Narrativa contemporanea: Ezio Sinigaglia
La nuova edizione del romanzo Il pantarèi (2019), nella collana Fondanti diretta da Giovanni Turi per Terrarossa edizioni (la prima edizione risaliva al 1985), e la regolare uscita di vari inediti, per lo più per le stesse edizioni Terrarossa (ma Eclissi è uscito nel 2016 per Nutrimenti e L’amore al fiume nel 2023 per Wojtek), ci sta consegnando la figura di uno scrittore di prim’ordine. Per valutarne appieno la statura, ovviamente, occorrerà attendere la completa manifestazione della sua opera, che ha attraversato trent’anni di silenzio ma che già adesso appare multiforme e di eccellente fattura letteraria.
La varietà di soluzioni e di stili è subito evidente: si va dal romanzo/saggio ampio e sperimentale al romanzo breve, dalla raccolta di racconti alle prose memorialistiche. Lo stile può essere disomogeneo all’interno della stessa opera oppure puntare a una raffinata medietà o ancora alla fortissima caratterizzazione di maniera.
Già da questa considerazione si attiva un’ipotesi di scrittura postmoderna: il tema si impone poi con Il pantarèi, dove le vicende del protagonista, in sé banali, si intrecciano con la stesura di un saggio divulgativo sulla narrativa del Novecento. Proust, Joyce, Musil, Svevo e Kafka sono i principali protagonisti di una stagione creativa irripetibile e su ciascuno di essi, Daniele Stern, l’anti-eroe protagonista della storia, si sofferma con le proprie riflessioni. Per diverse vie, tutti questi giganti hanno stravolto l’impianto del romanzo tradizionale; non solo, hanno già compiuto la pars construens della loro stessa visione letteraria, consegnando, a quanto pare, tutti gli scrittori a venire a una condizione di meri epigoni e di imitatori. Il romanzo è morto, la tradizione non scorre più. E tuttavia Stern aggiunge altri autori che in qualche modo sembrano aprire nuovi sbocchi, sebbene paradossali: Céline, Faulkner, Robbe-Grillet (e si contestualizzi l’accento posto su queste esperienze al tempo della effettiva elaborazione del romanzo, ovvero alla fine degli anni Settanta). A dire la verità, ne aggiunge anche un altro: sé stesso. Nella parte conclusiva di Pantaréi, forse eccessivamente frammentaria e con concessioni a divertissement di varia natura che slabbrano l’opera, il grafomane Stern, di fronte all’apparente fallimento della propria vita, ritrova comunque la scintilla per tornare alla scrittura. Come se fosse giunto al momento del parto, l’opera stilisticamente si lacera e compaiono i capitoli dell’opera di Stern, ovviamente incompiuta. Dunque, il vero protagonista del libro è il romanzo stesso e, alla fine, il paradosso del titolo si compie: tutto scorre, restando immobile.
L’impianto dell’opera (sulla cui vicenda editoriale si legga adesso la stessa prefazione dell’autore) è gestito quindi con sapiente ironia, ma Il pantarèi è una lettura gratificante soprattutto per i repentini trapassi stilistici, con cui lo scrittore imita gli autori di riferimento, entra nel cimento, prova a mettere in atto le sue stesse intuizioni di poetica. Libro proteiforme, che per certi aspetti (a partire dalla ricerca espressiva incessante, sempre a rischio di risultare eccessiva) dimostra tutti gli anni che ha, ma che per altri appare felicemente attuale (dunque l’autore ha ragione: la letteratura non ha più trovato nuovi sbocchi?), Il pantarèi configura un altro possibile punto di avvio, in Italia, del postmoderno: se Il nome della rosa di Umberto Eco è l’efficace bandierina appuntata sulla data del 1980 nell’analisi storiografica della narrativa italiana, altri autori, come Sinigaglia, ne aprivano una sorgente rimasta sotterranea. Eco rappresenta il versante di maggior successo, il lato felice del postmoderno, secondo il quale lo scrittore, lieto di pescare liberamente nella tradizione, può rivestire i propri congegni narrativi con un velo di apprezzata ed evidente letterarietà. Non c’è alcuna ansia di progresso e di ricerca: il romanzo è morto, evviva il romanzo! Vale tutto, anche tornare alle narrazioni di impianto più tradizionale, ottocentesco. Sinigaglia, invece, rappresenta lo scrittore che vive dall’interno il dramma di dover superare la tradizione modernista, spinto però da motivazioni letterarie ed esistenziali ben più radicate. (Un’ipotesi di lavoro critico potrebbe essere l’accostamento della vicenda di Sinigaglia con quella di Michele Mari, per verificare se quest’ultimo rappresenti l’emersione in superficie di questa linea più profonda oppure si approssimi maggiormente alla posizione intellettuale di Eco).
