Forme chiuse e aperte

Superamento delle forme chiuse?

Altro lascito novecentesco (oltre al frammentismo) che mi ha profondamente interrogato durante questi decenni è il (presunto) superamento delle forme tradizionali. Il discorso sarebbe ampio e sfumato.

Ma, per limitarmi al racconto della mia esperienza per sommi capi, rimasi a suo tempo colpito (ero allora, alla fine del secolo scorso, prima un adolescente al liceo e poi uno studente universitario, e già sperimentavo istintivamente le più varie strutture metriche), quando scoprii che nella nostra letteratura contemporanea spiccava una poetica di netto recupero della forma. Madrina di questo “neometricismo” era stata Patrizia Valduga. (Semplifico un po’ il discorso, lo so: il recupero delle forme è sempre stato presente nel Novecento, dal ritorno al canto della lingua italiana in Ungaretti alle terzine pasoliniane ai sonetti caproniani o gli ipersonetti zanzottiani, e così via, ma verso la fine del Novecento il fenomeno si è fatto più esteso, condiviso, per cui lo schemino del mio ragionamento dovrebbe risultare credibile). I versi di Valduga mi parevano esibiti, tecnicamente tutt’altro che impeccabili. Aveva, ai miei occhi, riscoperto l’acqua calda. Però a un certo punto anche Giovanni Raboni si “convertì”. La sua provocazione teorica era tanto semplice quanto determinante: sempre più sommersa dalla molteplicità di linguaggi e dalla moltiplicazione di proposte all’interno della stessa produzione letteraria, la poesia doveva difendere i propri tratti distintivi più forti, per restare riconoscibile e quindi non farsi travolgere dall’estetizzazione globale. Da qui il recupero del sonetto, per esempio, o comunque di un grado di formalizzazione più evidente. Ecco, questo coincideva con ciò che, spontaneamente, stava avvenendo nella mia ricerca.
Anche in questo caso, però, sentivo di dover “attraversare il Novecento”, non semplicemente negarlo. Come dare voce a questa esigenza senza ricadere in un formalismo vacuo? La forma non va imposta dall’esterno, deve germinare dall’interno, deve aderire al contenuto, fino a non potersi separare da esso.
A un certo punto, mi è sembrato di cogliere il pertugio perfetto per mediare le esigenze di un maggiore rigore formale e di una libertà espressiva a cui non si poteva più rinunciare, nella forma (opportunamente rivisitata) della canzone. Ogni strofa generava la propria forma e la propria misura. Nel caso, strofe pari e strofe dispari differenziate potevano ampliare il margine di libertà. Nacque così il libro einaudiano.
Ma la tensione tra forma chiusa e forma aperta è sempre rimasta viva, in me. Non era possibile evitare il senso di saturazione, se non proprio di disgusto rispetto alle forme chiuse, che un poeta finisce per provare, dopo una tradizione classicista di più secoli, in un contesto così radicalmente mutato. In tutte le arti, abbiamo assistito alla rottura di ogni argine. Io stesso, a fronte della necessità di chiudere, di stringere il discorso, di lottare fino in fondo con le parole, percepisco altrettanto nitidamente un desiderio di assecondare la libera fermentazione della materia, quando ho l’impressione che nasca in qualche modo già disciplinata, che abbia una sua educata naturalezza.
Nel mio nuovo libro, a conferma di tutto ciò, riscontro effettivamente una certa alternanza, un equilibrio tra versi “tradizionali” e versi “liberi”. A parte il poemetto in endecasillabi, a fronte di 32 componimenti liberi, ce ne sono altri 22 in forma chiusa: 15 canzoni, 1 ballata, 1 sestina, 2 poesie che rispondono a un’esigenza compositiva che, spero, prima o poi il lettore troverà da sé, e 3 poesie con una struttura chiusa un po’ particolare, forse di mia invenzione (esempio di come, assecondando la materia che si struttura tra le tue mani, essa talvolta trovi una propria forma).
Pure curiosità nomenclatorie.
Resta da notare che la distinzione non è poi così netta. I “versi liberi” non esistono. E, in effetti, le 32 poesie “aperte” sono nel mio caso composte da endecasillabi e settenari, con qualche quinario e qualche doppio settenario. Pochi versi sfuggono effettivamente a questa regola (ma quando, ecco, mi si imponeva una necessità formale imprevista, l’ho sempre accolta).
Chissà se il lettore, sfogliando il mio libro, si accorgerà di queste oscillazioni; chissà se percepirà movenze rigide e retoriche, nelle forme più chiuse. E chissà se questo mio mettermi nel mezzo, tra la libertà, l’ibridazione dei linguaggi, l’abbandono del verso a favore di una dizione poetica vicina al grado 0 in prosa da una parte, e la ripresa sfacciata, convinta e spiccatamente formalistica e sperimentale delle strutture chiuse è una scelta coraggiosa e sensata oppure una mancata presa di posizione.
(Ma ha senso parlare di scelta?)

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