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L'inferno va nominato

L’inferno va nominato

Rilancio qui un articolo di Davide Brullo, apparso qui.

“Sì, va nominato l’inferno, talvolta”. Intorno ad Andrea Temporelli

di Davide Brullo

Ultima viene la vergogna, ed è quella – sorella della vanità – la parte buona, l’estremo esordio, la suprema nudità. Bisogna vergognarsi dei propri testi, allontanarli per eccesso d’amore, neppure parlarne, cucirsi la bocca donando lo scritto al segreto, al falò nero, sabba di tutti i canoni. Che epoca strana, questa: non bisognerebbe discutere che di poesia, invece, incuneati in una cattedrale di glossolalie, ma c’è sempre il più importante che preme, la vaga foga dei frustrati, impegnati nel mondo, indotti alla guerra civile, alla cagnara. D’altronde, dov’è la poesia quando è la falsa profezia – come sempre – a dominare?, dove si va a scavare come volpi il verbo, tra tane e anfratti, a predare lo scritto, raggiera di vipere? E chi lo sa. Da tempo la poesia si trova negli spazi impropri, negli incontri intrepidi, senza timore di apparire poveri, scemi. Continua a leggere

Lo scisma della cultura

Lo scisma della cultura

E allora, dopo la fine del canone, nella crisi aperta del moderno, nel mercato della letteratura classica e della letteratura leggera, e senza maestri, che cosa faranno e che cosa possono fare non dirò i poeti che comincino oggi – da avviare subito allo spettacolo e ai commerci, quando non ci abbiano pensato da soli – ma quelli con esordio dieci, venti o magari trent’anni fa, quelli di valore, sabianamente onesti o crudeli come Artaud, ma insomma bravi, eppure con aspetto di promesse perenni, di premesse perenni? Che cosa si può fare nella poesia dopo la fine del canone, senza un posto neppure nella falsa coscienza del parnaso universitario e scolastico? Che cosa dentro la incipiente letteratura classica, benché virtuale, non più trattabile, per polemica, quale morta, leopardianamente, perché morta davvero? Che cosa senza poter più né ammazzare né mangiare – e magari neppure mitemente attraversare – i padri, e pieni di fratelli separati e irriconoscibili nella diaspora comune?

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Il puro folle (1930), di Adolfo Wildt

Chiedere ragione del dolore

Si narra che Parsifal, iniziato alla maturità dal principe Gurnemanz, apprese l’arte di essere ricco e povero nello stesso tempo, generoso nella vittoria e dignitoso nella sconfitta.

Scoprì la ragionevolezza delle cose e l’onore dell’uomo, che si manifesta nel ritegno, nel silenzio, nel porre poche domande, prestando attenzione, piuttosto, a rispondere in modo preciso. Continua a leggere

La voce che ci espone. Umberto Fiori

Milano, 3 febbraio 1997

Marco per favore non suonare il campanello. Entra pure, la porta è aperta.

Il biglietto, sulla soglia dell’appartamento, mi invita a gettare lo sguardo su un corridoio semibuio. Un po’ impacciato, muovo il primo passo oltre la porta e in fondo al corridoio si affaccia Umberto Fiori, che viene ad accogliermi. «Siamo appena riusciti a far addormentare Cecilia…», mi sussurra. Continua a leggere

Angelus Novus, Paul Klee, 1920

Esodi ed esordi. Passi di poesia dentro il principio

Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Walter Benjamin

Abbiamo tutti la faccia dell’angelo di Klee, mentre ci allontaniamo non più, ormai, soltanto da un Novecento di orrori che ancora ci invadono gli occhi, ma anche da un ventennio esangue che ne ha occultato il cadavere, riciclandolo in veste di nuovo idolo fino alla mistificazione più scaltra, fino all’adulterazione delle parole. Entriamo perciò in un’epoca di cui non abbiamo ancora prefigurazione. Il futuro ci coglierà alle spalle, è inevitabile, quindi non è il caso di vestire i panni sempre scomodi, quando non ridicoli, di profeti, né sarebbe sensato agevolare l’oblio, assecondare la rimozione del male. Anzi, proprio il fatto di stare piantati nel dolore mette in moto risorse inaspettate. La tragedia costringe all’evoluzione – quando non spezza irrevocabilmente.

