Poeti contemporanei: Gabriele Frasca
(La fotografia in copertina è di Dino Ignani.
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L’esempio massimo della contiguità fra tendenza neometrica e sperimentalismo è, però, il talentuoso Gabriele Frasca. I titoli delle sue raccolte poetiche (è anche autore di saggi e di romanzi, l’ultimo dei quali, Santa Mira, andrebbe confrontato proficuamente con la sua ricerca in versi: ci limitiamo a rinviare allo scritto di Paolo Giovannetti apparso su Tirature ’03) sono altamente significativi: Rame, Lime e Rive ben esemplificano il procedimento combinatorio (ma gli esempi sarebbero molteplici: non si perda nell’ultimo libro la parola che chiude la sezione rimavi, «rimi», che si riverbera nel titolo della sezione successiva, rivi, la quale si apre con la parola «rivà»…) che insieme al furore sintattico (per riprendere la formula adottata dallo stesso autore in un celebrato studio sulla sestina) sta alla base della sua opera: pare di assistere a una lucreziana caduta di atomi-sillabe che, dentro l’ordigno universale della gabbia metrica, proliferano caoticamente.
Tanto a livello macrostrutturale quanto a livello testuale, i congegni del poeta si palesano come spettacolosi caleidoscopi, barocche rappresentazioni del nulla. Se i limiti della composizione risultano ineludibili e talvolta freddamente perfetti, la frantumazione sintattica e la moltiplicazione ritmica al loro interno li conducono a una sorta di implosione: tant’è vero che il primo effetto sul lettore è un urto percettivo (stroboscopico, allucinante, psicotropo), un’interferenza che irrita e attraverso un eccesso di rumore allontana ed esorcizza il “contenuto”, lasciandolo in preda al dubbio di trovarsi di fronte alla sua terrorizzante estrapolazione ed esibizione mortuaria «nel nitore del niente dei miei versi» (come di fronte a una reliquia, sempre sotto la luce spiazzante di un assurdo beckettiano).
Anche in Frasca ritroviamo l’armamentario pop, ma qui veramente distillato entro una letterarietà sostanziale, basica. Anche le marche di una ricerca sperimentale, come il ricorso imperterrito alle minuscole oppure l’eliminazione della punteggiatura, spesso sostituita da un punto ossessivo, che spezza il dettato fino a un ritmo sillabato, si ricontestualizzano a partire da tale letterarietà. Per esempio, l’uso dei punti, più che ricordare soluzioni analoghe adottate da altri (vengono in mente le barre oblique di Fabrizio Lombardo), suscita l’idea di antichi canzonieri: ciò è dovuto al fatto che il meccanismo di scivolamenti fonici sortisce (per allitterazione, paronomasia, cacofonia, rima, etimologia e quant’altro), anziché un senso di moto in avanti, inventivo, un effetto di fissità e di nitore, come se, malgrado il dantismo esibito (soprattutto per le rime difficili), Frasca tendesse a petrarchizzare il proprio repertorio: un confronto con la lingua più varia di Sanguineti, qui in certo senso azzerata, standardizzata, sarà in tal senso proficuo. Procedere per cellule ritmiche che frantumano dall’interno la forma chiusa diventa a tratti un escamotage per evitare i rischi della sintassi spiegata: al posto di zeppe o pose un po’ forzate, troviamo l’alibi della mimesi caotica del discorso interno o esterno, di una voce insomma teatralizzata anche nel suo procedere contraddittorio, nevrotico, ripetitivo. Invece che guadagnare terreno, si acquista misura nella stasi, nello scattare perpetuo di una tagliola che ingloba materia riducendola a elemento indifferenziato. Il passaggio dal flusso di coscienza di joyciana memoria al flusso percettivo non è indolore, implica un’ulteriore parcellizzazione temporale, con esiti di stordimento e di afasia pari almeno a quelli suasivi.
Vero è che dal primo al secondo libro einaudiano si assiste a uno sviluppo significativo. Le piattaforme metriche di Lime, che non disdegnavano forme popolari (la villanella, lo strambotto) oltre a quelle più nobili (fino al virtuosismo di quella che si può definire, memori di Zanzotto e del suo lavoro sul sonetto, una ipersestina) e restavano spesso vincolate alla misura del frammento, soprattutto quando per la propensione alla sentenziosità che emerge nelle riscritture di Beckett (che a sua volta rileggeva Chamfort), cedono spazio in Rive a inserzioni massicce di prosa (sempre nell’ottica desublimante del poeta sperimentale) e a strutture più ampie e innovative, a tratti poematiche.
