Fioritura di una generazione
La mia generazione – che, mi spiegano, non si distingue più dalle altre – sta raggiungendo in questi anni la piena fioritura. Oltre agli autori già coinvolti negli anni d’oro di Atelier, ora anche percorsi più appartati o autori di esordi più tardivi si attestano con opere di rilievo. Se poi, per la mancanza di un discorso condiviso e per il collasso editoriale a livello generale, esse non vengono pienamente riconosciute, è un altro problema.
A dire il vero, ogni tanto qualcuno denuncia i limiti già impliciti nel lavoro svolto da Atelier, colpevole di non aver registrato tutto l’esistente. A parte il fatto che il discorso generazionale di allora (consapevolmente pretestuoso, ma virtuoso negli intenti) non prescindeva dalla qualità letteraria (essere nato negli anni Settanta non era, automaticamente, un certificato di valore) e che, vivaddio, i protagonisti di quel percorso avranno avuto i loro limiti, a partire anzitutto dal sottoscritto, qualcuno si dimentica quanto fossero diversi i tempi e i modi stessi di leggersi, contattarsi, restare in relazione (e tutto cominciò in provincia, a Borgomanero, quando avevo ventitré anni e nessuna guida esperta del panorama contemporaneo…). E si trascura il valore anche del giudizio negativo o la contrapposizione di intenti letterari, quando non segnalava un distacco e un posizionamento di potere, ma un voler restare nel dissidio, nella tensione comune che generava una sana competizione, un’attribuzione di senso anche nella differenza. Faccio un esempio concreto. All’epoca incontrai Desiati, invitato anche a partecipare al “convegno” di noi giovani a Borgomanero. Le sue poesie non mi convincevano del tutto, ma questo non significava affatto che non lo sentissi come un interlocutore importante e che, nel tempo, i giudizi potessero evolvere. (Tra l’altro, ricordo che all’incontro Desiati profetizzò una “decantazione editoriale” per la nostra generazione: la sorte volle che tale decantazione toccasse quasi tutti, tranne lui e pochi altri).
Ormai fuori dalle intemperie della giovinezza, queste piccole o grandi difficoltà interne sono evaporate, insieme alla generazione e alla società nel suo insieme. Tutti, come cavalieri erranti, si impegnano a conquistarsi piccoli habitat, giardini di Armida in cui resistere. L’emersione editoriale di qualche libro è un processo a volte dettato da logiche di puro potere, a volte è frutto della meticolosa costruzione di una carriera, a volte di semplice casualità, e dunque non è indicativa. Tra pochi decenni, i nomi che più sembrano occupare la scena saranno completamente dimenticati, e si rileggeranno antologie e compendi con sentimenti di rassegnata curiosità.
Ovviamente, i percorsi compiuti dai poeti nati (suppergiù) negli anni Settanta sono i più vari. C’è chi si è attestato autorevolmente in nuove dimensioni editoriali, inventandosi quasi dal nulla generi e saperi ora ben riconosciuti (Fratus), c’è chi è maturato insistendo sulle cifre stilistiche che già contraddistinguevano gli esordi (Biagini, Italiano, Gezzi, Serragnoli, Leardini), chi trova ora una piena consacrazione (Sinicco, tra i finalisti dello Strega Poesia), chi era partito come poeta pasoliniano e si è reinventato come narratore giallista (Santi), chi accanto alla poesia sta dando corpo a una ricerca narrativa altrettanto proficua (Pugno, Brullo, Ielmini), chi, come il sottoscritto, solo ora ha chiuso i conti con questioni esistenziali costitutive e si appresta a vivere una nuova stagione creativa. E così via.
In questi anni, da una posizione tanto defilata quanto partecipe, mi piace sia seguire le acquisizioni più cospicue nell’orizzonte dei coetanei (Bregoli, Bignozzi), anche se qui ovviamente il discorso si apre alle generazioni successive, sia rileggere e rivalutare percorsi che forse avevo, a suo tempo, frainteso o non compreso pienamente. In generale, tuttavia, le riletture di poeti che avevo comunque seguito in questi anni (Frene e Maccari, per citare solo i più recenti) supera per quantità l’esplorazione del nuovo, che segue traiettorie più fortuite. Qui, mi piace ora segnalare un paio di autori, Giovanni Turra ed Elisa Donzelli, che raccontano proprio questa duplice prospettiva: la rilettura di un percorso e l’attenzione a ciò che è emerso dopo il mio diretto impegno in Atelier.
