Tra piranha e sirene. Pensieri alla spicciolata sulla mediocrità in letteratura
Nessuno si salva da solo, scrivevo. Eppure, rintanati come cavernicoli nei nostri social, quando la giovinezza interiore rimorde ci perdiamo in rivoli di pseudo-discussioni nei commenti inconcludenti di qualche post – prima di picchiarci sulla fronte e ripeterci che è inutile sprecare tempo ed energie, già si dorme poco e la vita non dà tregua, c’è da ridipingere la parete, comprare il mangime per il cane, scarrozzare i figli, andare a trovare i parenti almeno durante le feste, ecc. ecc.
Intanto Proust in posa sulla copertina dei suoi volumi sullo scaffale ostenta un’infinita, strafottente pazienza.
Giovinezza interiore? Ma che stupido cliché.
I giovani hanno voglia di uscire, di incontrarsi. Non temono il tempo e i chilometri. Esplorano eccitati territori ignoti. Stringono amicizie in un lampo. Non esitano a cambiare gusti, a contaminarsi, a rinnegare ciò per cui combattevano fino a ieri.
Sul web ci si può concedere al massimo l’apprendimento solitario – stando attenti a dribblare gli algoritmi che finirebbero per compiacere con risposte che già si conoscono. E occorre, per non perdersi nella corrente, tenere saldo un braccio sullo scaffale dei classici.
Proust, sei ancora lì?
Io ho avuto la mia giovinezza letteraria, e non ne ho nostalgia. Ho dolore semmai per il frutto che volevo portasse in dono, e che non c’è stato. Ma chi non cresce attorno alla cicatrice di ideali fraintesi, misconosciuti, traditi, fottuti dalla storia?
La letteratura ha addirittura anticipato di decenni la logica del talent show. Di tanto in tanto lancia qualche giovane talento. In questo modo, controlla l’intero circuito. Il Nuovo Autore dovrà allinearsi, ripetere il repertorio, illudersi di essere lui a gestire contenuti forme ritmi, bearsi della propria bravura – se vuoi fare parte del circo. Vallo tu a spiegare che la vera ricerca bazzica da altre parti…
Ai margini di questo circuito per eletti, vige la logica dei piranha e delle sirene.
La legge dei piranha è semplice: o tutti o nessuno. Se c’è un talento, se qualcuno pare pronto a emergere, andrà sbranato.
I piranha sono gregari e vivono in acque dolci. Nell’immaginario collettivo, almeno per chi ha una certa età e ne ha visto alcune rappresentazioni cinematografiche, sono una specie aggressiva e terribile. In verità un piranha non si permetterebbe mai di attaccare uno squalo o una balena, un maestro riconosciuto, insomma, che del resto esplorano tranquilli il mare aperto. Da solo, il piranha, sarebbe anche un pesciolino simpatico, ma i suoi denti aguzzi diventano mortali, quando il banco attacca, tanto che “alcune centinaia di individui possono spolpare in pochi minuti una pecora o un cavallo”, ci erudisce wikipedia, non senza sottolineare l’utilità di questo pesce: “svolge un’importante funzione di ‘spazzino’ del fiume, eliminando le carcasse di animali morti, evitandone la putrefazione e mantenendo pulite le acque”. Il piranha, dunque, conosce benissimo l’arte del mordi e fuggi. Un like di qui, una critica mordace di lì. Un pensierino sardonico da questa parte, una strizzatina d’occhi dall’altra. La ferocia è rigorosamente camuffata.
Quando qualche saggio allevatore vuole comunque attraversare fiumi infestati da piranha (giacché di tanto in tanto serve nuova erba da brucare), usa la tecnica dell’agnello sacrificale, o meglio, stando alla cultura popolare brasiliana, al boi de piranha. Per la transumanza delle loro bestie, certi vaccari insomma scelgono uno dei loro tori vecchi o malati da sacrificare: lo abbattono e ne gettano in acqua il corpo sanguinante, così, mentre i piranha si sfamano attorno a un idolo decaduto, passano indisturbati con la loro mandria.
