Poeti contemporanei: Marco Munaro
Anche l’opera poetica di Munaro, come accade per molti suoi coetanei e per i più giovani, prende forma attraverso pubblicazioni difficilmente reperibili, plaquettes semiclandestine, volumi occasionali, raccolte provvisorie, con tutto ciò che comporta dal punto di vista di una lettura che deve fare i conti con continue riprese, con la disseminazione di testi magari appartenenti idealmente a un unico libro in sedi diverse, con una mancanza di continuità in un rapporto (fra autore e lettore) preferibilmente rispettoso dei tempi con cui si evolve la scrittura. In ogni caso, volendo provvisoriamente riordinare il percorso dell’autore, si ricorderanno i seguenti titoli essenziali: Cinque sassi, Il portico sonoro e Vaso blu con narcisi.
A uno sguardo panoramico, emerge in essi un carattere complessivamente sperimentale, per la compresenza di diverse opzioni stilistiche. Bisogna però precisare subito che lo sperimentalismo di cui si parla non ha nulla a che fare con le sterili evoluzioni dell’Avanguardia; semmai, il lavoro linguistico dell’autore si apparenta con le ricerche di quel Zanzotto (cui si devono le introduzioni dei due ultimi titoli principali) che è qualcosa di più di un referente letterario, dal momento che Munaro si è laureato con una tesi sul poeta di Pieve di Soligo, cui si è poi legato in amicizia durante alcuni anni di insegnamento nel suo paese. E, se non mancano riferimenti espliciti a Zanzotto nei testi del poeta di cui ci stiamo occupando, varrà la pena ricordare che anche quest’ultimo è menzionato in calce a una poesia di Sovrimpressioni [1]. Siamo dunque di fronte a uno sperimentalismo che non ha fondamenti ideologici, che non presume di conoscere il senso del reale per manipolarlo ironicamente e criticamente, ma che, al contrario, va supplicando un senso alla realtà, che lotta con i limiti della materia linguistica per trovare il fulcro del soggetto che percepisce il mondo che lo invade. Ma verifichiamo direttamente sui testi questa ipotesi di lettura.
Un certo eclettismo formale si palesa fin dai primi contatti con i testi. Le poesie assumono sulla pagina movenze sinuose (un esempio emblematico è rappresentato dalla coda strofica che chiude la poesia Torcello, dove il testo si torce a spirale sulla pagina e diventa propriamente un calligramma), evidenziano slogature e lacune improvvise, ma sono libere anche di ricomporsi in blocchi più o meno regolari. La sintassi è altrettanto scomposta, per rapidi trapassi ellittici del discorso, dislocazioni a cavallo di incisi, accumuli, iterazioni (magari forsennate e complicate con paronomasie: «E volti volti volti / vòlti gli uni negli altri»), tmesi, geminazioni lessicali («morbi/di»), svariate figure foniche talvolta in sequenze molto fitte, ma anche dosate inserzioni di simboli matematici, di elenchi, di segni di interpunzione con funzione connotativa, di citazioni in latino o dialetto o di riprese dal linguaggio fumettistico e onomatopeico («volano \ vrr via»). Se è vero che, complessivamente, è soprattutto la prima parte della raccolta, che detta il titolo complessivo (il quale, ci informa l’interessato in nota, allude all’antico, divinatorio gioco di astràgali) a fregiarsi di tutti questi tratti marcatamente sperimentali, tanto che si potrebbe parlare effettivamente di due raccolte giustapposte (I cinque sassi, appunto, e Le falistre), va pur rilevato che anche nelle opere successive ritroveremo, per quanto in modo più discreto, presenze di soluzioni espressive alquanto ricercate.
