Italia '57 (una fotografia)

L’officina del secolo

Figlio di un operaio, la scoperta che i libri potessero esistere fuori dalla scuola fu per me uno choc. Ma ci volle tempo per amarli. Forse alle medie, in seminario, certi salteri, con quei ritmi, quelle immagini… Ma il confronto era sempre con mio padre, che già giovinetto, con quella faccia a cui somigliavo così tanto, cominciava a lavorare in un bugigattolo che con gli anni sarebbe diventato un grande stabilimento – uno dei tanti, cresciuti direttamente in mezzo alle vecchie case. Il paese si arricchì con l’industria del rubinetto, ma in origine era un pugno di case abitate da scalpellini – ricordo ancora l’ultimo picasass, quando in certi vagabondaggi in paese passavo vicino a casa sua, diretto magari al cimitero, dietro al quale cominciava il sentiero detto appunto “degli scalpellini”, tra i boschi, fino alla visione del lago e, alla fine, il santuario di Madonna del Sasso.

C’è una foto che ritrae proprio mio padre, a far da garzone dietro ai fratelli che avviarono questa attività che prometteva bene, rubando, a quanto pare, l’arte dalla vicina Valsesia. L’ho per molto tempo tenuta sul desktop del mio pc e campeggia ancora come sfondo su Facebook, dove il mio volto e quello di mio padre si accostano. Mi pare, idealmente, la parte in ombra della mia stessa officina letteraria. E, su questa foto fortunosamente recuperata, ho scritto una poesia:

ITALIA ’57 (UNA FOTOGRAFIA)

Un piccolo locale (l’officina
del secolo!) sottratto
all’uso agricolo, in mezzo a ginestre
sterpaglie brugo ed erica
’57. Anni Ruggenti, recita
la legenda con tono da leggenda.
È quasi una cucina:
tra piccole finestre
due banchi apparecchiati per merenda,
un ragazzino sorpreso nell’atto
di ridere all’obiettivo in un gioco
nuovo, venuto anch’esso dall’America

Invece alle pareti sono appesi
oggetti un poco strani,
pinze punzoni pettini e palette,
l’attrezzo per la sabbia
nelle staffe – poi oliatori, conchiglie
con spine riduttrici, poi compassi
per le anime e altri arnesi
sparsi. Chi non si mette
a soffiare grafite mangia i sassi.
Se hai polmoni da uomo e buone mani,
ottone o migliarolo: non c’è scelta.
È buona per il forno anche la rabbia

Padri e figli così stanno fissati
con frastuono a una brida,
attorno al tornio girano le vite
o in fonderia: qui colano
dentro a una tazza fino a quando è sera,
nella brughiera… (E adesso, innanzi a questi
uomini incorniciati,
con le mani pulite
come ti senti tu, cosa diresti
di vero per accogliere la sfida
del giovane che sbircia anche se timido

(da L’amore e tutto il resto, Interlinea, 2023, pp. 29-30)

Vale forse la pena far notare che la poesia riportata è una canzone. Sono tempi, questi, in cui la gente crede che basti buttare sulla pagina qualche ghirigoro esistenziale o qualche bella immagine o qualche fumosa sentenza, per scrivere una poesia. Ma l’arte necessita anche – attenti alla doppia eresia – di contenuti e di strutture. E la poesia non si scrive: si compone. E scrivere non è sfogarsi. Ricomporsi, semmai, dopo che la vita (la storia) ti ha fracassato con le sue onde. Nella foto, le prime due strofe. La prima detta la regola, in modo semispontaneo. Trovata la misura, la si segue. Pura obbedienza, mentre le ossa tornano a posto, il dolore è taciuto e viene imprigionato nella visione: fuori di te, finalmente, e trasformato in dono.

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