La versione femminile è quella delle sirene: artiste fatali, che si compiacciono nel compiacere l’immaginario maschile, mentre pretendono di andare oltre il femminismo. All’opposto dei piranha, non tollerano la prossimità di altri individui della stessa specie: la competizione sarebbe evidente e straziante. Se guizzano una accanto all’altra è solo un’illusione, semmai si tratterà di un incrocio di traiettorie per la ricerca di banchi di piranha, da cui le sirene sanno farsi titillare. Per raggiungere tale obiettivo, elaborano un unico tema, nelle loro diverse melodie e lingue: il corpo.
Spesso hanno la cattiveria e la determinazione che i maschi hanno perso da tempo, soprattutto se nei selfie non vantano l’avvenenza di altre sirene, per cui devono investire tutto sulla venerazione del corpo letterario e del loro armamentario ideologico. In tal caso possono anche recuperare le battaglie del femminismo, che evidentemente è ben lungi dall’aver esaudito le proprie istanze.
Ci sono dunque due partiti ben distinti, all’interno delle specie di sirene. Il problema è che ogni singolo esemplare pretende di esautorare il potere del fronte opposto, per cui non è più possibile distinguere chi stia da una parte e chi dall’altra. Questa continua invasione di campo genera vortici, incantamenti, qualche illusione d’opera d’arte che abbia catturato un archetipo. Ma tutto passa in fretta, e appena le acque tornano calme, riecco i banchi di piranha, che isolano e scortano le sirene, fra loro amichevolmente ammiccanti d’odio puro.
Raggiunto il mare aperto, i piranha tornano indietro, verso la Grande Madre, e le sirene vengono abbandonate al loro destino d’inesorabile imbruttimento, accelerato dalla salinità delle acque.
Ma io ho già avuto la mia giovinezza, dicevo, per cui mi scopro infastidito, quando qualcuno si lamenta dei bei tempi che furono o si chiede se è possibile riaprire un luogo di dialogo, oggidì. Perché il rito si compia nuovamente, occorrerebbe un corpo sacrificale: qualcuno che accenda il falò e ci si butti sopra, per ardere e alimentare la fiamma.
Ne varrebbe (ancora) la pena?
Intanto, molti, abbrustoliti, si allontanerebbero subito. Oggi la massima luce sopportabile è quella di un display in cui specchiarsi. Attorno al falò – quello sacro dell’arte – ogni ricerca di conforto viene elusa, perché c’è spazio solo per l’inquietudine, per la contemplazione del mistero, per la spinta evolutiva verso l’ignoto. Il riconoscimento della propria bravura (ché, serve anche quello) diventa un modo per inchiodarti alla responsabilità di esserne all’altezza, con il tuo lavoro e con la tua vita. Questo, in effetti, facevo con gli amici, questo chiedevo agli amici. A turno, in mezzo ad ascoltare il canto ammaliante, purché gli altri remino con le orecchie turate, sordi alle suppliche.
A nessuno piace il ruolo del martire fondatore. Figura sospetta, oltretutto. Per questo è fondamentale circondarsi di persone in grado di mettersi a turno sulla brace, affinché tutti, bruciando pur in diverso modo, continuino ad alzare la posta. Ma se il patto viene meno, il gruppo funziona finché è comodo usare il leader come testa d’ariete. La tecnica è facile. Appena il recinto è stato sfondato, appena si sente aria di riconoscimento, basta defilarsi, guizzare altrove, dimettersi da ogni responsabilità.
Nessuno si salva da solo, ripeto. E allora ognuno si tenga stretto i legami che contano. Non c’è comunità, ma appena qualche filo di ragno contro la bufera. Dopo la giovinezza, di rapporti autentici, nel mondo letterario, a me per esempio ne restano pochissimi, da non riempirne una mano.
E tu che leggi, chi sei? Che vuoi da me − ovvero da te stesso?
Se sei un piranha, attento: ormai sono corazzato contro i tuoi dentini. Ciò che di me resterà è imprigionato totalmente dentro le mie opere: bara di Queequeg ondeggiante nell’oceano. Seguimi pure, se ti va. Aggrappati.
Anni fa ti avrei offerto una branda e prestato qualche libro. Ora non ti resta che pigiare il pulsante e accendere le notifiche. Altrimenti, vai per la tua strada, leggero. Non leggerò nemmeno le opere con richieste di consigli, perché oggi ridivento maestro di nessuno, ovvero di me stesso.
Imperterrito apprendista. Eterno principiante.
Seguimi a distanza, dunque, se credi che possa esserti utile.
La regola è solo una: bruciare.
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