, Debora Omassi, Laura Marinelli, Mariana Branca, Giuliana Altamura, Sonia Serazzi, Lorena Spampinato, Benedetta Palmieri, Novita Amadei, Valentina Di Cesare, Oriana Ramunno, Ilaria Gaspari, Alice Zanotti, Lucia Brandoli, Raffaella Silvestri, Felicia Kinsley, Francesca Tassini, Isabella Bignozzi, Manuela Mazzi, Francesca Marzia Esposito, Cristina Venneri, Susanna Bissoli, Deborah Gambetta, Ada D’Adamo, Rosella Postorino…

Anche in questo caso, stop. Come potete immaginare, la lista non ha pretese di essere completa e resta ricettiva nei confronti delle nuove proposte, che non si faranno attendere.

Il nostro sagace critico, avrebbe comunque un elenco, grezzo, di partenza. E si sarà già posto ripetutamente una domanda: ma Giulia Sara Miori, che ha indicato le sue preferenze, conosce queste altre scrittrici? Ovvero: le reputa effettivamente inferiori a quelle inserite nella sua lista? La domanda gli interessa perché ha stima di chi firma il post e quindi vuole dare il giusto credito alle sue scelte. Ma sono scelte consapevoli? (L’autrice non ha detto: a me vengono in mente questi nomi perché questi, o pochi altri di più, ho letto; ha scritto che questi secondo lei erano scrittrici imprescindibili, quindi migliori di tante altre, che però restano indefinite, col rischio di invalidare il giudizio personale). Comunque, torniamo alla lista di lavoro. Qualcuna, supponiamo, verrà depennata perché non rientra esattamente nei limiti stabiliti. Il nostro avventato critico avrebbe comunque più di un centinaio di nomi da valutare. In quanto tempo? In quale modo potrà procurarsi i libri (tutti quelli scritti da parte di ciascuna, ça va sans dire)?

E quanti autrici alla fine sceglierà: tre, dieci o venticinque? No, venticinque non sarebbe più un tentativo di canonizzazione; opterà per dieci. Ma dovrà rendersi credibile agli occhi delle escluse… E come? Recensendole tutte? Con quali ritmi di lavoro?

Forse, con questo esempio concreto, cominciamo a rendere l’idea dell’impresa. Ci è servito, se non altro, per riflettere su alcune questioni. Per esempio: i limiti degli elenchi, che come i soldi, o come i pidocchi, chiamano semplicemente altri elenchi; la necessità di un ragionamento critico, anche minimo, per accompagnare ogni suggerimento; il coraggio di fare paragoni (doloroso sbocco pratico e per me tanto necessario quanto esiziale della critica); l’importanza di sostenere le proprie differenti vedute senza considerare l’interlocutore un nemico da sopprimere; la difficoltà e forse l’insensatezza nel pensare a un canone che risulti giusto da un punto di vista sociale o politico; il rispetto se non addirittura l’ammirazione che merita a priori chiunque tenti anche vagamente un progetto così audace.

A questo punto, verrebbe voglia di credere che lo scopo del ragionamento fin qui condotto sia dimostrare l’impossibilità di uno studio critico completo e autorevole sulla letteratura contemporanea e quindi sdoganare e rendere meritevole qualsiasi ispezione parziale che, seguendo una qualsivoglia presunzione d’autorevolezza, si scagioni dal confronto con la complessità. Nient’affatto. Anzi, tutt’altro. Qualcosa di più personale, lo aggiungerò nella postilla, qui annoto le considerazioni che guidano il discorso ad altro sbocco.

Lo scopo di questo intervento è favorire la consapevolezza generale e, di conseguenza, ribadire le buone pratiche da attuare perché un minimo di comunità letteraria sopravviva, all’interno dei congegni della nostra epoca capaci di deviare le nostre migliori intenzioni contro noi stessi. Del resto, un critico che volesse accogliere la sfida e dare il proprio contributo per qualsivoglia sfaccettatura del canone in costruzione (giacché il canone si farà comunque, malgrado noi, magari consegnandoci tutti all’oblio, con buona pace della nostra smania di certificazione d’esistenza) avrà affinato alcune importanti strategie: saprà seguire il dibattito, leggere altri studi, e fidarsi di taluni giudizi; saprà abbracciare la molteplicità con qualche sguardo d’insieme, senza soffermarsi analiticamente su chiunque; saprà farsi l’idea di un’opera attraverso una lettura skippata, per dividere tra i libri degni di una lettura completa e quelli esemplari per qualche limite sostanziale; a un certo punto, si fiderà anche dei riscontri ottenuti in termini sociali (attestati di stima, prestigio editoriale acquisito, persino premi ricevuti…); infine accetterà l’imperfezione umana e quindi anche la propria, lieto di offrire comunque un buon lavoro, a vantaggio dell’intera comunità e per la cura della letteratura, amata a tal punto da meritarsi questa sua encomiabile dedizione.

