Generazioni

Poeti nel limbo (3). Una generazione di mezzo

Una generazione di mezzo

In queste pagine sono stati presi in considerazione, a parte rare eccezioni, poeti nati fra il 1952 e il 1965. Si tratta di estremi anagrafici non assoluti che si sono determinati cammin facendo, nell’intenzione di compattare il più possibile, ma in modo sensato, il campo d’azione.

Non so se gli autori inclusi appartengano a una generazione definibile, nonostante la relativa ristrettezza dell’arco cronologico individuato. È certo però che si tratta di poeti in qualche modo interposti fra due fronti riconoscibili: quella che Raboni ha rubricato sotto la formula di «generazione del ’68» [1] e quella degli autori nati negli anni Settanta, emersa perentoriamente attraverso una sequenza inusitata di pubblicazioni e di manifestazioni varie [2].

L’impressione, semmai, è di trovarsi di fronte a due lembi generazionali sovrapposti, almeno parzialmente. Ciò giustifica qualche esclusione altrimenti clamorosa. Ci si sarebbe potuti scandalizzare, per esempio, dell’assenza in questa sede di un autore dall’indiscutibile importanza, come Valerio Magrelli, che pure è del ’57, cioè coetaneo di Alessandro Ceni e Gabriele Frasca. Ogni data è un pretesto, si sa, e va presa con le dovute cautele. Il fatto è che Magrelli, al di là dell’anagrafe, appartiene di diritto alla «generazione del ’68», in virtù del suo esordio tanto precoce e all’immediata canonizzazione che ne è derivata. Si pensi all’inclusione nella Parola innamorata [3]. A livello editoriale, egli ha potuto beneficiare del cosiddetto “boom della poesia”, che ha promosso una serie cospicua di autori, i quali hanno saltato quel periodo di apprendistato, che solitamente si esercita sulle riviste, nella trama dell’editoria minore, nelle opportunità di confronto e di progettazione giovanile che rappresentano il primo banco di prova per la critica stessa.

Così, in linea di principio, ci si è attenuti a questa regola: di fronte a casi incerti, sulla base dell’indicazione anagrafica, si sono deliberatamente esclusi da queste pagine i poeti inseriti nelle rassegne più importanti, quelli, insomma, includibili in quel «piccolo canone» lumeggiato da Berardinelli. Non avrebbe avuto senso accostare voci così accertate all’interno della poesia contemporanea, come possono essere quelle di Milo De Angelis o Gianni D’Elia o Patrizia Valduga, con quelle chiamate a verifica in questa sede. Del resto, in un saggio fondamentale dal titolo Una generazione di anarchici e autolesionisti, è stato proprio Cesare Viviani, poeta centrale per la sua generazione anche per le esperienze di confronto di cui si era fatto a suo tempo promotore (ricordiamo i convegni organizzati presso il club Turati a Milano), ad annettere nella schiera dei suoi “coetanei” Santagostini, Mussapi e gli stessi D’Elia, Magrelli e Valduga, in una sorta di ideale appendice [4].

Stiamo maneggiando, parlando di generazioni, problematiche francamente aperte, nostro malgrado, alla sociologia. Avendo accennato più volte a una soluzione di continuità nella tradizione letteraria[5], non sarà inutile annotare come lo stesso Viviani ammetta, nell’intervento di cui sopra, una sorta di «carenza di vocazione alla paternità» condivisa con i coetanei (estremo sintomo di una propensione all’autonomia, che ha altresì permesso due meriti generazionali, secondo la sua stessa testimonianza: quello di una ricchezza di talenti straordinari, addirittura senza paragoni nel Novecento, e quella di aver impresso il maggiore impulso di rinnovamento alla poesia). Non basta: poco oltre, in un altro saggio, egli rivendica il merito, sempre per la sua generazione, di non aver permesso la costituzione di un canone[6]. Si tratta, è palese, di una lettura alternativa del nodo individuato da Berardinelli.

