Cento volte Atelier: evviva!
I numeri vanno sempre interpretati, come si sa. Ma comunque li si guardi, certi numeri rappresentano un traguardo sorprendente, come i cento numeri di una rivista dedicata alla poesia in particolare, e alla letteratura contemporanea in generale.
Il Novecento è stato il secolo delle riviste. Molte di esse hanno addirittura scandito le stagioni letterarie, formato generazioni di scrittori, alimentato internamente la cultura – ma anche portato dall’estero linfe vitali, creato traiettorie in verticale fra generazioni differenti, dato visibilità a voci sommerse. Alcune, pur folgoranti, si sono spente dopo pochi numeri. Altre, nella continuità garantita dal prestigio raggiunto e dal radicamento nei poteri editoriali, sono sopravvissute più volte a loro stesse. Imbalsamate, magari, come ancora ne vediamo.
La rivista Atelier raggiunge il traguardo del numero cento restando sotto il segno di un’anomalia ancora provocante. E’ nata quando ormai l’avvento del web doveva smentire la sensatezza di un’impresa ancora cartacea. Non si è mai legata ad alcuna sigla editoriale, né si è identificata in qualche conventicola, in qualche regione culturale, in qualche recinto ideologico: fattori che sarebbero stati pur garanzia di resistenza, per quanto all’interno di una nicchia. Si è contraddistinta per la libertà di giudizio e di indagine, permettendosi giudizi critici anche netti, che attualmente il sistema continua a rimuovere, ma che restano lì, nero su bianco, in attesa di tempi più lucidi e audaci nel trarre le somme. E’ stata levatrice di nuove generazioni, ma ha avuto sempre contemporaneamente uno sguardo rivolto anche alla rilettura del passato – perché ogni nuovo evento letterario è idealmente un’onda sismica che si ripercuote non solo “in avanti”, ma anche “all’indietro”. Come diceva Eliot, un nuovo poeta, una nuova poesia, in fondo innesca una rilettura (una re-interpretazione) anche di Omero.
Evviva Atelier, dunque. Io da tempo osservo dall’esterno questa “mia” creatura che continua il suo percorso. Per questo mi piace rilanciare qui, per intero, l’editoriale con cui Giuliano Ladolfi apre questo storico fascicolo.
Atelier n. 100
di Giuliano Ladolfi
Siamo arrivati al numero 100! Non mi sembra vero. Sono passati venticinque anni dall’aprile 1996, quando iniziammo la pubblicazione di «Atelier». Alla mente mi si affollano frotte di ricordi, a cominciare dall’incontro al liceo con un alunno di terza scientifico, Marco Merlin, e poi le riunioni mensili dell’Accademia “Amici della poesia”, il convegno sulla “Poesia e il sacro alla fine del Secondo Millennio” nel giugno del 1995 e la visita dello stesso Marco nell’autunno successivo: «È giunto il momento per realizzare il progetto della rivista». Era una proposta che non ammetteva repliche ed esitazioni. Ne avevamo parlato sui banchi di scuola, ne avevamo discusso per qualche anno, perché eravamo profondamente disgustati dall’andazzo neoavanguardistico, neosperimentalistico e da una critica unicamente strutturalista, che allora imperversava. Noi auspicavamo una poesia “a misura d’uomo”. Già, quando nel 1988 avevo trovato il coraggio di pubblicare il poemetto Paura di volare. I ragazzi dell’Ottantacinque, i cui protagonisti erano gli studenti, avevo posto come esergo un verso dantesco: «Ma qui la morta poesi’ resurga». E questo divenne il nostro progetto.
Ma dove mai potevano pensare di giungere un docente di liceo assolutamente sconosciuto e uno studente universitario, estranei a qualsiasi giro editoriale, giornalistico, massmediatico? Come organizzare una pubblicazione così impegnativa sotto il profilo aziendale, commerciale, pubblicistico e strutturale? Marco vi aveva riflettuto a lungo durante la permanenza a Milano, aveva studiato il mondo delle riviste; avevamo allargato il cerchio delle conoscenze, ma il lavoro che si presentava era immenso: organizzare un trimestrale di poesia, letteratura e critica.
Andrea, talentuoso grafico, mio ex alunno, ci aiutò a predisporre la copertina che dopo tre numeri assunse la struttura stabile della presentazione di un Capriccio di Goya, che poi, una volta esauriti, fu sostituito dai dipinti di Sophie Cauvin. Mi era capitato proprio qualche anno prima l’incarico di predisporre uno studio sulle ottanta tavole del pittore spagnolo. Altri amici ci aiutarono a trovare la migliore soluzione per la miriade di problemi e da una cameretta del settimo piano di corso Roma, 168, a Borgomanero (No), iniziammo un’avventura meravigliosa e incredibile.
Iniziammo con un entusiasmo indescrivibile: Marco Merlin, Paolo Bignoli, Riccardo Sappa, tutti giovanissimi, e il sottoscritto con il doppio dei loro anni, circondati da profonda stima e da grande aspettativa.