Il magistero zanzottiano si palesa fin da questi dati superficiali. Così il lettore non tarderà a smascherare il divertissement che caratterizza alcuni momenti della raccolta e in particolare il titolo d’esordio: Lascia aporta l’aperta. Il riuso di materiali della tradizione (nella poesia in questione l’accento cade sull’indicazione «Piove» dannunzianamente ripetuta oppure su eliotiani frammenti di dialogo lievemente surreali e teatrali) o il gusto di cogliere il linguaggio nel momento in cui l’energia del pensiero s’inceppa, crea voragini o piccole fenditure (oltre al titolo, si pensi al terzo verso: «È la fine di embre»). Si tratta di sintomi inequivocabili di come l’autore focalizzi il linguaggio quale campo privilegiato di ricerca e verifica della consistenza del soggetto e, più in generale, dell’essere. Ciò a sua volta fa sì che assiduamente la scrittura si concretizzi su un piano di riflessione metapoetica, come accade per esempio in Wibālis-Em, poesia che pone il tema della caccia (che ritroveremo più avanti) in rapporto all’inventio: «I versi. Quelli amici, gli sconosciuti, gli altri: / – i non ancora usciti. Tutti insieme / si danno la caccia, insieme mi danno la caccia». (Ma questa poesia ci ricorda anche il gusto dell’autore per riferimenti dotti e soluzioni criptiche, come la scelta del titolo).
Il testo esibisce il corpo a corpo del soggetto con il linguaggio: premessa di questa poesia è infatti lo scacco a ogni ingenua immediatezza del dire. Ma si sente pulsare, dietro a ogni soluzione espressiva adottata, la ricerca di senso e di comunicazione. Infatti, di tanto in tanto, specialmente alla fine della raccolta, compaiono sblocchi lirici in cui si profonde la memoria dell’infanzia, nostalgicamente evocata: si tratta di brevi ma intense pacificazioni rese ancor più memorabili dalla resistenza del mezzo espressivo. L’atto di scrivere, infatti, si fa opaco, viene investito di valore, tanto che il processo creativo lascia le sue impronte (i suoi graffi, i ripensamenti e persino gli indizi delle pulsioni contraddittorie) nell’oggetto che ci consegna: la pagina è vissuta come il corpo medesimo dell’autore. Tanto che anche i nomi diventano, feticisticamente, oggetti da manipolare, disseminare lungo venature nascoste in percorsi criptici e onirici dissimulati. È il caso, per esempio, della poesia Murano, prima di una piccola trilogia veneziana (fanno seguito infatti Torcello e Burano). Il titolo anagramma il nome dell’autore suggerendo l’importanza del componimento, che va al di là di una semplice descrizione paesaggistica. Il procedere dei significati è sempre vincolato alla catena dei significanti, agli slittamenti che impongono per via di associazioni, qui però molto equilibrate e dissimulate, fin dall’attacco, che detta il passo tipicamente accumulativo delle annotazioni: «Qualche gradino. / Un campo per giardino» (corsivo nostro). Appena il tempo di un’altra indicazione («Gatti, e bambini sconti [“nascosti”, in dialetto veneto] / – come sempre –»), ed ecco il testo ha un’impennata, resa visibile da un cambio di strofa e da una «Ma» che campeggia, isolato, al centro del rigo su cui dovrebbe adagiarsi il verso: da qui in poi il tenore della descrizione ci spalanca una vera e propria visione. L’alzarsi della temperatura è perfino dettato apertamente: «Mille gradi» (che la maiuscola apparentemente immotivata si accoppi con quella del «Ma» precedente per suggerire le iniziali del poeta?): segue l’allegoria di «una fornace di padri / e figli vetrai che soffiano: i ponti, / i canali, le case, le calli: vetro / dintorno, dentro, dietro». (Non sfugga il fatto che l’accumulo lessicale si fa particolarmente cogente per il filo di refe dell’allitterazione prima in f, poi in ca e infine in d-t, che addirittura si fa matrice di interi versi; ma altri fili più sottili vengono tesi lungo il tessuto del componimento: per esempio i «gradi» riprendono e sviluppano il nesso «gradino-giardino» iniziale e preparano l’ultimo salto semantico verso i «padri»). Qual è il significato di questa allegoria, tanto emblematica per l’autore da averla timbrata con le lettere del suo nome? Siamo di fronte a una fucina, correlativo perfetto del laboratorio poetico, della fatica dei «figli vetrai» di farsi carico di tutta una tradizione con il relativo repertorio di tecniche e di sapienza. L’inciso conclusivo («Chi come me vi cade / – nella luce appannata di Novembre – / s’infrange») assume dunque il senso di una nuova percezione del soggetto in cerca del proprio profilo costitutivo dentro la rete del linguaggio e dell’intertestualità letteraria.