Accostiamo a proposito alcuni interessanti pronunciamenti di Giovanardi:

Il ’77 è stato l’anno in cui ha preso forma forse definitiva una nuova generazione poetica. È un annuncio cui si è obbligati dai fatti. Ciò non toglie che esso contenga un duplice rischio: da una parte quello di attribuire una fisionomia in qualche modo delineata a materiali che probabilmente trarrebbero giovamento dal restare informi ancora per un po’; dall’altra la necessariamente approssimativa incontinenza del termine «generazione». Di norma le generazioni più fertili sono state quelle che non si sono riconosciute come tali; in quanto sfuggente e artificiale, la «generazione» è un territorio cui si appartiene solo a patto che lo si inventi: che si inventi una solidarietà anagrafica più stretta di ogni affinità culturale, ideologica o semplicemente elettiva; e che ci si senta quindi parte di un gruppo inesistente, la cui parvenza permane solo in virtù della tacita complicità di tutti i membri. Perché l’inganno vada ad effetto, d’altronde, è necessario che operino delle motivazioni collettive, delle rimozioni simultanee. Ed è proprio questo il nodo da sciogliere, visto che effettivamente e realmente di fronte a una generazione ci troviamo. È indubbio: i «poeti giovani» che nell’ultimo triennio hanno dato notizia di sé (da De Angelis a Cordelli, da Viviani a Conte, da Orengo a Coviello, da Manacorda a Scalise, da Kemeny a Lumelli a Scartaghiande e tanti altri) sono tutti quanti poeti dell’anno Nove (era post-’68). Ciò significa che tutti nascono non dalla fine di un mito, ma da quanto viene dopo la fine di un mito: non dalla nascosta speranza che si possa ricominciare, ma dalla certezza che ricominciare, oltre ad essere impossibile, è anche e soprattutto inutile[7]

Insomma, la generazione del ’68 evidenziava, fin dal suo nascere, un profilo ambiguo, quasi presiedesse alla sua fondazione uno sfondo consapevolmente utopico, un atto fittizio, politico se vogliamo, con cui opporre resistenza a un clima già “postumo”:

In definitiva, il bagaglio mitologico dei poeti dell’anno Nove è abbastanza esiguo se lo si rapporta alle trionfanti parate anche di pochi anni fa. Il solo mito unificante è la ripercussione di se stessi (delle proprie pratiche, dello sperimentato boomerang delle linee di fuga) in una pluralità evanescente e incerta, che dia comunque l’impressione della possibilità di un’aggregazione. La «generazione» si nutre di sé, cancella i rischi, sopporta vecchi e nuovi feticci. Ma la presenza vuota del Testo e della «vita» dovrà essere, in qualche modo, scontata fino in fondo. [8]

Questo spiega le ragioni per cui i poeti nati fra il ’52 e il ’65 abbiano spesso rifiutato una visione generazionale. Si potrebbe asserire che non solo essi non hanno avvertito l’esigenza di una ripartizione anagrafica, ai loro occhi equivoca, per favorire l’accostamento alla loro produzione, a vantaggio di altre chiavi interpretative, ma hanno deliberatamente preso le distanze da tutto il contesto storico che li ha preceduti, con relativo caos politico: essi hanno registrato con lucidità la perdita di fiducia nelle pratiche sociali, con la connessa fuga nostalgica di matrice orfica o estetizzante che ha caratterizzato gli anni Ottanta, hanno «scontato fino in fondo» la perdita di senso della vita preannunciata da Giovanardi. Rigettare del tutto o per lo meno mantenere un alto grado di scetticismo nei confronti di quelle forme di aggregazione di cui si era abusato nelle esperienze artistiche e politiche del decennio precedente, in particolare dal Movimento ’77, e anteporre la propria individualità stilistica a ogni forzata riduzione corporativa è stato, dunque, un moto storicamente inevitabile e in gran parte salutare.

