Il successo dei mediocri: il caso Quasimodo

È opinione ormai condivisa che il premio Nobel assegnato a Salvatore Quasimodo nel 1959 fu piuttosto generoso. Il giudizio si è confermato nel tempo, ben oltre la reazione sorpresa e irritata dei protagonisti dell’epoca. Semmai, c’è ancora spazio per la discussione intorno alla “conversione civile” del poeta, su quanto fosse sincera e connaturata alla sua indole o quanto fosse, invece, studiata.

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Esorcismo per il Premio Strega Poesia

Il dibattito intorno al Premio Strega è un tormentone. Perché lo Strega è lo Strega e, come Sanremo, si alimenta e fagocita anche gli oppositori. Chi vince regna.

Come tutti i tormentoni, ti sorprendi a canticchiarlo per noia, anche se ti annoia.

Ora, con queste righe provo a compiere un esorcismo: ci torno su anch’io, per vedere se mi riesce di farlo per un’ultima volta.

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La voce del testo

Questo è il testo del mio intervento al convegno su Poesia e Canzone avvenuto nell’ambito dell’evento BorgoPoesia 2023, già ospitato sulla rivista “Atelier.”

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Sonia Serazzi, aria pulita e niente languore

Chiedo istruzioni ogni notte, dialogo epistolare con Antonio Cavallaro sul tema della fede, edito nel 2022, getta sulla narrativa di Sonia Serazzi una luce sia dirimente sia equivocabile.

All’indietro, sui racconti e romanzi precedenti, quel libro aiuta a comprendere la presenza di un particolare sguardo sulla vita, che era finora uno degli ingredienti segreti delle pagine di questa scrittrice così appartata. Il fortunato esordio di Non c’è niente a Simbari Crichi (2004), seguito e confermato da  … e le ortiche c’hanno ragione (2006), poteva inserire Serazzi, in modo sommario, in una tradizione di letterati pronti a raccontarci un Sud sospeso tra mito e denuncia di perenne arretratezza, con una narrazione che felicemente pesca nei dati antropologici e nel folclore i ritratti forti e popolari dei propri personaggi. Il terzo libro, Il cielo comincia dal basso, dopo un lungo silenzio (risale al 2018), sembrava forse stemperare i tratti più marcati della sua prosa, che non ha mai inseguito trame artefatte ma il dispiegarsi di esistenze (e che bello sentire che non ha senso chiedersi quanto reali e quanto immaginarie), magari nelle pieghe più minute della quotidianità, ma senza cedere al bozzetto, seguendo un ritmo variato e una propria musica in grado di trascinare il lettore dalla prima all’ultima pagina. E, in quella impressione iniziale, le citazioni bibliche che puntellavano la vicenda potevano sembrare un vezzo o poco più. Insomma, Serazzi fino a questo punto poteva anche essere fraintesa e accolta nella schiera di scrittori pur veraci e piacevoli di un mondo, il Sud appunto, in fondo già noto e utile per raggirare le complicazioni di ambienti, situazioni e linguaggi della nostra impaludata modernità, tra lavori improbabili e vite virtuali, tra disturbi esistenziali piccoloborghesi e velleità epocali. Ma il lettore più attento se ne era già accorto e, adesso, dispone di nuovi argomenti: nella narrativa di Serazzi c’è ben di più. Le sue storie non nascono da uno sguardo distaccato, intellettualistico, curioso. Non sono la facile materia per esibire un’arte, esercitare uno stile. La leggerezza mai frivola, l’ironia mai saccente della sua penna sono il frutto di uno sguardo intriso di pietà e di compartecipazione, e lo stile qui non è una posa, un abito, un optional rispetto alla natura intrinseca della voce. Ecco perché i personaggi apparentemente strampalati che ci fa conoscere alla fine ci risultano forti e, paradossalmente, compiuti, anche nel loro destino tragico o banale, a seconda dei casi. La povertà del mondo raccontato da Serazzi è luminosa e pulita. Riciclerei a proposito le parole che, in Chiedo istruzioni ogni notte, l’autrice stessa usa in riferimento alla madre morta da poco:

«Ho letto tutte le lettere d’amore che mamma scriveva a papà, poi le sue agende: raccontava del fuoco in inverno, […] di qualche acciacco, del suo sogno di studiare. Niente languore fra le carte di mamma, solo aria pulita, eppure in questi giorni avrebbe festeggiato cinquant’anni di matrimonio».