Abbiamo tutti, come poeti, un corpo perfettibile, la testa gigantesca di bambini e piedini come artigli: siamo goffi e mostruosi insieme. La mimesi della realtà ci è ormai negata e anche quando viene esibita è solo un riflesso, ma nella nostra astrattezza agisce il ricordo, forse la nostalgia di un mondo perduto. Le nostre radici sono dentro questa origine, questo inizio irraggiungibile. La nostra vita, in tutto e per tutto pari a quella di chiunque altro, è il tronco che permette la fioritura, ramo dopo ramo, della visione. Abbiamo una tradizione sconfinata che ci è esplosa davanti agli occhi insieme alla storia. Non crediamo nemmeno più nel progresso, che pure è la tempesta che ci travolge e ci impedisce ogni indugio, ogni compiacimento. Siamo sfiniti e sfigurati.

Questo è il principio. Qui, svuotati i polmoni, riprendiamo fiato. Nel momento stesso in cui cataloghiamo i reperti del passato, infatti, coltiviamo il nostro esordio. Non si tratta più, quindi, di puntellare le rovine, di accogliere i frantumi per alzare barricate e resistere, nei margini di insignificanza cui è costretto il poeta nell’oggidì. Si tratta di avventurarsi, di muovere i primi passi esplorativi nell’epoca informe che, inevitabilmente, ci darà un volto, per quanto con tratti scomposti, con dettagli sfuocati. E benedetto sia l’anonimato che ci permette la libertà degli infiltrati e l’allegria dei disperati. Attraversiamo regioni psichiche senza permesso, corriamo rischi colossali mentre gli altri nemmeno più vedono le nostre ali da gigante sempre spiegate, mentre camminiamo, lavoriamo, amiamo e ci indigniamo come tutti.

Diamo il sangue, in quanto poeti, per guadagnare un centimetro appena di senso dentro al vuoto, perché sappiamo che in quel centimetro ci sarà terra dove far riattecchire le parole, e lì avremo dimora. La nostra sfida, infatti, è proprio rivolta alla depressione postmoderna, alle sabbie mobili della non-storia, che sono la nostra misconosciuta tragedia. Il male di vivere non si risolve con un atto di finzione, ma cogliendo l’impulso evolutivo che porta nel suo stesso grembo. Per attraversare questo limbo molti hanno scelto l’immobilità come forma di resistenza, noi preferiamo la sperimentazione ponderata e sofferta, la varietà che si stringe in abbraccio evolutivo, il gesto magari nervoso e impreciso di chi ha paura, ma vuole nascere. Per questo cerchiamo esordi significativi non per la loro impossibile compiutezza formale, dal momento che non esiste poetica che ci garantisca a priori il senso. Il nostro stesso stile ci coglierà alle spalle, sarà il giusto contraccolpo alla risposta, anzitutto esistenziale, che daremo al Novecento e a questi anni doppio zero, che ne rappresentano un rigurgito terminale, la fastosa celebrazione di una fine spacciata per un inizio che non c’è stato. La vera novità germoglia nel tempo, infatti, al quale noi per primi ci consegniamo, con un inchino all’universo, nel rettangolo che ci è dato.

Per questo facciamo esercizio di pazienza, setacciamo voci con estrema discrezione, mettendo nel solco di ogni ascolto il seme di un incontro, che non è accondiscendenza gratuita ma, all’opposto, sfida a usarci reciprocamente per muovere un passo oltre noi stessi. Proviamo a radunare, qui, la carovana dei migranti che, magari, scopriranno il nuovo, perché non dimenticano l’antico; mettiamo insieme i fratelli maggiori, che l’amorevole lotta ha nel frattempo fortificato nel ruolo di sponde da sottoporre alla prova decisiva, e i più giovani, verso i quali abbiamo l’obbligo di offrirci, allo stesso modo, come esempi e bersagli.

