La poesia e il senso comunitario
Ho preso possesso della mia vita a undici anni appena compiuti, quando mio padre, in uno dei rari momenti in cui pensò di “farmi un discorso serio”, mi chiese ufficialmente di rinunciare all’ipotesi di andare in seminario. La casa si era improvvisamente fatta enorme e vuota. Proprio mentre ci apprestavamo a trasferirci nell’appartamento quasi arredato (il piano nuovo della casa), senza dover più convivere con i nonni, divisi a loro volta tra una camera al piano terra e un cucinino nel seminterrato, mia madre era morta. Ne ascoltai io i gemiti nel bagno chiuso a chiave, in quel febbraio; mandai io i cugini a chiamare mio padre (non avevamo ancora un telefono in casa); aiutai io mio padre a sfondare il vetro della porta del bagno; tenni io compagnia alla sorellina, finché non vennero a prenderci per portarci all’ospedale…
Avevo maturato proprio con mia madre la decisione di entrare in seminario. Con lei e con il parroco. Ai loro occhi ero il tipico bravo bambino, ma in verità non sapevano nulla delle mie avventure, nei boschi e nelle brughiere, insieme al compagno più selvatico della classe. Quando il prete mi spiegò che avrei potuto giocare ogni giorno a calcio su un campo vero, accettai la proposta. Avevo una vocazione, per il calcio. Ma nessuno, in famiglia, pareva in grado di assecondare il mio desiderio e di sobbarcarsi un tale impegno (come sono cambiati, i tempi…).
Così, a undici anni, davanti a mio padre e a quello che era in effetti un dolcissimo ricatto morale, dissi comunque di no. “Andrò in seminario”.
Fu una scelta d’istinto. Forse volevo solo fuggire da un luogo di dolore.
Cominciò allora la mia vita comunitaria, per me che ero fondamentalmente un solitario, e per di più un bambino sensibile, ingenuo come un provincialotto, fragile. Ero soldato semplice, nelle lotte camerata contro camerata, quando “il don” si allontanava e, guidati dai “terzini” più spregiudicati, piombavamo sui letti dei nostri avversari, armati di asciugamani bagnati.
Il seminario era in città, a Novara. Tra le risaie. Per me, era come andare su Marte.
Tornavo il sabato pomeriggio, per rientrare la domenica prima di cena. E una volta al mese si restava anche il fine settimana. Avrò ricevuto un paio di telefonate in tre anni, da casa.
La mia solitudine era incapsulata nel “popolo” di noi ragazzini. I più piccoli, come me, erano ancora bambini. Quelli di terza ci parevano invece già uomini fatti. Me ne rendevo bene conto quando, uno di fianco all’altro davanti ai rispettivi lavandini, confrontavo le mie gambette glabre con quelle dei più grandi, muscolose e ricoperte di peli.
Cominciai allora a scrivere i miei primi versi. Strano, avevo avuto, alle elementari, una maestra giovane, brava e avvenente: pittrice, oltretutto. Avrei venduto l’anima al diavolo per dimostrare talento nel disegno. Invece, era l’unico ambito a scuola in cui il mio compagno selvatico si dimostrava più bravo di me. In seminario, però, certe lezioni, e soprattutto la ripetizione giornaliera del salterio, mi spingevano alla ricerca di una personale musica di pensieri per mettere ordine al mondo che, dentro e fuori di me, cambiava così furiosamente. Furono gli anni della Grande Nevicata dell’Ottantacinque (raccontata bene in poesia dall’amico Federico Italiano), di Chernobyl, della scoperta dell’Aids. Alcuni miei compagni furono beccati chiusi in bagno assieme, ed espulsi. Ma io sapevo anche di altri. E io stesso dominavo a fatica pulsioni che non conoscevo, attratto soprattutto da alcune figure femminili che vedevo solo la domenica sera, quando tutti rientravamo, e le famiglie si incrociavano mentre ciascuna preparava il letto per il suo piccolo seminarista. Poi, dopo cena, con la scusa di vedere i gol della giornata di calcio in coda al Tiggì, forse si sarebbe potuto sbirciare un po’ di “Drive In”, qualora “il don” si fosse allontanato per qualche sua faccenda…
Se ho sempre vissuto la poesia con un senso di condivisione generazionale, se ho finora interpretato con spirito combattivo la mia passione letteraria, forse è perché sono diventato uomo attraverso quelle esperienze comunitarie. Chissà.
Solo molti anni dopo, comunque, certi ricordi riemersero improvvisamente. Ho provato a raccontare quel mio “inseminarmi”, quel viaggio tra le risaie per entrare in seminario e “prendere il seme”, cioè entrare nella pubertà, con questi versi:
LA PICCOLA GUERRA
( Chiamate )
«Ma la casa, diventerà più grande…»
Patria da cui m’esilio,
papà piccino che non conoscevo,
dentro le dure foglie
un cuore carciofino…
Io vado tra risaie a inseminarmi,
a far la guerra con gli altri bambini
( Compagni )
Con un armadio di metallo verde
quattro ripiani per scarpe e vestiti,
la sedia accanto al letto.
Poi una fila di specchi e lavandini,
lavarsi denti e ascelle, cinque cessi
per pisciare in compagnia. Beto
e Bizio in sincronia perfetta.
I soldatini di Gesù e Maria!
( Ombre )
Faceva il palo, di notte, durante
le scorribande.
Teneva gli occhi aperti
per misurare le ombre,
impiccato per gioco
tra gli specchi e la camerata.
Strani singhiozzi salivano a volte
dai lavandini. Un tranello da preti,
pensava, per costringerlo a pregare,
prima di addormentarsi
( Bersagli )
Forse Porazzi non riusciva
a stoppare un pallone,
ma faceva roteare un turibolo
come una fionda
( Rientri )
La domenica sera
un valzer di lenzuola
sugli altri letti.
E la sorella del vicino.
( Reti )
Nell’erba alta
dopo il tuffo nella polvere, a vuoto,
si perdeva il pallone.
Mancavano le reti nelle porte.
Ma il gioco finiva soltanto
quando un tiro incredibile
superava anche il muro.
Allora si restava tutti lì,
appesi al cielo fino a sera,
presi da una tristezza grande.
La migliore preghiera.
( Furti )
Chissà se in refettorio
nella casella trentasei qualcuno
nasconde ancora sotto il tovagliolo
ostie per la merenda.
(da L’amore e tutto il resto, Interlinea, 2023)
insegnare ai bambini, sin dalla più tenera età, “la morte di dio” , sarebbe l’unico vero atto d’amore dovuto nei loro confronti; di loro e ancora di più di quelli a venire. Se verranno.
Bella la poesia Reti.
Splendida immagine finale.