Il processo compositivo di questa poesia è emulato da Burano (si pensi all’apparizione nel bar degli avventori, che «Nuotano fino al banco. / Un bianco, e poi riprendono il largo» [corsivo nostro]), testo che però scivola su tonalità più lirico-melodiche, come suggerisce la nota evanescente in chiusura (ancora isolata in forma di inciso, come avviene in tutti i testi di questa piccola trilogia): «Nel fondo di un bicchiere… / … certe sere…». Ma chi potrebbero essere queste «tre ombre»? Sulla scorta di quanto detto finora (spingendoci, per effetto di un’euforia esegetica, in una libera reinterpretazione), verrebbe da identificare gli avventori come i tre mentori della poesia di Munaro, magari nascosti ciascuno dietro a una poesia di questa sequenza. Dietro alla prima, ovviamente, andrebbe posto Zanzotto, ma dietro alle altre? Direi che Torcello, costruita tutta per accumulo, potrebbe ricordare Montale (di cui si rilegga Keepsake), mentre in Burano la fulminea comparsa delle figure, come nello snodo di una narrazione tesa e frammentaria, rimanderebbe a Caproni (andando a rintracciare i suoi metafisici bar e i rapidi incroci, sulla scena, di svariati attanti). Al di là del gioco interpretativo, non c’è dubbio che Montale e Caproni siano effettivamente presenti nella filigrana della raccolta. Basti qui un’ultima riprova per ciascuno: per il primo, si legga Questa, che in un’ansa del ponte, quasi…, penultima poesia di Cinque sassi che, benché omaggiante la figura di Zanzotto in modo esplicito («Falistrelle falistrocche: / entra con noi nel Soligo…»), ricopia le movenze di Piccolo testamento: «Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero […] non è lume di chiesa e d’officina» (la negazione in Munaro: «[…] non è l’isola di Castelmassa…»); mentre in Caproni si tenga presente sia il frequente ricorso di Munaro alla rima facile e sonora, anche con funzione di alleggerimento del testo densamente elaborato, sia il tema della caccia, già notato e ora ripreso compiutamente (persino sotto forma di titolo), nella sezione L’urlo.
Tale sezione rappresenta probabilmente il culmine (traumatico) del viaggio esistenziale e creativo. Si compone di dieci testi di nove versi ciascuno, a loro volta costituti (pressoché regolarmente) da endecasillabi e settenari, alternati secondo uno schema fisso. Come se non bastasse la costrizione metrica, il trobar clus di questo capitolo dà sfogo a un furioso espressionismo (la sequenza dei titoli è sintomatica) che concentra in pochi versi non soltanto la vicenda già di per sé fortemente allegorica di una degenza ospedaliera (sulla quale si innestano altri temi), ma anche l’intera gamma delle soluzioni sperimentali finora adottate: tmesi, allitterazioni, rime, anagrammi, neologismi, decostruzioni semantiche e lessicali, ardite agglomerazioni di immagini e di simboli, scatti ellittici… insomma, una vera e propria colata lavica nella forma chiusa appena accennata[2].
Dopo il picco della sezione L’urlo, il lettore avrà certamente la sensazione di avventurarsi lungo una china molto meno impervia. Si tenta qui, dopo la devastazione del trauma e il pericolo della morte, un più pacato recupero dei ricordi d’infanzia e della giovinezza, età felici e mitiche, appena turbate dai primi presentimenti della vita e dalle scoperte adolescenziali, ma perdute per sempre. Il concatenarsi dei flashes poetici consegna all’immaginazione non soltanto una serie di scene quotidiane cariche di significato (si tratta di vere e proprie falistre sospese nel loro alone simbolico: il vocabolo nel dialetto altopolesano della madre indica tanto le faville quanto, metaforicamente, i fiocchi di neve), ma anche un inventario (montaliano e gozzaniano) di oggetti (il paiolo, il sapone, il secchio, il calendario, i libri, i tegami poveri di latta), di luoghi, di nomi, di voci e di sensazioni quasi fisicamente sottratte all’oblio, con un gusto per la concretezza (dopo tanta astrattezza verbale) francamente esibito: «annusa / la terra bagnata nelle mutande». Pur non cedendo a una introflessione crepuscolare, è evidente che in taluni passaggi ci si approssimi all’ipnotico fonosimbolismo pascoliano: «domani lo ritroverai. / Un altro scalino, dài. / Un altro scalino e poi: dormi, dormi… / Ma non si arriva mai?, / Fate, angoli-angeli dietro lo specchio, / nel secchio, / fateci arrivare in cima alle scale / sotto le lenzuola, a letto».