Ogni parola che pretende di drizzarsi in un verso, ogni discorso che si mette in verticale contro il vento dell’epoca, ha l’umiltà di accettare questa sfida, con la gioia impertinente dei bambini che chiedono ragione di tutto.

 

Reborn… “rEvolution” in progress, di Enrico Ferrarini

La tradizione del futuro

(L’opera scelta come copertina è di Enrico Ferrarini.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

Si ha un bell’affannarsi alla ricerca di padri, fra certi poeti. Ma così non si rende giustizia alla parte femminile, materna e tellurica, che muove la creazione poetica. I padri, si sa, sono sempre incerti e non basta mezza giornata di discussione sui propri testi per riconoscere un maestro, per quanto illuminanti possano essere le parole. Non basta nemmeno una pubblicazione: un padre ci deve tutto, e il nostro debito nei suoi confronti è incalcolabile, a tal punto da non esistere più, a tal punto da muoverci al superamento. Continua a leggere

La poesia è una marchetta

Buon lavoro, idiota!
Antonio Moresco

Uno (povero illuso!) pensa che in Italia ci siano, che so, almeno quattro o cinque individui che si occupino, per professione, di poesia. Gente pagata, insomma, per monitorare il panorama, per seguire in tempo reale le quotazioni letterarie, per tentare qualche proficuo investimento sulla base di una visione personale del frangente storico. Continua a leggere

La scena del risveglio del protagonista, dal film Matrix

Nella pancia di Matrix

In questi giorni di tregua dalla scuola mi sto concedendo un po’ di ozio (attività in famiglia, letture, preparazione di lezioni…).
Colgo l’occasione per ripensare al percorso compiuto quest’anno con il sito e rilancio alcuni vecchi articoli, cui sono particolarmente affezionato. Questo era apparso il 24 giugno.

Questa intervista a cura di Davide Brullo è apparsa su “La voce di Romagna” del 18 giugno. Nel pubblicarla, Davide ha voluto togliere il suo nome, dai pochi esemplari che mi ero permesso di avanzare: qui sotto invece lo trovate là dove deve essere.

Magmatico, radicale, radioso: Andrea Temporelli ha scritto una delle opere critiche più avventate e vigorose del tempo presente. Lo abbiamo stanato dalla sua solitudine

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Scorcio della mia biblioteca

Una letteratura sostenibile

In questi giorni di tregua dalla scuola mi sto concedendo un po’ di ozio (attività in famiglia, letture, preparazione di lezioni…).
Colgo l’occasione per ripensare al percorso compiuto quest’anno con il sito e rilancio alcuni vecchi articoli, cui sono particolarmente affezionato. Questo era apparso il 7 giugno.

Si sta allestendo l’iconografia
di massimi scrittori e presto anche
dei minimi. Vedremo dove hanno abitato,
se in regge o in bidonvilles, le loro scuole
e latrine se interne o appiccicate
all’esterno con tubi penzolanti
su stabbi di maiali, studieremo gli oroscopi
di ascendenti, propaggini e discendenti,
le strade frequentate, i lupanari se mai
ne sopravviva alcuno all’onorata Merlin […]
E. Montale Continua a leggere

Un messaggio in bottiglia

Sul nuovo numero della rivista “Atelier” compare questo ampio saggio, che prende in esame il mio volume di saggi Smarcamenti, affondi e fughe. Ringrazio direttori e redattori della rivista per l’attenzione e le belle parole, a tratti persino esagerate.

Andrea Temporelli: un messaggio in bottiglia
di Giulio Greco

1. Smarcamenti

Smarcamenti, affondi e fughe (Borgomanero, Ladolfi, 2016, pp. 402, 20 euro) di Andrea Temporelli non va inteso come riedizione di saggi e neppure come un compendio teorico, ma come un vero e proprio manuale di “poetica militante” o forse “militare”, come suggerisce l’editoriale n. 21 del marzo 2001.
Il testo raccoglie il pensiero e l’anima battagliera del cofondatore di «Atelier»: gli editoriali, le interviste narrate, le lettere aperte, pubblicate sulla rivista. Continua a leggere