Non basta, anzi, ancor più significativa è probabilmente l’emersione in Rive di un personaggio-io. Non siamo, ovviamente, al recupero di una dimensione lirica, ma il protagonista che si inscena nel contesto di una vita domestica inautentica, circondato da elettrodomestici e altre protesi tecnologiche che amplificano il rumore di fondo della società e mantengono desta l’illusione di una vita per lo meno virtuale, del tutto assorbita dalle radiazioni dello schermo verso cui ci si espone, invitano a un confronto con la poesia, formalmente ben diversa (ma non priva di uno spiccato gusto calligrafico), di Magrelli. L’io di Rive è, come nel poeta coetaneo, un segno, ridotto a oggetto tra oggetti, vivo artificiosamente perché senziente e consapevole della propria condizione ormai quasi post-umana. Assai indicativi risultano in tale prospettiva i titoli della sezione fenomeni in fiera (i transtelegenici): si passa da l’uomo-tubo a il ragazzo-pietra, da la ragazza-copertina a il ragazzo stadio ecc.
È possibile che lo sviluppo presente tra la seconda e la terza raccolta segnali l’intento di alzare il tenore del discorso, finora unanimemente avvertito come troppo algido (dato che tuttavia, secondo Verdino, lo differenziava dagli autori più esplicitamente postmoderni nel loro recupero di forme chiuse e repertori tradizionali): in quest’ottica non è irrilevante ricordare che qualcuno ha percepito in Rive persino la presenza di accenti pasoliniani. Ma l’attacco del libro («uno finisce che si sveglia un giorno / e dice ma che cazzo ci sto a fare») è sufficiente per rendere la temperatura di un dettato che ora non disdegna di farsi immediato fino alla banalità, alla sciatteria, all’incontinenza, in una sorta di colata di luoghi comuni che si snoda lungo i paletti fissati dalle rime (spesso, però, facili). Al lettore adesso è proposta, con dotta noncuranza, la pellicola di un senso percepibile, slittante sulle concatenazioni foniche predisposte: «vedi. credi / che ti sia chiaro il senso. appena poggi / lo sguardo senti i suoni. come eredi / almeno di parole a tutto fiato». Inevitabile dover arzigogolare ironicamente per dissimulare, concettualizzare, sliricizzare: «no. del grave / brusio che ti rimangi non c’è nulla / che mi dica. o che tenga la tua chiave / d’accesso nel remoto. non è sulla / pagina o dentro gli occhi. di me basta / niente. di te altrettanto». Siamo ancora al gioco di rispecchiamenti nel vuoto, al tentativo di rendere un contenuto l’assenza di contenuto: «a cosa mai / ti servirebbe seguitarmi i passi. / sapere di sapere che saprai / del mio sapore».
Va ribadito, tuttavia, che l’esercizio metrico non passa affatto in secondo piano. Le sezioni si impostano, come d’abitudine, secondo lo schema strutturale di volta in volta adottato (sempre sotto il segno di un eclettismo sperimentale), talvolta ricollegandosi a quelle dei volumi precedenti (i sonetti di rimavi riportano a quelli inclusi sotto la sigla, ambivalente, di rimasti, in Lime e, ancor più a ritroso, con la sezione rimerai della raccolta Rame); così troviamo capitoli raccolti alla luce di un semplice numero e sezioni in cui si cerca un cortocircuito fra inglese e italiano e così via.
Non si smentisce, insomma, la natura performativa della ricerca di Frasca: i suoi sono, in definitiva, altissimi esercizi formali, che per accogliere una lingua di maggiore ampiezza (pare che «cazzo» sia ormai tra i lessemi privilegiati), sono ormai in grado di toccare molteplici registri (fino al Kitch di svariate sequenze: «si gratta le cosce va nel cesso / lo specchio gli ripete ci hai lo stesso / corpo di sempre sebbene per meglio / mentire il ventre in dentro abbia nascosto / tenendo il fiato per sentirsi a posto / poi contento del falso del riflesso / si fa un caffè lo beve e pensa sveglio / sono davvero sveglio o non è un segno / che continuo a dormire questo gusto / strano che provo ad ogni sorso in basso / fra le viscere e il cazzo»), ma non di risolvere il dilemma cruciale: come può tale mimesi artificiosa pretendere di riscattarsi dal brusio di fondo che ci riduce ad automi che si muovono nel vuoto?
(da Poeti nel limbo)
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