(p. 20)

Ecco, nelle storie vivaci e a tratti fiabesche di questa scrittrice non c’è languore, ma solo aria pulita. Il Sud si fa mito non per comodità, non per una fuga dal nostro tempo, ma per disciplina, per una naturale potatura che dà vigore.

In avanti, però, Chiedo istruzioni ogni notte potrebbe generare un nuovo equivoco. Il recente Una luce abbondante, in cui peraltro la religione è un filo ricorrente nell’ordito delle vicende (tra suore che hanno abbandonato il velo e padri tesi a una loro stralunata santità), potrebbe a questo punto lasciar presupporre uno sguardo consolatorio, cauterizzato dai veli di qualche altare. Che si pigli, un simile lettore, lo schiaffo che chiude il libro (così sano e amorevole, ma pur forte), per togliersi anche il minimo sospetto di fideismo bigotto; e rilegga, successivamente, questo altro passaggio da una lettera dell’autrice:

«Mi hanno raccontato che un ricco produttore cinematografico, durante una cena, dichiarava di non sopportare le noiose storie dei poveri. Invece a me basta una vita come l’armadio di mia madre: dentro ci sono quattro cosette, eppure mai mi è capitato di pensare che a mamma mancasse qualcosa. Voglio dire che sempre scopro una pienezza inattesa nella devozione infinita a quello che c’è. Mia madre lavava, lisciava e ripiegava ogni indumento con cura estrema, poi appendeva i capi più belli sulle grucce giuste, quindi profumava tutto con sacchettini di alloro e lavanda. Questo poco che profuma è forse tutta la gloria che dobbiamo cercare.»

Chiedo istruzioni ogni notte, p. 80

Dal niente di Simbari Crichi (e, ora, da Sacravento) in questi anni sembrava procedere un’innocua armata Brancaleone. È il momento giusto per rileggere (o per scoprire, per chi non l’avesse ancora fatto) i libri di Sonia Serazzi, perché nel suo Sud non manca nulla, c’è tutto ciò che serve a una penna acuminata come la sua per raccontarci la scabra, inconsolabile bellezza delle nostre fragili vite, così brevi, così profumate.

Una difesa (paradossale) di Maurizio Cucchi

Ho letto l’articolo di Gianfranco Lauretano Contro Maurizio Cucchi, il poeta che ha imposto uno stile e un canone di “cucchisti”, peraltro anticipazione di un ragionamento più ampio. A partire dalla recente antologia curata per Einaudi, Nuovi poeti italiani 7, Lauretano annota che Cucchi è

«il poeta e il critico italiano più influente. Nessuno come l’autore milanese è stato altrettanto capace di imporre un gusto, uno stile, una poetica e, come conseguenza delle proprie raccolte, di collocare autori precisi, continuatori della sua poetica, per formare il canone futuro. Il quale, checché si dica, procede eccome, è già fissato da anni, anche se tutti ne lamentano l’impossibilità».

Il risultato della rimozione guidata dal poeta è indicato oltre: «qui sta il nucleo dell’operazione: per imporre sé stesso come punto di riferimento del nuovo canone, Cucchi ha dovuto cancellare gran parte della tradizione del Novecento. Dove sono i continuatori di Luzi e Caproni, di Bertolucci o Sereni, addirittura di Loi? Anche chi se ne dichiara ammiratore, in realtà ha tagliato i ponti. C’è molta ipocrisia nella poesia italiana, come si vede alla prova dei fatti, cioè dei versi».

Non è mia intenzione entrare qui nel merito della poetica di Cucchi, che verrebbe imposta come centrale nel canone odierno: ognuno, come è lecito, avrà la propria opinione. Per quanto riguarda invece l’influenza del poeta e del critico direi che è un fatto piuttosto assodato: a Lauretano si riconosca comunque il merito, e il coraggio, di aver denunciato a chiare lettere ciò che molti osservano e di cui si lamentano solo in privato, ben attenti a non mettere nero su bianco una sola parola. La concentrazione editoriale in mano a pochi colossi ha consegnato a pochissimi individui il controllo del prestigio residuale che ancora si concede alla poesia.