Ciò però ha determinato il rovescio della medaglia: all’opposto degli autori che li hanno preceduti, questi poeti sono rimasti imprigionati in una sorta di gavetta interminabile, costretti a fregiarsi ancora oggi dell’etichetta di “giovani” o “emergenti”, impaniati fra riviste e circuiti editoriali provinciali o poco più, incapaci di incrociare i percorsi alzando la temperatura del confronto fin tanto da innescare un circuito che alimentasse la critica stessa. Mancando, in questa generazione perduta, persino la percezione di sé stessa, non si è neppure prodotto un confronto con la generazione della protesta. Assestati su una blanda accondiscendenza (un’invidia latente?) per i “fratelli maggiori” (a fatica, infatti, si possono rintracciare letture forti su di essi), in campo letterario questi poeti si sono trovati, come si è detto, tutti gli spazi occupati: l’omertà della critica e la staticità degli operatori culturali, nella separazione ormai consumata tra Accademia e Militanza, ha fatto il resto.

Il colpo di grazia, però, inferto ai quarantenni e cinquantenni di oggi, ci riporta finalmente in territori squisitamente letterari: come avrebbero potuto, essi, “attaccare”, dal fronte improbabile di una divaricazione generazionale, autori di libri dal valore assoluto come Il disperso di Maurizio Cucchi, Somiglianze di Milo De Angelis, Ora serrata retinae di Valerio Magrelli o L’opera lasciata sola di Cesare Viviani? Questi poeti (e pochi altri) sono risultati in varia misura dei veri maestri per gran parte di loro, a cominciare dalle opere citate, considerate subito canoniche anche dai “grandi padri” della poesia novecentesca (Raboni, Giudici, Luzi, Porta, Bigongiari ecc.).

(L’opera scelta come copertina è di Maristella Angeli.
Cliccare sull’immagine per la visualizzazione completa)

NOTE

[1] Giovanni Raboni, Poeti del secondo Novecento, in Storia della Letteratura Italiana, nuova ed. accresciuta e aggiornata diretta da Natalino Sapegno, vol. IX: Il Novecento, t. 2, Milano, Garzanti 1987, pp. 207-248.

[2] Ricordiamo, tralasciando i volumi non esclusivamente dedicati a questa generazione, L’opera comune. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, a cura di Giuliano Ladolfi, Borgomanero, Atelier 1999; I poeti di vent’anni, a cura di Mario Santagostini, Brunello, Stampa 2000; I cercatori d’oro. Sei poeti scelti, a cura di Davide Rondoni, Forlì, La Nuova Agape 2000; Dieci poeti italiani, a cura di Maurizio Clementi, Bologna, Pendragon 2002; Aa. Vv., Quattro poeti, Milano, Ares 2003; Lavori di scavo. Antologia di poeti nati negli Anni Settanta, a cura di Giuliano Ladolfi (disponibile on-line all’indirizzo http://www.railibro.rai.it/pdf/antologiapoesiaitaliana.pdf). A tali crestomazie andrà aggiunto un numero speciale di «Nuovi Argomenti» attualmente in preparazione, mentre La responsabilità della poesia è il titolo di un’uscita della rivista «Atelier» (VI, 24, dic. 2001) che contiene gli atti di un convegno svoltosi a Borgomanero e a Orta il 15 e il 16 settembre 2001. È giunto inoltre alla seconda edizione il festival «Parco poesia» di Riccione ideato e curato da Isabella Leardini (http://www.parcopoesia.it).

[3] La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-1978, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Milano, Feltrinelli 1978.

[4] Il saggio si trova ora in Cesare Viviani, La voce inimitabile. Poesia e poetica del Secondo Novecento, Genova, Il Melangolo 2004, pp. 57-61.

[5] Cfr. Marco Merlin, L’anello smarrito della tradizione (sulla poesia italiana degli ultimi decenni), in Sentieri poetici del Novecento, a cura di Giuliano Ladolfi, Novara, Interlinea 2000, pp. 115-123, poi ripreso in Marco Merlin, L’anello che non tiene. Poeti di fine Novecento, Borgomanero, Atelier 2003.

[6] Cesare Viviani, La voce inimitabile, op. cit., p. 133 (il saggio si intitola Pericoli di fine secolo).

[7] Stefano Giovanardi, I poeti dell’anno Nove, in Il movimento della poesia italiana negli anni Settanta, a cura di Tomaso Kemeny e Cesare Viviani, Bari, Dedalo libri 1979, pp. 233-234.

[8] Ivi, p. 243.

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