Si definisce pienamente attraverso questo capitolo anche il passo fiabesco con cui il poeta riannoda le «intermittenze del corpo» attraverso le quali il vissuto riaffiora: «C’era una volta la finestra aperta», «– Ora andiamo al paese delle meraviglie» ecc. Si tratta comunque, più che di una mera inflessione dettata dal flusso della memoria, di un innesco tipico dell’immaginazione, anche quando essa non è volta del tutto al recupero del passato ma suggerisce, come nelle parti precedenti o nei libri successivi, gli sviluppi del discorso poetico (a tratti un vero e proprio “poetar fabulando”, ancora una volta prossimo a certe soluzioni zanzottiane).
La rivisitazione del passato e la riscoperta di un intero mondo permettono al poeta d’infrangere il solipsismo della scrittura, tanto che se, fino a ora, il corrispettivo esatto del foglio su cui si esercitava e sfogava l’impulso creativo era in definitiva il corpo dell’autore (l’apice di tale identificazione si aveva, lo ricordiamo, nel cuore della sezione L’urlo: «Carta, / carne assorbente vita / incartapecorita»), ora lo schermo sul quale proiettarsi pare divenire più propriamente il paesaggio. Si tratta di una conquista che avvia una fase nuova (avviata con Falistre, anche se lì ancora il poeta ridava vita a un paesaggio della memoria), che ha notevoli ripercussioni sul piano stilistico: la poesia diviene più semplice e scorrevole, le immagini oggettivano uno scatto lirico più sereno e disteso. Il componimento che apre Il portico sonoro svolge perfettamente la funzione di indicatore di tale sviluppo. Vale la pena leggerlo per intero, anche per confermare il nuovo registro espressivo dominante:
Ho dei semi con me, di Maria di basilico
e di pomodoro, nel mio buio, e tu sei
l’acqua il sole la terra, il giusto
letame che li farà germinare,
sei la luce in cui sfoceranno
come parole cresciute sul foglio
tra le erbacce delle cancellature;
parole scritte, ma
profumate e piccanti.
Mentre l’ultima affermazione ribadisce il gusto per la concretezza del dire, prima raggiunta pienamente con Le falistre, la poesia si costruisce su una similitudine apparentemente facile e priva di conseguenze macroscopiche, dal momento che l’attenzione è colpita dall’attacco ben riuscito della poesia, il quale sembrerebbe riproporre in modo subliminale anzitutto il tema amoroso, anzi propriamente erotico, già manifestatosi nel libro precedente. Ma, proseguendo nella lettura, il paesaggio continuerà a manifestarsi compiutamente dando ragione a quella similitudine, posta non a caso in apertura. Nemmeno a Zanzotto è sfuggita la particolare valenza del tema, centrale, della natura: «C’è in questo atteggiamento verso la natura, come […] per altri poeti di una koinè panveneta reale, un mito che si coagula in immagini, le quali suscitano poi una mobilitazione del ritmo e della sintassi. In tali onde ritmiche generate da una forza vitale intima si assiste al crearsi del mezzo espressivo e dell’invenzione mentale che si manifestano a emersioni, eruzioni-sorprese, dopo rotazioni, scatti violenti, strappi. È tutta una serie di blande allusioni che poi svelano improvvisamente allucinazioni che sono anche incontri reali, lungo un cammino e un processo che potrebbe essere reversibilmente pisichico e “geografico”: ma che qui sfocia nella spigolosità pura e pungente della poiesis». Inutile dire che esempio primo di tale atteggiamento e campione massimo della koiné panveneta è lo stesso firmatario delle affermazioni, ma si potrebbero ricordare qui una serie di altre figure minori, rappresentate per esempio da Luciano Cecchinel e, soprattutto, Luciano Caniato, ai quali Munaro è vicino in un sodalizio testimoniato dal volumetto Il potere, l’urlo, l’erta strada, ma anche da dediche varie, reciproche note critiche e altri indizi.
