Darsi al teatro (con Franco Acquaviva)
In questi giorni sto preparando, con Franco Acquaviva, un piccolo evento teatrale: si tratta di questo. Ed è un vero piacere, un divertimento, partire da interessi comuni e, nella piccola trincea della provincia, cercare di conquistare qualche metro di spazio culturale abitabile, costruttivo.
Così, sono tornato con piacere a rileggermi una sorta di piccolo manifesto che Franco aveva scritto per Atelier. Eccolo.
Darsi al teatro
di Franco Acquaviva
Arte povera e biologica
Il teatro è un’arte povera e biologica. Povera perché non ha bisogno di molto denaro per essere esercitata; biologica perché l’unica ricchezza che può vantare è nella qualità globale della persona che la esercita.
Per questo prima di dire: “faccio teatro”, dovrei pensare “mi do al teatro”. “Darsi al teatro”, viene prima di “fare il teatro”. Quando ci si dà, il proprio fare risulta come illuminato da quel darsi, che è una sfida di ogni giorno e di una vita. Quando si fa senza darsi il risultato potrà anche essere buono, ma sarà sempre episodico e soggetto alle oscillazioni dell’umore, agli accidenti della vita, insomma alle forze distrattive che ci allontanano da noi stessi. Poiché “fare” e “darsi” quando sono simultanei, quando vengono bruciati insieme sullo stesso altare, provocano un’adesione totale a ciò a cui si tende. Di questa adesione totale ha bisogno l’attore — l’uomo e la donna di teatro. Senza questa adesione fare teatro è un atto mancato, che si aggiunge ai tanti atti mancati della nostra vita.
Dunque è l’attore che ha bisogno di questa adesione totale, non è il teatro che ha bisogno dell’attore.
Se l’attore non sente questo bisogno, perché fa teatro? Attori che fanno teatro senza aderire con la totalità del proprio essere ce ne sono molti: sono gli esibizionisti e i pavidi. I primi non hanno bisogno di aderire ad alcunché, poiché si nutrono della soddisfazione superficiale che proviene dal mostrarsi agli altri per le proprie supposte grandi qualità: di bravura tecnica, di sentimento; tutte osservate minuziosamente allo specchio prima di essere rese pubbliche. I secondi vorrebbero aderire, ma scappano quando il gioco si fa troppo serio. Entrambi sono in fuga dalla vita profonda, ma per i primi il teatro è un farmaco eccitante, per i secondi una pomata che allevia il sintomo.
(Foglietto manoscritto dell’attore *** trovato, dopo la sua morte, nella tasca di un paio di pantaloni da lavoro conservati nel guardaroba della casa di campagna dello stesso).
Flatus vocis
Nei teatri d’oggidì e in tutte le situazioni pubbliche di rappresentazione (o presentazione, o oralità) quello che la parola ha perso in eloquenza ha guadagnato in amplificazione.
L’amplificazione microfonica delle voci è l’urlo del non significato, che però si immagina nel pieno della significanza. A chi sappia ascoltare, quelle voci monumentali e insieme casalinghe, dove il titanismo del risultato coincide con la remissività psicologica, esistenziale e politica di voci da tinello, che riescono a saturare lo spazio, a non lasciare la benché minima possibilità all’acustica naturale di manifestarsi plasticamente, inviano una disperata richiesta d’aiuto: della parola contro il limite dell’insensibilità contemporanea. Possiamo immaginarcela come la lotta della parola contro il muro del suono; si sente che la parola sta per fuoriuscire, si intuisce la crepatura nell’amplificazione. Da quelle crepe potrebbe fuoriuscire il suono inarticolato delle mucose e della lingua e degli inghiottimenti e della saliva che si impasta: sarebbe già un annuncio di parola, o quantomeno la negazione della non parola dell’Amplificazione. A un certo livello di decibel ogni voce è totalmente altra da sé, tuttavia questa alterità rimane una possibilità non realizzata, quasi una nostalgia dell’ascoltatore, non si traduce in una realtà fattuale. Le voci casalinghe, oltre una certa soglia di decibel, si trasfigurano, ma tendono irrimediabilmente alla voce colonizzata dell’industria dello spettacolo: tutte le voci potenziate dal microfono tendono alla voce colonizzata della televisione, alla vocalità “superamericana” (dimensione imperialistica che penetra ogni cellula dell’immaginario contemporaneo). Se la parola rompesse il muro del suono non coglieremmo alcun “bang”; ma un silenzio che prepara la rinascita.
Il muro del suono viene rotto ogniqualvolta la voce rimane sola, coraggiosa zattera in mezzo alla tempesta. Quando la voce ha questo coraggio, la parola riprende forza. È il coraggio della fragilità. Chi si ricorda che San Francesco concionò nella Piazza Maggiore di Bologna davanti a migliaia di persone? La forza della voce è la forza della parola dimenticata; e la forza della parola è la forza della voce quando accetta la propria fragilità e rifiuta l’amplificazione.
È un rischio mortale per chi si fa strumento della voce. Perché, come accadde a Zarathustra quando giunse al mercato e si rivolse agli uomini con la sua bruciante parola, e a voce nuda, il rischio è l’incomprensione e la derisione.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!