Autoesegesi e profezia
Tra genio e follia, tra divertissement e tortura, tra filologia e supercazzola, il saggio che ha appena scritto Mikel Marini Doughty è tra le cose più intelligenti e spassose e avventate che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. Incidentalmente, riguarda la mia poesia, e se alla mia poesia non siete interessati o addirittura vi infastidisce, leggetelo, tanto vi porterà comunque in un’altra dimensione. E se invece a ciò che vo scrivendo siete anche parzialmente interessati, o vi garba mettere in relazione l’autore che si presume presuntuoso, quindi in grado di conoscersi e spiegarsi, e qualcun altro che lo ha letto, tentando di radiografarlo fin sotto le mutande (non è una battuta, considerato il ripescaggio del personaggio di Amfortas), potete proseguire la lettura di queste mie riflessioni.
Restate però sintonizzati anche sul nome di Mikel Marini: mi giunge voce del suo imminente esordio come poeta e personalmente sono convinto che i suoi versi pioveranno da queste parte come da una dimensione aliena, apparentemente schizoidi, drammaticamente acuti, allegramente eruditi.
Conoscendo la sana goliardia di Mikel, di cui ci sono dimostrazioni sparse sui social, mi sono predisposto ad affrontare, appena scorto il titolo, se non uno scherzo bello e buono, una voyeuristica passeggiata tra le mie carte. L’inizio del saggio muove in questa direzione, poi cominciano le citazioni anche di altri interpreti e allora nasce il sospetto che l’autore faccia sul serio. Il contrappunto con la vicenda di Collodi/Pinocchio pare un gioco narratologico secondo il classico schema delle due vicende parallele, necessario anche solo per indurre a mangiare i cavoli a merenda. E invece.
Chiariamolo subito, non so quanta importanza si debba attribuire alle avventure di Pinocchio rispetto alla mia formazione, ma certamente ho attraversato il capolavoro collodiano in lungo e in largo, anche in relazione alle attività scolastiche, ma non solo. Importante fu pure la rilettura del libro sulla scorta di una guida d’eccellenza: Manganelli.
Per quanto riguarda poi la mia vicenda editoriale, so che è piuttosto confusa. Quanti libri di poesia ho scritto? Non saprei contarli nemmeno io. La plaquette nera intitolata Il cielo di Marte (1999) non ha nulla a che vedere con quella bianca che porta lo stesso titolo (2005). Il libro più recente, che pare un’antologia, non soltanto per un terzo è composta da inediti, ma ricombina gli altri e li trasforma in installazioni, ognuna nella sua stanza a tema: il nuovo contesto, la cornice, forza l’interpretazione delle singole poesie affinché esse, mute, parlino. Tralascio di chiamare in causa altre plaquette, le pubblicazioni sul web o su riviste cartacee, anche sostanziose, che ho lasciato cadere nell’oblio. E figurarsi se mi va di enumerare gli inediti e le intere sillogi “ripudiate”, come suggerito nelle note al volume Terramadre. Quindi, quali tappe hanno segnato finora il mio percorso? A contare quelle fondamentali sarebbero… due e mezzo, ma che in sostanza raccontano una sola parte (per quello che riesco a capire ora di me stesso) della ricerca umana e letteraria a cui mi sto dedicando. In ogni caso, non saprei rendere linearmente il percorso compiuto. Mi sono mosso, finora, in un labirinto, ho costruito dall’interno la mappa della prigione ignota da cui spero di essere finalmente evaso.
Ma forse la linearità a cui si obbligano i libri è sempre fasulla, come la cronologia delle opere di un autore. Del resto ho il sospetto, nel mio caso, di aver concepito già a vent’anni opere che, forse, riuscirò a scrivere solo adesso. Da che cosa dipenderebbe un tale gap temporale? Da due ragioni essenziali, ipotizzo: a certi appuntamenti importanti occorre arrivare preparati; c’era, sulla via, un ostacolo da rimuovere.