Siamo a Vaso blu con narcisi. Si sottolinei pure, preliminarmente, che se Il portico sonoro fin dal titolo non solo rimandava a Omero (si veda la nota in fondo al volume), in una sorta di prima proiezione verso gli spazi del mare veneto tesi a un oriente suggestivo gravido di attese, ma rappresenta pure un omaggio allo scultore Gino Cortellazzo e al musicista Sergio Fedele (lo si apprende dalla bandella), parimenti Vaso blu con narcisi è sigla che si armonizza perfettamente con lo spirito di cooperazione fra diverse arti che sorregge l’idea stessa del libro, nel quale le poesie sono giustapposte alle riproduzioni dei Riflessi simmetrici di Silvia Carnevale Miino. Si accolgono dunque suggestioni in particolare dalle opere figurative, come dimostra l’atteggiamento verso la materia linguistica, spesso forgiata a guisa di elemento concreto, spiegata sulla pagina con estrema attenzione per il surplus iconico che può dare. Non solo: «la possibile verità letteraria è qui stupore nella nudità di paesaggio e atto, del gesto con il quale musica e pittura, quasi dono originario, partecipano al metamorfico di aura classica e moderna crudità. Da spogli echi scintillanti di teatro orientale a presenze dialettali, da forme che ammiccano a una sorta di haiku a stilemi o fascini primonevecenteschi, il cammino della poesia viaggia dall’ascolto alla cadenza della nenia, nel garbo dell’immagine come nell’energia del pensiero». Ci troviamo di fronte, dunque, a un concentrato di possibilità espressive molteplici, come indicano le parole di Cappi nella prefazione; suggestioni tutte raccolte a partire da un orizzonte domestico, che non spezza il rapporto salvifico che il poeta ha instaurato con la natura attraverso un paesaggio ben determinato, per quanto ampliabile ad libitum su diversi fronti (e se Venezia guarda a Oriente, l’attenzione si può anche spostare improvvisamente, come avviene in Vaso blu con narcisi, verso l’entroterra padano: si veda Il verde, componimento dedicato non a caso ad Attilio Bertolucci). Il vaso è un perfetto emblema della capacità di raccogliere e tenere insieme elementi eterogenei, come per comporne, classicamente, un dono votivo (e la poesia finale si intitola Stremati doni…). Un dono a chi? Alle molte persone cui sono esplicitamente o implicitamente dedicati i testi (si pensi al dittico familiare che ha per tema la maternità e l’immagine del figlio), ai poeti chiamati in causa di volta in volta nel solito, fitto e criptico dialogo intertestuale, ma soprattutto alle figure parentali, tra cui spicca quella materna. Il vaso-silloge è allora anche un’urna in cui raccogliere le ceneri della storia personale. «Nature mortevive» è la definizione escogitata dall’autore medesimo.
C’è dunque piena sintonia fra Il portico sonoro e Vaso blu con narcisi? Direi di no, per il carattere maggiormente composito del secondo volume che, se da una parte continua a lumeggiare quella sorta di aura classica che sostanziava il dettato a tratti quasi apollineo (benché derivante da temi e tensioni stilistiche diversi finemente intrecciati) del Portico sonoro, dall’altra si concede margini espressivi che lasciano riaffiorare un certo sperimentalismo, vuoi perché qui i registri della filastrocca, della fiaba, della citazione dotta ecc. risultano più corposi e quindi meno amalgamabili, vuoi perché la lingua di Munaro torna momentaneamente a opacizzarsi, a farsi intransitiva, subendo inevitabilmente la tentazione del dialetto. Sostiamo un poco su questo nodo importante. Nel Portico sonoro il soggetto si proiettava senza indugi nel paesaggio e recuperava solo in una dimensione metapoetica, ma sempre cristallina, la malia dello strumento espressivo: le parole sono semi nella terra-foglio solo attraverso una innocua similitudine; i nomi verso i quali si indirizza l’amore del poeta non sono feticci attorno al quale costruire immaginifici pezzi di bravura, ma entità eteree («come una palpebra chiusa scrive / la 4a lettera del tuo nome: S»). In Vaso blu con