Rispetto comunque a determinate pratiche che pertengono alla “carriera del poeta” ho poi sempre alzato io stesso la voce. In tempi caratterizzati dalla rassegnazione e dal pigro (e poco lungimirante) opportunismo, la mia simpatia va sempre verso coloro che, anche a costo di pestare qualche piede e magari di essere additati come teppisti, non temono di spendersi in una sana battaglia culturale. Chiedo scusa per l’immagine convenzionale che, di questi tempi, suona anche di cattivo gusto. Ma rende l’idea. (Attenzione: per me la militanza si deve sempre coniugare con il rigore nell’argomentazione e l’aderenza ai dati testuali, ma qui devieremmo verso un tema diverso). Ma se desidero entrare nell’orbita dell’articolo di Lauretano è per spostare l’obiettivo su questioni per me più rilevanti e responsabilizzanti. Nel ragionamento, infatti, mi pare si perdano di vista, per colpire il bersaglio grosso, alcuni obiettivi che dipendono direttamente da noi. Cucchi rischia di diventare non solo un’icona, ma un comodo alibi. Forse si rischia persino di confermarlo. C’è modo di mettersi in gioco con maggiore efficacia? Proviamoci.

Che Cucchi sia “uomo di potere”, dicevamo, è un dato di fatto. La sua autorità è autorevole? Merita questa centralità editoriale? Non è questo il punto.

In virtù del suo potere, dovrebbe dare visibilità non soltanto alla sua “linea poetica” ma a tutte le tendenze in atto? Sarebbe auspicabile, ma Cucchi (lo spiega anche Lauretano) è in realtà un poeta e non un critico. Non è, e non può essere (posto che lui abbia mai desiderato di esserlo) super partes. Dunque, non è nemmeno questo il punto.

Rincaro la dose. Per quanto uno speri nell’altrui ampiezza di vedute, nella capacità di accoglienza di ciò che è diverso (ah, quanto sarebbe qui opportuno il tema della paternità…), mi dispiace dover ammettere che la strategia attribuita a Cucchi è piuttosto comprensibile. Umana, forse troppo umana, ma nemmeno poi così esclusiva. Forse a Cucchi spetta il feudo più grande, ma non è poi tanto difficile riconoscere altri vassalli, valvassori e valvassini nel regno tanto vasto quanto asfittico della poesia. Si abbia il coraggio di ammettere che anche nel “sottobosco”, anche tra rivistine, anche tra premiucoli, anche tra festivalini si riproducono le stesse logiche di potere. Grande o piccolo che sia. Persino sui social vige la legge del “ciascuno riconosca i suoi”. Muovere un’osservazione critica (filologica, testuale), tentare, senza presunzione, di avviare un confronto, espone al pubblico linciaggio. Tanto la credibilità è moneta superinflazionata.

E allora, quale sarebbe il punto?

In un passaggio alla fine dell’articolo, Lauretano osserva:

«La generazione di Cucchi ha un grande merito, quella di attestarsi reciprocamente, a vari gradi ovviamente, e mantenendo i distinguo. Ma ha saputo instaurare quella solidarietà generazionale di cui i successivi, tutti cani sciolti, non sono stati capaci».

