quando qualcuno, tra decenni, tenterà di impalcare una storia plausibile della poesia del nuovo millennio, dovrà avere il coraggio di dirlo, che Borgomanero è stata come la Parigi di Joyce, come la Vienna di Klimt, come la New York del Moma
Le grandi imprese partono dai luoghi periferici, osannati dall’esilio. Borgomanero è un paese infelice, sulle rive plumbee del torrente Agogna, a uno sputo di cemento da Novara, benedetto dall’odore acido del Lago d’Orta. Eppure, quando qualcuno, tra decenni, tenterà di impalcare una storia plausibile della poesia del nuovo millennio, dovrà avere il coraggio di dirlo, che Borgomanero è stata come la Parigi di Joyce, come la Vienna di Klimt, come la New York del Moma; che l’appartamento all’ultimo piano dell’anonima palazzina in corso Roma ha avuto un ruolo pari a quello delle Giubbe Rosse a Firenze, canonico bar dove i futuristi facevano a botte con i vociani ed Eugenio Montale discuteva, sornione, con Mario Luzi. […] L’ambizione di questi «artigiani della parola» si è posta, fin dal principio, in diagonale rispetto alle cricche dei poeti laureati, dei lirici con busta paga sindacale, in ostilità verso «i luoghi in cui si mercanteggia la parola e la poesia si tradisce: premi, riviste, Case Editrici, giornali…». Sappiamo cosa è accaduto: “Atelier” è diventata una incubatrice di genio, spalancando una collana in cui hanno esordito alcuni dei poeti più interessanti del millennio Continua a leggere