Del resto, solo un gesto così puro e folle come quello di un critico che si volge indietro, verso le opere che eredita, e affronta l’impresa descritta, può salvaguardare il patrimonio di una tradizione. La tradizione letteraria, infatti, procede all’inverso di quanto accade nella vita. Se in biologia il sangue non mente, e dunque sono i padri a generare i figli, nella cultura la scintilla vitale scatta a ritroso: spetta sempre ai figli ridefinire il proprio albero genealogico.

Postille personali

Annoto in calce tali postille in modo che si possano facilmente espungere o ignorare da parte di chi, anziché testimonianze, le considererà rivendicazioni egotiche. Le riduco in polvere, perché ormai, per il sottoscritto, sono esattamente questo: polvere.

1) Nell’ultimo mese, ho ricevuto due inviti a compiere un’indagine critica, prima in riferimento alle generazioni precedenti, poi in riferimento alla mia. Ma io non sono più un critico, e quel po’ di critica che mi esce dalla penna è da considerarsi un risvolto saggistico del mio lavoro creativo, uno spontaneo e non più controllato impulso ad agire verso ciò che mi pare meritevole.

2) Ho curato un’antologia con tredici narratori, in uscita a settembre: non si tratta di un repertorio con ambizioni canonizzanti. Semmai vuole essere, come il post di Miori (ma su altro livello, corroborato da testi e da analisi), una scintilla per avviare un processo di riflessione più ampio e generale.

3) La mia generazione, che per un certo periodo è veramente esistita, poi si è dissolta e questo ha prodotto, secondo il mio giudizio, una clamorosa perdita di valori, una effettiva mistificazione del peso che avrebbero meritato di avere certe opere. Da un po’ di tempo sento anche un desiderio, nei miei coetanei (in senso lato, ovviamente), di ricompattarsi. Si manifesta in svariati modi. Sarei lieto di fronte al compiersi di tale processo, ma io non potrei più avere alcun ruolo al suo interno, se mai in passato ne abbia avuto qualcuno di significativo.

4) Quando studiai la generazione di mezzo che precedeva la mia, allora agli esordi, scrissi Poeti nel limbo, un saggio che prende in esame analiticamente più di cinquanta poeti, di cui avevo letto tutti i libri. Il che significa che ne avevo studiati ed esclusi almeno un altro centinaio (alcuni anche soltanto perché non mi sembrava elegante argomentare a vantaggio delle opere di cui avevo favorito io stesso la stampa). Potrei ancora adesso, per esempio, recuperare qualche libro di Antonio Camaioni (un nome a caso) e trovare al suo interno la scheda con annotati interventi, recensioni e pubblicazioni varie che lo riguardavano, rinvenuti nelle varie riviste compulsate in quegli anni. E ricordo che allora il web era solo agli albori… Questo per dire che l’impresa di studiare la contemporaneità, per quanto appaia ardua, non è impossibile.

2 commenti
  1. Massimiliano
    Massimiliano dice:

    “Dal transitare della vita qualcosa dei suoi occasionali supporti nondimeno rimane: è proprio la
    morte del presente che seleziona involontariamente quelli che appariranno in futuro come segni della vita e della verità del transito, rimanenze in attesa di interpretazione e di comprensione. Questo è ciò che chiamo il lavoro della morte ( …) ”

    Stralcio di un’intervista a Carlo Sini.

    Rispondi
    • Andrea Temporelli
      Andrea Temporelli dice:

      Che bella citazione. Il discorso mi è venuto fuori già troppo lungo, ma avrei voluto specificare proprio che tutto questo lavoro sui contemporanei, serve solo per offrire una prima cernita, ma poi occorrono almeno un paio di altre generazioni, per valutare davvero. Facciamo piazza pulita dei poteri, dei nostri sforzi, di tutti i posti che occupiamo in vita. Lasciamo che la morte compi il grande sgombero. Poi, davvero, si vedrà quale velo di polvere di noi rimarrà

      Rispondi

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