L’ostacolo da rimuovere era la materia biografica, che non avrei voluto trattare e dalla quale ho faticato, nella logica che ha ben individuato Mikel Marini, a smarcarmi. Non sempre si è liberi di scrivere ciò che si desidera e non sempre si è pronti al compito. Confermo: Andrea Temporelli doveva far fuori Marco Merlin. Il Meridiano del nome (titolo che mi prefiguravo per una raccolta complessiva per questa impresa) era il sogno di un percorso lineare impossibile. Forse potrei restituire solo adesso, con le forzature necessarie, una narrazione con un principio e una fine; forse, ora potrei tracciare davvero quel meridiano. Mi resta da capire come documentare almeno altre due tappe, due micro raccolte autonome, troppo esigue, probabilmente, per formare un libro. Si tratta di due “satelliti” rispetto al corpus tratteggiato con L’amore e tutto il resto: dieci egloghe e dieci sonetti. Le prime dovevano uscire con altri versi di Davide Brullo perché così erano nate: a partire da un mio primo componimento, si era acceso fra noi un dialogo imprevisto e spontaneo. Ma Brullo ha già licenziato la sua parte di testi nell’ultima raccolta, Lince, uscita per Crocetti, per cui le egloghe restano per ora sommerse.
Rispetto ai senhal e alle varie decostruzioni/ricostruzioni di nomi, il saggio di Marini ha colto nel segno. Ha capito quasi tutto. E confermo, nella Repubblica dei poeti anche altri autori sono nominati, così come non è stato decrittato il nome della “donna di mezzo”, nella seconda poesia del Trittico per figure femminili. Ma poco importa: è lì come gli altri, sigillato nel testo, e viene pronunciato anche da chi non sa di farlo, quando la poesia diventa voce sulle labbra di qualcuno.
Precisato tutto ciò, senza tirarla troppo in lungo, arriviamo ai due temi bollenti scoperchiati da questo saggio: l’autoesegesi e la profezia.
La battuta secondo cui non è opportuno che il poeta spieghi le proprie poesie oggi, in epoca postromantica, è moneta corrente. E ha le sue ragioni. Però ricordo che Dante non si vergognava affatto di spiegare i suoi versi; anzi, suggeriva che chi non era in grado di farlo, poteva essere un potenziale bluffatore. Il sospetto monta svariate volte ancora adesso, di fronte a tanta poesia contemporanea: che si tratti solo di un trucco, di un gioco di prestigio, di un compiacimento verbale e intellettualistico?
Ho già più volte ribadito la convinzione che il testo letterario vada inteso come entità autosufficiente. Posto che abbia un qualche valore, tale valore deve essergli intrinseco. Non può, l’opera, venire giustificata dal Nome del suo autore, né dalla Sigla editoriale che lo propone e neppure dalla Poetica da cui ha preso le mosse. Si prenda l’oggetto poetico come lo si preferisce, maneggiandolo in tutti i suoi complessi risvolti: alla fine, però, in virtù delle proprie specifiche peculiarità formali e in relazione al contesto, deve produrre senso, deve avere una ricaduta conoscitiva. Il che non significa veicolare un messaggio: il detto e l’accaduto appartengono al regno della morte, mentre la poesia dice ciò che è, ossia ciò che avviene nel testo in atto. Le intenzioni di un artista saranno state trascese durante il processo creativo. Gli esiti della creazione sfuggono alle previsioni e sorgono talvolta persino per equivoco (per questo, credo, gli artisti non si espongono: amano l’idea che la loro possa essere un’opera aperta, disponibile a ogni interpretazione). Ciò che un testo dice, insomma, alla fine lo dice anche malgrado il suo autore: l’opera si curva per la pressione dell’epoca o per la forza dei congegni entro cui la comunicazione stessa si attua, specie, come nell’arte, quando chiama in causa un’intera tradizione, quando convoca, nella parola pronunciata, gli spiriti, anche ignoti, che l’hanno abitata.
Sono fondamentalmente d’accordo con questa visione. Il poeta maneggia, più o meno con fanciullesca consapevolezza, una materia sempre più potente di lui. Il poeta parla o è parlato dalla sua arte?
Tuttavia, per quel che riguarda la mia esperienza (liberi gli altri, ovviamente, di agire in altro modo) l’arte non nasce mai per capriccio o per mero atto di volontà. Perché il processo creativo si attivi occorre una spinta. All’origine c’è un’occasione scatenante e l’artista si offre al laborioso processo creativo per necessità. Non è detto che l’occasione consista in un evento biografico, anche se noi tendiamo a immaginarci così l’innesco della scrittura. Potrebbe trattarsi invece di un’intuizione o di un’immagine interiore che prende forma, magari lentamente, magari per anni o decenni, e a un certo punto preme per “rivelarsi”.