Quale sarebbe il rovello in cui si radica la ricerca di Sinigaglia è presto detto. Il tema dell’amore omosessuale, che scalza o si aggiunge all’amore eterosessuale, è ben evidente. Ma in sé l’argomento potrà turbare semmai qualche lettore (forse, ecco un altro motivo a favore dell’attualità della riproposta del titolo d’esordio, più quello di allora che l’attuale), non certo il suo autore, che lo elabora sempre con grazia. Il fatto stesso che l’eros sia tanto esibito, ma nello stesso tempo disinnescato dalla volontà di scandalo, lo pone a livello di epifenomeno, sebbene sintomatico. L’epicentro traumatico sarà piuttosto la scissione della coscienza e il senso di incompletezza dell’individuo. Proceda da sé il lettore, a questo punto, a ripercorrere le opere di Sinigaglia alla ricerca di queste figure della scissione vera e propria (come nello strano caso del ragionier Pierangelo Sperindio) o dell’identità dimidiata, come nel rapporto fra Mastro Landone e Nerino, per scoprire i punti nevralgici attorno ai quali ruota l’ispirazione dell’autore (ma, a questo punto, anche il titolo del romanzo Fifty-fifty, apparso peraltro in due volumi, è emblematico). Va detto altresì che il tema della scissione o dell’incompletezza non è attivo solo a livello tematico (si pensi anche al motivo del divorzio) o, come accennato or ora, figurale, ma anche a livello strutturale (volendo, persino a livello letterario, nel binomio scrittura/pubblicazione). La scissione è infatti pure stilistica (e qui basti quanto detto in merito al Pantarèi) e linguistica: non è un caso che la comicità dei racconti dell’Amore al fiume si giochi soprattutto sul contrasto tra l’italiano (che implica anche una mente raffinata) e i vari dialetti di volta in volta messi in scena da un personaggio della brigata (laddove il dialetto è anche spia di uno sguardo ingenuo e popolare, se non addirittura idiota). In Eclissi si tenta invece la fusione tra italiano e inglese, con analoghi effetti umoristici. La bisessualità è dunque scissione esistenziale e ferita creativa, che muove alla ricerca di una (impossibile?) ricomposizione.
Se della serie di racconti L’amore al fiume si è detto, pur rapidamente (il libro è pregevole, ma alla fine si risolve in una comicità quasi di genere), val la pena soffermarsi su Sillabario all’incontrario e L’imitazion del vero. Il primo è un’ideale introduzione al mondo creativo dell’autore, poiché in queste pagine egli enuclea i temi che gli sono cari, mescolando autobiografia e riflessione, in una lingua perfettamente calibrata per eleganza ma ben lontana dalla furia sperimentale dell’esordio. Anche qui, il flusso dei pensieri è tale da originare periodi lunghissimi, di più pagine, ma si tratta in realtà più di un lavoro prosodico che sintattico, dal momento che lo sviluppo della narrazione si appoggia prevalentemente sull’uso dei due punti. La musica della prosa resta avvolgente, ampia nella sua ricca orchestrazione (qualche capitolo esorbita comunque, con scelte espressive specifiche, come nel caso di lunghissimi dialoghi senza commento), ma al lettore l’attraversamento del testo risulterà semplice, per l’equilibrio di tutti gli strumenti dominati qui con naturalezza. Sinigaglia, lo si sarà ben capito, è scrittore più di stile che di trama (assecondiamo uno schematismo alquanto sommario, ma utile almeno in prima battuta) e egli stesso, nel Sillabario, si raffigura come un ragno che continua a tessere la sua tela di parole; un ragno, tuttavia, più prigioniero che predatore. Non c’è dunque, pur nella sperimentazione linguistica ed espressiva, un gusto eccessivamente barocco, gaddiano, aristocratico della letteratura. Semmai, l’arte è gioco di seduzione, sublime tentazione.
In tale prospettiva, il racconto lungo L’imitazion del vero è un gioiello, mirabile per sintesi di stile e pregnanza simbolica. Si noti subito il gioco umoristico del titolo: il naturalismo è impossibile, per cui non ci resta che l’imitazione, anzi, l’imitazion: l’accettazione dell’artificio. Come Mastro Landone, protagonista della novella, è un formidabile creatore di macchine di legno capaci di ogni prodigio, così Sinigaglia, attraverso uno stile artefatto, raggiunge una naturalezza di secondo grado. La macchina creata da Landone per superare il dissidio interiore e congiungersi con Nerino (restando tuttavia separati!), gabbando i precetti morali che obbligano a un’esistenza dimidiata, è il corrispettivo del racconto medesimo. Così il lettore finisce intrappolato nel piacere della lettura. Dietro alla sintassi latineggiante e alla patina arcaica che ha fatto parlare (giustamente) dell’Imitazion del vero come di una sapida novella boccaccesca (di cui si dovrebbero anche analizzare le strutture compositive, i richiami interni, gli intrecci simbolici e musicali), il divertissement è meno innocente di quel che sembra. C’è qualcosa di perturbante che accompagna la vicenda e si muove dietro lo smalto incantevole della prosa. Lungi dal fermarsi a questo primo livello di inganno, il gioco di specchi si rovescia e si moltiplica. La “macchina”, a un certo punto, prende il sopravvento: Nerino si innamora della sua bottina, così come uno scrittore può compiacersi nella propria maniera. Ma Nerino (e, si confida, il lettore) non è ingenuo ed è realmente parte dell’amoroso intreccio, per cui a un certo punto è Mastro Landone a essere gabbato, raggirato dalla maggior consapevolezza altrui. Ma, proprio quando gli avvitamenti della coscienza sembrano generare un gorgo di perdizione, la sorte volge in questo caso al meglio, e il lieto fine (restiamo nel vago, a vantaggio di eventuali nuovi lettori) trova una soluzione tanto semplice quanto mirabile e, a questo punto, poeticamente carica di senso. Ci fermiamo su questa immagine, senza cedere a facili chiavi di lettura psicanalitica, per chiederci se, attraverso l’arte, l’autore non abbia davvero individuato la soluzione del trauma, il punto in cui l’esistenza trova il modo di completarsi, di restituirsi integra al flusso dell’esistenza, rappacificata, finalmente, con la propria coscienza.
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