narcisi, invece, ritroviamo la ricerca iconica che modella il testo, l’adattarsi della sintassi a ritmi differenti, l’esplodere stesso delle sillabe in un gioco palazzeschiano: Ma me mi. Soffermiamoci sulla corona poetica così intitolata. Il ritornello che lega i sei quadri è rappresentato dalla libera e apparentemente casuale ripetizione delle sillabe del titolo (alle quali si aggiunge li) in una sorta di nenia oracolare dalle innumerevoli combinazioni possibili, che solo alla fine presenta mutamenti sensibili, come se un senso si annunciasse finalmente («me mi / te, me / ma e mi / li A). Si tratta evidentemente di un punto limite toccato dall’autore: la sensazione è che tale glossolalia (è possibile un confronto con il Testori di Factum est?) rientri come espressione del tratto fiabesco della sua opera, tant’è vero che la serie si occupa di delineare il profilo di individui («Di me», «Di lei», «Di lui», «Di te» ecc.) idealmente accolti in un’unica storia, una mini-saga familiare, come conferma l’analoga strategia espressiva adottata poi per la poesia La famiglia Munarò. Torniamo quindi nel pieno fervore di soluzioni sperimentali, benché meno espressionisticamente irretite che in passato, mentre anche la natura esibisce il suo rigoglio tracotante e le rose canine, le ortiche, le malve, le melagrane compongono una selva di presenze analoga a quella zanzottiana fatta di vitalbe, topinambur ecc.
Il riproporsi della ricerca linguistica riacutizza, dicevamo, la “tentazione del dialetto”. In effetti, all’italiano terso del Portico sonoro fa riscontro qui non soltanto una sintassi maggiormente sbalzata, ma anche frequenti ricorsi al vernacolo; addirittura, se in precedenza il poeta aveva fatto uso di singoli lessemi, ora si giunge anche alla stesura di un’intera sequenza dialogica (si tratti pure di una filastrocca). Si comprenderà meglio, adesso, l’affermazione di Zanzotto premessa al Portico sonoro, allorquando il trevigiano indicava alle spalle del poeta l’esistenza di una koiné veneta: come poteva un autore tutto sommato rigorosamente fedele all’italiano, associarsi a tale matrice? Quello che poteva sembrare una comunione soltanto ideale, ora si intuisce ben più complessa. Tanto da poter insinuare che la maturazione stilistica di Munaro verso un maggior nitore espressivo (raggiunto con Il portico sonoro) sia il risultato di una diretta influenza del dialetto, della sua meno problematica adesione al mondo (vera o presunta che sia). Vale la pena ricordare che egli si era espresso intorno al tema in un intervento interessante, Perché non scrivo in dialetto [3], che tuttavia lasciava trapelare il fascino subito dalla «lingua dell’affetto», perduta irrimediabilmente. Ma in Vaso blu con narcisi il nodo è affrontato di petto in Sèt mat?, poesia rivolta a Luciano Caniato, di cui citiamo gli ultimi versi: «E ti scrivo sul corpo morto di / questa lingua, anche se qua e là squassato / da singhiozzi e graffi, strappi di tendini / e nervi che, pizzicati, suonano. / Tu ascoltala, ti prego, nella lingua / dell’affetto – che io ho perduto». Facendo un consultivo della propria esperienza (e viene in mente Botta e risposta I di Montale), il poeta in fondo ammette di dialogare con un’altra lingua, che si apre come un pozzo sotto alle parole italiane che usa e che di tanto in tanto si rispecchiano su quel fondale nero, traendone magari il beneficio di un’improvvisa, rigenerante freschezza.
NOTE
[1] Cfr. Andrea Zanzotto, Sovrimpressioni, Milano, Mondadori 2001, pp. 35-36; per una più dettagliata analisi intertestuale fra i due si rinvia invece a Impressioni su “Sovrimpressioni” di Maurizio Casagrande, «Tratti», XVIII, 59, 2002, pp. 87-96.
[2] E per una lettura più esaustiva di queste poesie rimandiamo al saggio Il genio della lampada di Luciano Caniato, accolto nel volumetto Il potere, l’urlo, l’erta strada stampato per conto della Biblioteca Comunale di Este nel 1994.
[3] «Atelier», V, 19, sett. 2000, pp. 75-78.
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