Forse sbaglio, forse non me ne sono accorto io, ma Con fatica dire fame di Giovanni Turra (uscito nel 2014 per La Vita Felice) è un libro che avrebbe meritato molta attenzione. Potrebbe, tanto per rendere l’idea, stare attualmente accanto a un libro di Pusterla o dell’ultimo Fiori senza sfigurare. Anzi.
Riflettere quel poco
com’è dei sottoposti.
Darsi da fare invece, darci
dentro. Ne viene alla vita una lena
che piace. Tant’è:
si affinano i dolori,
la gioia giubila di più.
Come se mai al mondo
sogni fossero esistiti
e baci
e giardini fioriti.
Quando, una vita fa, lessi il suo primo libro, Planimetrie (che pure era già una bella silloge), ne ebbi un’impressione di voce troppo rastremata, da area lombarda ormai trita e ritrita. E invece, con il suo incedere parco (due libri autonomi nell’arco di 3, 4 lustri), Turra ha confermato una voce solida e personale. Mi ricorda la precisione di sguardo di un Mario Benedetti, anche se Turra non teme un maggiore nitore nel verso, persino qualche aggraziato movimento che dimostra il rapporto con la tradizione, si tratti di echi montaliani (“E s’accampano di getto”) o zanzottiani o altro. Ecco, mi pare un libro che avrebbe segnato una tappa importante, all’interno dell’opera comune – ma la generazione, come detto, si è dissolta, è evaporata, e temo che questo libro (ma forse sbaglio) non abbia trovato una rete pronta ad accoglierlo, e sia un po’ caduto nel vuoto. Si confida nel prossimo (che suppongo piuttosto imminente) e nello sguardo di chi, in futuro, saprà leggere con maggiore attenzione, senza le interferenze degli affari contemporanei.
Nella plaquette Uomini blu (Stampa 2009, 2023) di Elisa Donzelli (già emersa con la raccolta d’esordio Album, Nottetempo, 2021), l’io si espone al primo impatto in modo trasparente, ma in verità si percepisce presto anche il pulsare di un’energia ctonia. Del resto lo scavo vegetale della terra è metafora ricorrente e in generale la natura riconduce la trama biografica entro una vicenda più ancestrale (“ora / papà – io so che siamo tutti e quattro / morti ma siamo stati lo stambecco / che sparge la sua progenie / nella pietraia”). La terra può essere rossa, nell’esplosione della vitalità e del contrasto, oppure bianca, coperta dalla neve, per concedersi il lavorio segreto del silenzio e dell’inedia, della metamorfosi occulta. Gli uomini, forse colpevoli di un tradimento dell’unità originaria, almeno a inizio raccolta, sono invece blu: è il colore dello spazio da conquistare, che siano pareti di casa o il cielo da esplorare, ma soprattutto è la solitudine marina da cui si nasce: “non si poteva dire che il luogo / in cui sono iniziata non è stato a terra / ma su una barca”. Nella raccolta, maschile e femminile sono in perenne intreccio, tra contrasto e pietas, lotta e affondo d’amore. E il continuo trapungere tali estremi è evidente a più livelli nel testo, si tratti di figure familiari chiamate sulla scena (genitori o figli) o di riferimenti poetici (sia della tradizione novecentesca, da Luzi a Guidacci, sia tra i contemporanei, da Maurizio Cucchi ad Ana Blandiana, che aprono e chiudono con le loro note questa anticipazione di un prossimo volume). Del resto, la citazione dal Genesi in esergo attiva subito questa interpretazione: “maschio e femmina li creò”. La storia è la ferita in cui maschile e femminile si separano, e il compito del poeta sembra essere quello di recuperare l’unità originaria, di superare il confine, di compiere, nel perpetuarsi delle generazioni, un salto qualitativo. Occorre scoprire “se le cellule che si separano hanno un cuore”, se il disfacimento perenne a cui sembra destinata la vita può essere poeticamente contrastato, in modo da salvare un rifugio, una casa (altra immagine persistente). È dunque un gesto poetico filiale, ma non di mera devozione, quello di Donzelli: la responsabilità di tenere “unita nei passi / l’orma della libertà” non viene disconosciuta. E il primo stadio è preservare la coerenza della propria stessa figura, come nella splendida, verticale Midjourney, in cui l’io si riconosce in ogni forma assunta: neonata, figlia, femmina, bambina, adolescente, ragazza, giovane donna, sposa, compagna, madre:
sono la neonata distesa e nera
figlia di un maschio del sud,
di una femmina del nord
la bambina riccia, la piccola
che preferisce i piccoli, dietro
le cene capisce i grandi
il menarca che rompe, sono
la gazzella troppo alta
per la danza classica
l’adolescente che risponde,
schiva i gruppi
che vogliono tutti
io sono l’amore contro i muri,
la ragazza che non vuole
i maschi che vogliono,
che non vuole il lavoro
che vogliono
la giovane donna
che determina gli eventi,
taglia legami ferisce parenti,
la sposa che esibisce
la compagna che costruisce
l’ostinazione, la sorella
mancata sorella malata,
le figlie, le secondogenite
e il corpo bianco della madre,
l’utero che accoglie il bambino
ed altri animali
io, questo
e altre sono stata
mentre tu, mio io, bussi
mi cambi e non pensi
che per amarti sempre
ho tradito
Ma quanto sono tristi le letture di poesia? Ma a chi frega se non al poeta e forse, a malapena, ai poeti in sala? E quanta gente applaude invece a San Remo e magari batte il ritmo e balla e a volte addirittura trae un senso da quei testi idioti? Ma chi sono io per dire che sono idioti? Lo sono sia chiaro, ma oggi chi può alzarsi davvero in piedi e sancire: questa è immondizia! Lo si fa, ma per riempire una serata, salvo poi venire etichettati per presuntuosi etc. Ha un fondamento questo esempio nella mancanza di un fondamento che comporta un livellamento che è diventato inutile stabilirne politicamente se è giusto, sbagliato, malato, o che so io. Sarà anche gioco di potere, certo, ma è anche la gente che acclama e sceglie cosa deve restare e cosa no. Non possiamo escluderla dall’equazione come fosse solo un insieme di bambocci a cui si dà da mangiare e basta. Almeno dico, almeno la poesia avesse lo stesso pubblico del cinema d’autore, magari. Fosse anche quello dei festival più sperimentali. O quello delle mostre di pittura dei grandi e soliti nomi come un Chagall! A me pare che la poesia, la forma poesia sopravviva soprattutto per via della sua grande storia passata. Almeno qui in Italia, o no? I poeti forse ancora non se ne rendono conto che è morta, esattamente come i credenti che pregano un dio altrettanto morto. Del resto poesia e déi hanno delle radici comuni. Ci vuole tempo affinché l’onda spostata dal sasso – già sul fondo – disperda la sua energia. Forse è solo questo. Non so, è difficile, molto difficile, farsene una ragione.
Caro Massimiliano, sì, c’è chi intende la poesia come un genere ormai morto. In tal caso, sei in buona compagnia, con il numero crescente dei post-poeti. Che hanno, sia chiaro, le loro sacrosante ragioni, che medito ben benino anch’io. Loro stanno teorizzando e sperimentando le conseguenze. Vedi tu se seguirli, in qualche modo.
Sulle serate di poesia, vale la regola generale. Ci sono troppo proposte e troppe alternative. Si parlava anche di stadi vuoti a causa della tv. E invece ci sono presentazioni con folle non oceaniche, ma relativamente incredibili. Certo, per poche eccezioni.
Detto ciò, nel mio caso, mi faccio guidare da un paio di criteri. Primo: niente aspettative sul pubblico. Magari sono quattro persone. La qualità fa comunque la differenza. E si prosegua con un lavoro di tessitura di rapporti da formichine. La dimensione della poesia è questa.
