L'inferno va nominato

L’inferno va nominato

Rilancio qui un articolo di Davide Brullo, apparso qui.

“Sì, va nominato l’inferno, talvolta”. Intorno ad Andrea Temporelli

di Davide Brullo

Ultima viene la vergogna, ed è quella – sorella della vanità – la parte buona, l’estremo esordio, la suprema nudità. Bisogna vergognarsi dei propri testi, allontanarli per eccesso d’amore, neppure parlarne, cucirsi la bocca donando lo scritto al segreto, al falò nero, sabba di tutti i canoni. Che epoca strana, questa: non bisognerebbe discutere che di poesia, invece, incuneati in una cattedrale di glossolalie, ma c’è sempre il più importante che preme, la vaga foga dei frustrati, impegnati nel mondo, indotti alla guerra civile, alla cagnara. D’altronde, dov’è la poesia quando è la falsa profezia – come sempre – a dominare?, dove si va a scavare come volpi il verbo, tra tane e anfratti, a predare lo scritto, raggiera di vipere? E chi lo sa. Da tempo la poesia si trova negli spazi impropri, negli incontri intrepidi, senza timore di apparire poveri, scemi.

L’ultimo di tanti doni che vengono da Andrea Temporelli, uomo di lago, puro come l’acqua e scaltro come un merlo, è la vergogna; cioè, la soglia dell’infanzia. Come tornare a casa (Giuliano Ladolfi Editore, 2021) è un fascicolo che antologizza “poeti pubblicati nelle collane Parsifal e Macadamia”, cioè passati per il vaglio, appunto, di Temporelli. Sono testi che raccolgono un lavoro decennale – dal 2001 al 2011 – a cui si torna dopo l’esatto maggese di un decennio: misura esatta per capire, forse, la natura di una poesia. Quella poesia ha la consistenza di un fiume, ha favore di quarzo, scappa, come una lucertola, o vola? Oppure, semplicemente, va sotterrata in una furia di pietre? La vergogna riguarda la propria posizione rispetto al monito; bisogna dubitare di chi è fatalmente orgoglioso di sé e di chi, con lo stesso orgoglio, si supera, senza concessione di prova. Così, ci sono le poesie di Simone Cattaneo e di Flavio Santi, di Massimo Gezzi e di Maria Grazia Calandrone; continuo a credere importanti i libri di Federico Italiano, di Riccardo Ielmini, di Gabriel Del Sarto. Che questi nomi non dicano nulla a chi legge è la legge di questo tempo, buona, infine: il poeta sconfina nell’anonimato, per esagerazioni. Più che altro, un pudore – non per forza imprigionato nell’azzurro – cela i nostri anni più belli, avventurieri. Chi si vergogna dell’infanzia è impaniato nell’adultità, poveretto: scrivere vuol dire costruire case sugli alberi e far esistere davvero il proprio nome nella polpa di un albero, col coltello.

La casa a cui allude Temporelli, suppongo, è l’ambito di “Atelier”, quella tana-alcova, la rivista che ha fondato nel 1996 e diretto fino al 2013. Temporelli, poi, è stato divorato dal suo alter ego – l’autentico pseudonimo, o gemello fittizio – Marco Merlin, che è insegnante e svolge il ruolo con miliare creatività e dedizione. Marco fa così: ama le cose fino a esaurirle; Andrea, a contrario, raccoglie i frantumi per trarre l’intero, ricostruisce della reliquia il corpo, nel balbettio intravede la genesi di un dio. A me pare, da questa sfinita distanza, che Andrea Temporelli sia la personalità letteraria più lucida, intricata, intrigante di questi tempi. Prima ha scelto la trincea, la milizia; poi l’ascesa, il monte, un eremo di rocce. Chi conosce Andrea Temporelli se non per allusioni o fraintesi? Appunto. Non essendoci merce da vendere né consigli per gli acquisti, posso dire di Temporelli l’intuizione, la sapienza apocalittica, apodittica; e di Merlin l’amicizia di cui sono privo, scalfito, sconfitto. Insegna a verificare i propri scritti con l’ascia, perché siano singolarmente vivi, come un braccio, Temporelli; non mi spiace una poesia che senza nominare il falco lo ripercorra. I suoi testi, soprattutto quelli occasionali, gli editoriali raccolti in Smarcamenti, affondi e fughe (2016), spesso, hanno la violenza di un’illuminazione, come di uno che usa i ramponi e ha fiamme al posto delle unghie: per me sono un tunnel, un pozzo, una voragine. Raduno qui alcune frasi a mo’ di regola – da evadere, come tutto. Un rosario di trappole.

