Poeti contemporanei: Giancarlo Sissa
Il titolo ammaliante che Giancarlo Sissa ha scelto per la prima raccolta unitaria, Laureola (nome di una pianta velenosa, ma anche possibile senhal tanto dell’amata quanto, in modo canzonatorio, dell’aura che investe la scrittura), molto bene si adatta a un disincantato canzoniere, tanto lieve nella scansione ritmica libera e a tratti persino melodica, quanto intenso «nella sua sincerità priva di pudore» (per riprendere un’espressione dalla postfazione di Alberto Bertoni).
Il tema amoroso è indubbiamente il fil rouge dell’opera, tale però da raccordare occasioni diverse che si snodano non solo attorno a un presente o a un passato prossimo resi assoluti, ma lungo un più ampio percorso di formazione, che giunge al recupero dell’infanzia per associazioni mnemoniche, evocando anche più di un interlocutore (il “tu” ideale, suggerito dal titolo stesso, anche se il libro porta il nome di Cristina in dedica, non sarà né esclusivo né immediatamente definito).
La scena, deliberatamente idillica e crepuscolare, su cui si apre la prima sezione eponima (preceduta da un introito costituito da un breve testo, che come una nota grave anticipa il tema che verrà in seguito ripreso e sviluppato), è in tal senso esplicita: «Ora ricordo meglio, / il tè caldo dopo i compiti / nei pomeriggi invernali, / la mollica del pane comune, / l’imposta che sbatte: // le castagne, il biancospino, / i giorni della merla, figure / dal libro delle elementari / posato sul mio tavolino, / bambino disegnavo // già poeta, già cretino». La clausola ironica diventa spia non soltanto di un modo di poetare tendente al melos e alla leggerezza, ma anche della creazione e rappresentazione di un personaggio autobiografico, che trova nella poesia di Giovanni Giudici il conclamato antecedente, chiamato esplicitamente in causa nel finale di due poesie contigue: Ripassiamo, con la goccia e Nel profumo di crema e tisana (nella prima evocato confidenzialmente, ma con rispettoso distacco, per nome, nella seconda ricordato con il titolo della sua opera: «in cucina, leggo e rileggo / “La vita in versi”»).
L’intenzione di foggiare la materia poetica come, appunto, una vita in versi, ammiccando circa la figura del poeta «cretino» e della giovinezza còlta nel suo ambiente piccolo-borghese e provinciale, indugiando, non senza compiacimento (si vedano a proposito i numerosi diminutivi), su un inventario di oggetti e luoghi domestici (in particolare la cucina), abiti (il gilè di lana e i calzoni corti, il grembiulino) e momenti topici (pomeriggi invernali, dopo-scuola) fin troppo convenzionali in apparenza, ma giustificati dalla professione di educatore e operatore sociale svolta dall’autore, incide profondamente dal principio l’idea, affatto petrarchesca, di un canzoniere d’amore e di formazione psicologica radicato in un’esperienza non di assenza dell’amata, ma tutt’al più di perenne disvelamento dell’alterità sempre mancata e perduta. La sincerità autobiografica risulta pertanto miscelata alla letterarietà del personaggio istituito, l’io poetante, e la scrittura sarà «nutrita di echi letterari diffusi e consapevoli, da una tradizione francese novecentesca altrettanto distante dai simbolisti maggiori come da Bonnefoy, fino alla rilettura critica di un albero genealogico italiano che costringe coppie quali Govoni/Palazzeschi o Penna/Caproni nell’alveo ben determinato di un canzoniere d’amore. Autobiografia e desiderio si saldano così dentro una cornice di ascendenza trobadorica, ove il manque amoroso viene trasferito ad una dimensione rituale e spesso metapoetica […]. Ed è allora palese che il punto eminente (e più vicino nel tempo) di modello intertestuale andrà riconosciuto nel Salutz pubblicato da Giudici nel 1986» (Bertoni).
Già caratterizzante e tipico sarà invece l’andamento prosodico: i versi non eccedono quasi mai l’endecasillabo e giostrano principalmente (ma liberamente e mai scanditi in maniera squillante) attorno alla misura settenaria o altre unità brevi e incalzanti. I versi, spruzzati di assonanze e di rime, nella maggior parte dei casi facili ed esibite, si snodano sulla pagina con una certa cantabilità. Raramente riemergono anche lasciti lessicali ricercati o di alta estrazione letteraria (capelvenere, s’ingioia, enrosadira) e qualche apocope (tremar dell’autunno, lor frulli), fatti cozzare con vocaboli prosaici (cognac, lavandino, televisore, nafta, birra, salviette, edicola).
Nondimeno, i registri tonali non si esauriscono in questa liricità stilizzata, ma si dilatano verso una problematicità d’immagini e di riflessioni con minori concessioni al personaggio letterario e sviluppano in tal modo la levità in gravità sospesa. Così accade inizialmente con la sola poesia All’inizio sembrerà che noi, in seguito questo registro meno ariettistico prenderà il sopravvento, riscattando la poesia da un eccesso di manierismo.
Si profila così, nell’alternanza di questi due registri, il “tu” cui colloquialmente il poeta si rivolge, nell’imminenza di un autunno in cui «il tempo avrebbe voltato / verso la neve, senza esitare, / verso il passato». L’interlocutrice si presenta essenzialmente come spazio vuoto e inconoscibile in cui l’io si rispecchia, con i suoi tic e manie (la poesia, una certa inettitudine, il vizio di bere): «… l’irrisolta / ribellione dei miei vent’anni, / porta pazienza, pensa / che nemmeno ho bevuto / resto in cucina a scrivere / e pensare, dove disegnavo / bambino, facevo le ricerche / per scuola […] è l’attenzione alle cose / minime, alle cose minime / voltiamo le spalle, / ecco, ora magari dormo / ancora un pochino, per favore / se mi chiami a un quarto / alle dieci, sorridi, ma intanto / magari tu guarda, lo si vede / da lontano, si vede da qui / quanto ti amo». Ma, talvolta, l’identificazione sarà talmente forte che il poeta non esiterà a fare propri versi o parole dell’amata, perfettamente amalgamati nel testo e mai escplicitati in un dialogo.