Secondo: no alla solita presentazione. Ci si inventi qualcosa. Non per spettacolarizzare o altro, ma per rompere la struttura monologica e autoreferenziale del poeta. Io cerco di usare slide e, persino, di spiegare, per quel che posso e per quel che ho capito, le mie poesie, come sono scritte e perché. E poi mi invento altro. Giusto ieri sera, io che ho diecimila sospetti circa la musica di sottofondo a un testo, ho improvvisato, letteralmente improvvisato, con un musicista, coinvolgendo nel laboratorio il pubblico. Con un risultato interessante. Quantomeno, mi sono divertito. Pare sia rimasto contento anche il pubblico (oltre quaranta persone, per l’occasione)
La morte di cui parlo non mi pare sia riducibile a una moda da seguire o meno Andrea, ma un’evidenza alla quale non ci si può sottrarre così come non si può far finta che il pianeta non sia inquinato. Posso con questo dire che non ci siano ancora belle giornate limpide? Prati verdi e mari trasparenti? No, ci sono eccome, ma il mondo è inquinato, profondamente inquinato: sono le fondamenta a crollare, prima lontane poi sempre più vicine. È la domanda di verità tramite la poesia che manca non la poesia; che però subisce questa mancanza di domanda e allora da una parte prolifera a dismisura per mancanza di argini, e dall’altra la proliferazione va nel vuoto perché il pubblico della poesia sono per lo più i poeti e gli intenditori…e i parenti. Credo dunque che la poesia non sia più necessaria? Per quel che mi riguarda è necessaria per me. Basta? Mentre scrivo sì, ma solo mentre scrivo o provo a farlo, dopo non posso non rendermi conto di quanto il mondo, o il mercato, ma nemmeno la gente per la strada ( che fa il mondo e il mercato) è nel suo insieme indifferente alla poesia. Ecco un punto: sostenere che non si debbano avere aspettative sul pubblico mi suona, consentimi, troppo vicina alla mitologia che narra di un artista che crea solo per se stesso. I poeti necessitano di un pubblico come un qualunque altro artista, e la sua reazione conta e se non c’è reazione si soffre. Se non ci fosse un pubblico, per assurdo, nella più totale solitudine chi scriverebbe mai poesie? Me lo chiedo spesso. Se poi la reazione di un pubblico la si cercasse scrivendo per compiacerlo è un affare di coscienza personale di chi lo fa, ma che non si avverta l’agonia di quest’arte non mi pare possibile negarlo, quanto meno il fenomeno non che cosa comporti o come eventualmente si reagisca Tu dici che oggi è così ( in riferimento alle piccole tessiture ) ma è sempre stato cosi? Nel senso: allarghiamo la visuale: 30 anni fa, forse 40, ricordo che delle opinioni ai poeti venivano chieste proprio alla tv, e non solo sull’arte ( Venivano invitati anche i filosofi se è per questo). Oggi, se si intervistano degli artisti sono i cantanti pop, tipo Vasco Rossi, che grida felice: “viva la musica, viva l’amore.”
Riguardo alla musica ( di sottofondo, come l’hai definita tu ) ecco, è un tema interessante. Ma prima di tutto: non ti sembra che alla fine questa aggiunta sia un segno di deficit della parola poetica? Sentire la necessità di avvicinare il pubblico con l’ausilio di un sottofondo musicale non ti pare il segno che la parola ti è sembrata in quel contesto debole, non bastante, che fosse il caso di mostrarla diversamente? eppure se erano poesie quindi, diciamo, viventi, bastanti a se stesse, autonome, perché la musica? Chiedo. Sono solo temi di riflessione. Tutto qui.
Caro Max, l’idea della fine della poesia non è affatto una moda, e le tue idee sono in effetti in linea con questa prospettiva. Per il resto, il pubblico va e viene. Il mercato riesce talvolta a crearlo. Ci sono persino poeti che vendono. La poesia non ha bisogno di pubblico, ma di un destinatario. Di qualcuno con cui condividere un destino.
Quanto alla musica sotto, sopra, accanto, prima o dopo la poesia, a me piace sperimentare e ho voluto farlo con un amico. Il pubblico non c’entrava, appunto. Anche col rischio che l’esperimento non funzionasse.
Tuttavia, dietro alla nettezza e presunta sicurezza delle mie risposte, non ho fede certa in niente, tantomeno sulle sorti della poesia. Sì, sento le fondamenta tremare. Ma, in fondo, lo sento da sempre, su tutto.
Delle tre virtù teologali, in fondo, la fede è quella che conta meno. Sulla speranza, resisto. Sull’amore, sì, ci provo, tra continui fallimenti. Ma in poesia amo. Ed è un inizio, non una fine.