Attenzione, qui non è difficile scorgere, oltre a Cucchi, un problema che riguarda direttamente “noi”, le potenziali “vittime” di un’ingiustizia. In effetti, non si può nemmeno affermare che Cucchi abbia perseguito la logica del divide et impera: qui si riconosce una debolezza intrinseca alle ultime generazioni. Se di fronte a Cucchi o di chiunque altro fosse emerso un panorama generazionale vario ma anche coeso, oggi i valori in campo sarebbero almeno parzialmente diversi. Non è colpa di Cucchi se, a livello orizzontale, i vari orientamenti poetici non hanno saputo confrontarsi in modo “sano”. Ecco, torno su questo aggettivo. Che cos’è un confronto sano? È il confronto che non delegittima l’avversario. Chi ha un orientamento poetico è naturalmente teso a conquistare posizioni nel campo letterario. Ma dove sono le fatidiche discussioni tra poeti lirici e poeti di ricerca? (Ci limitiamo, per comodità, a riconoscere queste due fazioni, ma sappiamo che la scena è ben più complessa e ricca di sovrapposizioni e sfumature). Quali occasioni di confronto si sono create? Quali saggi, quali opere, quali riviste, quali siti, pur prendendo posizione, hanno chiamato costantemente a confronto i “campioni” riconosciuti delle rispettive parti? I presunti figli non sono mai cresciuti, non hanno mai attraversato la propria adolescenza, forse non sono entrati nell’età adulta. Se ci sono arrivati, hanno seguito cordate già predisposte. Hanno scelto i padri a loro congeniali, hanno stretto alleanza con i simili. E adesso gestiscono come possono l’eredità accumulata. Il risultato è solo un costante piagnisteo di sottofondo. Tutti a lamentarsi perché non hanno ottenuto, a quaranta, cinquanta o anche sessant’anni, il prestigio che speravano. E adesso annusano il pericolo di una rimozione operata non dalle generazioni precedenti, ma da quelle a venire, giacché nel frattempo il mondo è cambiato e le forme della tradizione, se di tradizione ancora si può parlare, non sono più così lineari.

Abbassiamo lo sguardo dai padri putativi e chiediamoci che cosa siamo noi. Ci sentiamo orfani? Siamo ancora in attesa di essere adottati? Ci sentiamo traditi da chi non ci ha scelto?

La legittimazione ottenuta fra pari (senza raccomandazioni, senza protezione da parte di alcun padrino) è il presupposto, poi, per diventare realmente figli, ovvero per fronteggiare il padre con forza e autonomia. E qui andrebbero analizzate le biografie non solo di Cucchi, ma anche di De Angelis, di Magrelli, di Conte, di Valduga e compagnia bella. Si trova qualcuno che non si sia limitato a compiacere, ma abbia voluto, “dal basso”, sottoporre a verifica il canone che nel frattempo ci veniva imposto? Qui la sana controversia si pone dunque in verticale. Chi ha avuto il coraggio e la destrezza di mettere in discussione la poetica e i testi (con acribia, con credibilità) di questi maestri, con ciò stesso riconoscendone la posizione dominante? Anche in questo caso, anziché puntare il dito sulle losche intenzioni (tutte da dimostrare) di chi ha operato in una determinata direzione, si dovrebbe annotare la pusillanimità, la mancanza di responsabilità comune, la scarsa forza intellettuale di chi non ha nemmeno tentato di saggiare (e quindi di verificare, di rendere vera) la supposta maestria di coloro che, per il fatto di aver attraversato una stagione letteraria unica e particolare che li ha avvantaggiati, ancora oggi, per inerzia, secondo la prospettiva miope del presente, occupano posizioni di rilievo.

E arriviamo a una conclusione. Ci sono colpe in chi ha assecondato (e continua ad assecondare) le logiche del potere, a qualsiasi livello, adeguandosi al ruolo di servo della gleba, pari almeno a quelle di chi lo ha esercitato. Ma la mancanza di un sano conflitto interno alla poesia non ha solo lasciato in ombra innumerevoli autori che andrebbero riscoperti, non ha solo rimosso (per ora) linee di una tradizione non conformi al canone vigente, ma si tramuta in una pesante ipoteca di delegittimazione anche per chi, al momento, crede di occupare lo scranno del padre e del maestro e invece da diversi decenni non è più in grado di produrre opere che lascino il segno (che implica ferita, silenzio, disagio, non plauso), ma semplicemente ripete il proprio verso e si compiace di sentirlo ripetere dal coretto degli adepti.

Ma non sentite gli scricchiolii ai piedi del gigante? La montagna del canone odierno sta solo annunciando una devastante catastrofe e l’accumulo di libri, di antologie, di allori, di presunti figli a cui mostrare l’eredità è solo l’umano, troppo umano tentativo di esorcizzarla.

[Foto di Glauco Canalis]

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