“Il poeta non si pone il problema di essere riconosciuto: parla nel luogo in cui tutti gli uomini sono anonimi. L’incomprensione e la solitudine non sono i suoi inferni privati. Nel momento in cui si mette ‘in posa’, tradisce il luogo da cui gli è sgorgata la parola”.

“Sì, va nominato l’inferno, talvolta. C’è un tempo per essere cauti e un tempo per osare”.

“Il fatto è che siamo imprendibili: ci vogliono davanti, schiena contro il muro, per misurarci e darci il voto nelle loro scuole, ma noi li osserviamo alle spalle. Ci vogliono giovani: siamo già più vecchi di loro”.

“No, è un bene che la poesia sia marginale perché è un luogo di autenticità in un mondo falsificante… La poesia non va promossa, va preservata. Non va reclamizzata, va suggerita con tremore. La poesia non è una chiamata generale, è una risposta personale: lavoriamo semmai sulla possibilità della domanda”.

“Ed è la continua lotta dell’uomo per disegnare (spente le luci della ribalta) nuove costellazioni, false anch’esse, ma insieme autentiche nella loro provvisorietà storica, che le rende capaci di offrirci un oroscopo in cui leggere davvero la nostra sorte”.

“Occorre sentirsi artisti di strada con il cappello rovesciato in terra e un pugno di rime scritte all’insaputa di se stessi, per rubare il silenzio delle cose, quando a tratti pare sorridere con gli occhi di qualcuno che presta attenzione. Gli scrittori sono bambini innocenti e crudeli, che nascondono sassi nelle loro palle di neve. Non serve mai in letteratura, alla lunga, far comunella, piuttosto condividere la fatica di una dura disciplina personale. Senza lagne. Anzi, a tratti persino con gioia”.

“L’autore che fonda e riconosce se stesso lo fa con un atto libero e liberante, anche se in questo gesto è implicato uno strappo, talvolta doloroso, con tanti che lo circondano”.

“Nessuno è più innocente. Non aspettiamoci una generazione che giudichi meglio. Siamo tutti colpevoli. Ormai il combattimento è senza avversari, se non noi stessi. Ho voglia di scrivere cose bellissime e terribili. Ma per chi?”.

“Ci punge, alla fine, solo una certezza: la partita per l’opera si gioca indiscutibilmente altrove”.

“Il dono nasce nelle mani di chi accoglie e chi ha dato, in verità, riceve… Lascio spazio. Perdo il controllo e faccio capriola sui miei limiti. Mi smarco. Entro nella mia profezia privata. Se ho generato, è poca cosa. Sono i figli che danno alla luce”.

“Si tratta di avventurarsi, di muovere i primi passi esplorativi nell’epoca informe che, inevitabilmente, ci darà un volto, per quanto con tratti scomposti, con dettagli sfuocati. E benedetto sia l’anonimato che ci permette la libertà degli infiltrati e l’allegria dei disperati. Attraversiamo regioni psichiche senza permesso, corriamo rischi colossali mentre gli altri nemmeno più vedono le nostre ali da gigante sempre spiegate, mentre camminiamo, lavoriamo, amiamo e ci indigniamo come tutti”.

Andrea Temporelli

 

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