«Atelier» nacque da un sogno comune e da un profondo sentimento di amicizia… sì, di amicizia. Tutti e tre in circostanze diverse erano stati miei alunni, tutti e tre avevano condiviso l’amore per la poesia, tutti e tre avevano partecipato alle riunioni dell’Accademia “Amici della poesia”, attiva dal 1990, e alle altre iniziative; il nostro legame era ed è rimasto inossidabile. Non si trattava e non si tratta unicamente di una visione del modo di scrivere in versi, per noi coinvolgeva e coinvolge la vita. L’ideale di una poesia profondamente “incosata” nella realtà non è stata e non è soltanto un programma letterario, l’abbiamo vissuta e continuiamo a viverla ancora oggi. Questo è stato e questo è «Atelier».
Queste riflessioni mi sono affiorate nei mesi scorsi quando ho proposto ai collaboratori più stretti, che negli anni si sono alternati, di offrire un personale contributo alla stesura di questo numero. Ho interpellato poeti di diverse generazioni: dai “diversamente giovani” ai giovani, ai giovanissimi. Ho ricevuto risposte così entusiaste e così affettuose che mi hanno commosso. Persone, che non sentivo da più di dieci anni, hanno scritto parole di amicizia così coinvolgenti che mi hanno rafforzato nella convinzione che «Atelier» è stata un’esperienza fantastica non solo per i fondatori, ma anche per coloro che hanno collaborato e che continuano a collaborare. Mi sono reso conto che anche con loro si è stabilito un legame altrettanto solido. E questa è stata per me la testimonianza che lo spirito iniziale ha prodotto e sta producendo copiosi frutti.
Ripercorro con la mente alcuni momenti meravigliosi, come l’incontro con i poeti dell’Opera comune, i convegni a Borgomanero, a Firenze, a Stresa-Orta, la serata in birreria con John F. Deane e con Ernesto Cardenal, le riunioni di redazione in ufficio con successive conviviali in pizzeria, la condivisione di preoccupazioni e di problemi personali, la gioia per un matrimonio e per la nascita di un figlio, il successo di una pubblicazione o di una posizione di lavoro… Poi la vita ci ha condotti, come è naturale, su strade diverse. Le redazioni si sono alternate, ma lo spirito di «Atelier» non si è mai esaurito.
Quante vite! Quanti progetti! Quante sofferenze anche… come per Simone!
Non posso dimenticare il blog che Marco aprì alle soglie del Millennio e gli interventi della “badante rumena” di Mario Luzi. Ogni indagine fu vana e ancora oggi siamo all’oscuro di chi abbia promosso quelle riflessioni tanto acute quanto ironiche che meriterebbero una pubblicazione!
E poi gli incontri in tutte le parti d’Italia e all’estero, la collaborazione dei più qualificati autori e critici, l’apertura di «Atelier online» e di «Atelier International», che ci permette di diffondere il nostro progetto culturale in tutto il mondo! Quante persone straordinarie ho conosciuto grazie alla rivista! Senza accorgermene mi hanno accompagnato per mano in questo lungo arco della vita.
«Atelier» fu ed è più di un’opera comune, è un sogno, un orizzonte condiviso di esistenza e di valori, che comprende chi ne è stato e ne è protagonista. L’avvicendamento dei redattori – ringrazio in modo particolare i direttori editoriali Guido Mattia Gallerani, Matteo Fantuzzi e Giovanna Rosadini – si è sempre verificato su una linea di rinnovamento nella continuità del progetto iniziale: sono mutate soltanto le modalità di attuazione, non i princìpi fondamentali.
Il presente numero, pertanto, che presenta testimonianza di poeti nati in un arco di tempo che va dagli Anni Quaranta a poeti nati alle soglie del Duemila, intende non solo rivolgere un ringraziamento per la collaborazione a chi ha lavorato nella nostra “bottega artigianale” – compresi coloro che non scrivono versi –, ma soprattutto rinsaldare lo spirito di condivisione di ideali che, superando la sfera della poesia, si situano all’interno delle relazioni umane sostanziate di gentilezza, di amicizia, di affetto, di condivisione, di orizzonti esistenziali, di aiuto reciproco.
Questo rappresenta il più importante risultato del lungo lavoro della nostra rivista.
Grazie, cari amici, grazie!
E un abbraccio riconoscente
A leggere questo toccante e partecipato editoriale di Ladolfi – quale testimonianza di un amore direi sfrenato per la poesia – avverto un certo stridore con le Sue proposte di pubblicare libri di poesia a pagamento, no?
Massimiliano Marrani
A parte tutto un discorso specifico sulla vanity press, per cui pur sarebbe giusto distinguere tra chi ci lucra e chi offre un servizio, sì, questa è una delle discriminanti semplici che spiega il mio rifiuto di far parte della Casa editrice che poi Giuliano ha fondato