Dunque, quando mi sono concesso il racconto della razó di qualche mia poesia, avrei svilito il testo, ne ho “diminuito la portata”, come sostiene Marini? Può darsi; stando agli assunti moderni e alle raccomandazioni più condivise, indubbiamente. Ne sarei un po’ meno convinto, invece, se ci appellassimo a una prestigiosa e più antica consuetudine. Ma non saprei prendere una posizione definitiva. Raccontare il movimento e la spinta iniziale, ovvero descrivere l’innesco e in taluni casi il processo creativo è la testimonianza, a posteriori, del primo lettore di un’opera, ovvero dell’autore medesimo, che si stupisce e prende atto di qualcosa che è accaduto e su cui ha perso il controllo. Ma questa prima lettura è a sua volta l’avvio di un processo ermeneutico potenzialmente infinito – se l’opera supera la verifica della storia e viene riconosciuta come portatrice di qualche valore. La razó, per come la vedo io, è il racconto di uno smarrimento, la testimonianza di un naufragio in corso. Come più volte spiegato, nemmeno dopo aver scritto io riesco a esplorare l’orizzonte che la poesia mi ha posto innanzi, ma guardare indietro e ripensare al viaggio compiuto mi incoraggia all’avventura.
Però non posso nemmeno negare che avrei taciuto volentieri queste apparenti “spiegazioni”, rispettando i precetti contemporanei, e che sono stato sabianamente indotto a dare testimonianza di me stesso anche per debolezza. Ma il critico stia tranquillo: tale strategia di sopravvivenza in un frangente particolare è stata già rinnegata. Si estenderà solo a un componimento inedito, perché nato in una circostanza speciale. Anticipo anzi, così da rassicurare il lettore moderno, un’informazione su una futura raccolta: la sezione finale si intitolerà giustappunto Istruzioni incluse.
Con questo, possiamo arrivare alle conclusioni, coraggiose, del saggio di Marini. Dopo essersi esibito con maestria nel recupero di indizi e messaggi in codice, il critico cerca di interpretare la profezia implicita nell’opera. Siamo nella parte più arrischiata della lettura di Marini e, detto tra noi, ammiro questa avventatezza. C’è chi si limita (ed è già tanto) a un’accurata descrizione del testo, chi esplicita anche un giudizio sul medesimo e quindi lo soppesa, e chi addirittura lo scaglia come un sasso, cerca cioè di testare il congegno per misurarne la gittata e valutarne l’impatto, persino sull’autore. Fantastico. Ai tempi, scrissi anch’io un Oroscopo per Magrelli…
Secondo il mio acuto lettore, la parte critica nella mia opera, identificata con il nome anagrafico, è infine destinata a prevalere. Ecco la profezia: il ritorno alle origini. Non vorrei, a questo punto, rivendicare la mia scelta con la stessa volontà di autodeterminazione di un Edipo: mi guardo bene dalla tracotanza di chi smentisce un oracolo. Colui che mi ha fatto le carte, però, si è affidato, e con perizia eccelsa, a ciò che è stato dato finora alla luce; quindi al momento confermerei, sulla base di altre prove, che il meridiano del nome è stato percorso e che, alla fine, il duello interiore ha visto la vittoria del poeta sul critico, e non viceversa. La materia autobiografica è stata esaurita: è cenere buona per rendere fertile la terra “marcia” circoscritta, perimetrata, attraversata lungo le coordinate così ben tracciate nel saggio in questione.
La vita del poeta non conta, alla fine. Il corpo vero è il testo. La carne è ombra e la parola ambisce a farsi carne.
Ma, forse, Marini non ha tutti i torti. Forse ha annunciato, in termini impropri, esattamente questo: la fine della lotta, lo scioglimento di una tensione. Potrebbe, in tal senso, aver colto nel segno. E me lo auguro.
Alla fine della storia, il pezzo di legno accanto all’autore è stato identificato nel burattino. Io avevo pensato alla bara di Queequeg che, vuota, diventa scialuppa per altri. Ma la differenza è minima. Spaventa, anzi, la somiglianza.
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