Per motivi di viaggio s’intitola la seconda sezione, che nella scoperta occasionalità e varietà di ambientazione appare talvolta stilizzata anche nei dati cronachistici, talvolta descrittivamente immersa nella «prosa del mondo», per usare un’espressione cara a D’Elia, che non a caso è ricordato nelle note.
Un frammento di due strofe, Come dedica (il libro risulta così introdotto, intermezzato e chiuso da una poesia breve in corsivo), presenta la sezione Per l’ottobre che non eri, nella quale si impone decisamente una più risentita espressività lirica: «(…) / mia non indovinata allora / sguardo stronza mare voce / tu mio graffio che innamora / tu l’aceto sulla croce // fra le cosce tua rosa ieri / rabbia mia meravigliosa, / per l’ottobre che non eri / (…)». Si tratta della sezione più drammatica, con qualche licenza di accenti forti e volgari: «seduttore del cazzo / e canaglia» (riferito a un «amico»), «curiosa penetrazione / o incendio di spine / al tormento di fine / peluria sotto l’ascella», ma anche con poesie compiutamente efficaci, come Nel cenno delle ciglia, Fiocconeve snidato, Ora vieni che di lontano. L’amata acquista un profilo accentuato, pur restando sfuggente e ambigua nei caratteri fondamentali, e mette in crisi il rispecchiamento dell’io, lacerato ormai da una msiteriosa colpa (della quale versi ed espressioni come «tu qui, / insulto e nostalgia», «fuoco reo», «Tu Gaudì, il traditore», «a te mi scrivo penitente», «mio amore e disonore», ne sarebbero alcuni indizi) e persino di una perdita, intesa come precedente dimensione irrecuperabile («oggi, / se la stessa sei / che mi ha baciato / Laureola d’onore / che tento e stringo / o curva del batticuore / per pietà, pietà / di tanto amore»; «Ed ho riso, mi è sembrato, / […] fino a sputarti dal cuore») che incendia l’espressionismo linguistico e inasprisce il tono (ma non saranno sfuggiti i topoi tradizionali che delimitano anche i momenti di maggiore accensione). Così sarà fino all’ultima poesia della raccolta, isolata in una sezione che riprende il senhal di Laureta, dove la conquistata distanza elegiaca traluce in una più sobria compostezza: «Ora che anni sono trascorsi / fra i rami di ghiaccio, guarda: / ci sono mele nel nostro giardino, / portale per disporle sul tavolo / come fiori al silenzio di neve».
Con Il mestiere dell’educatore, il libro successivo, Sissa prosegue nella dissoluzione dell’eccesso melodico che a tratti affiorava nei versi precedenti aumentando l’attrito fra la tecnica compositiva (per la quale sarebbe fruttuoso, forse, il confronto anche con il conterraneo Alberto Cappi), che resta immutata (con l’innesto, semmai, di molti vocaboli aspri e volgari: cazzi, coglione, pirla, per trarre qualche campione solo dalle prime poesie), e i contenuti, più risentiti e anche civili, insomma con un tono più stizzito se non proprio iroso. L’atteggiamento da poeta-personaggio mutuato da Giudici comporta una dose di autoironia tale per cui le nuove corde toccate non smentiscano la sincerità di fondo, vale a dire il disincanto complessivo che deriva da umiltà e consapevolezza, perciò anche gli affondi più critici devono trovare un contraccolpo che bilanci il tutto: «salta sbraita impossibile / farsi ascoltare un terrorista / un sabotatore – trentotto / anni: scrivo, pastrocchio / faccio l’educatore». Eccoci, dunque, ancora di fronte al nodo irrisolto, tipicamente novecentesco, dell’intellettuale che non ha più ruolo e riconoscibilità, del poeta che ha perduto l’aureola (ricordare il precedente titolo complessivo), dell’uomo di cultura (saturo di sapere e ormai costretto a elaborarne una di secondo grado) che «invidia / la verità dell’operaio / la fatica del muratore». Eccoci di fronte all’impasse di dover giustificare tutto: tanto la propria realtà sociale che a molti parrà risibile («Del resto non ho nulla / in contrario a che mi pensino / una specie di lupo solitario / uno sconfitto dalla vita») quanto la pretesa di comporre versi (sintomatico il titolo di una sezione: Auto da fè). A tratti, il dilemma sembra superato nel momento in cui il poeta presta maggiore attenzione alle storie che decide di raccontare, narrando, appunto, il mestiere dell’educatore; solo che il coinvolgimento emotivo fa scattare l’impulso lirico e attraverso di esso risolleva il problema della gestione del personaggio: «Ora custodisci se puoi tu / la mia vergogna il disonore». Resta comunque l’acquisizione, dentro al sistema di questa poesia, della presenza del male e anche del dolore fisico (Prima della tac è giusto un capitolo), pungolo che permette accensioni notevoli a volte anche prossime alla preghiera, quando maschera del personaggio e volto dell’autore si autoannullano di fronte a spinte non più controllabili («o voce viva solo per procura, / non per amore detta / ma per paura») e risultano, cioè, indifferenti rispetto al naturale fluire della poesia, quasi inconsapevole, stupita di sé.
(da Poeti nel limbo)
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