Poeti contemporanei: Franco Marcoaldi
Recensendo Amore non Amore, «terzo libro di poesia in cinque anni», Bacigalupo afferma che «all’interno del discorso minimo tutto è detto. La parola è usata come rispondendo al telefono quando si è occupati, o appunto scrivendo in una materia refrattaria. […] Beato Marcoaldi, che è capace di questi tagli netti, nella vita e nella poesia». Rovesciando il giudizio del critico-traduttore o smascherandone le allusioni, parleremo di un’impressione di frenesia o di applicabilità manieristica della scrittura, come se ci si trovasse di fronte alla compiuta manifestazione di una delle possibili degenarazioni del codice caproniano e tardo-montaliano (trascuriamo, ovviamente, altri riferimenti possibili, dai poeti classici della latinità a Philip Larkin), tutto giocato su un’esausta ironia novecentesca e sul gusto della boutade.
Il divertimento, e sia pure nel senso più serio e profondo del termine, sembra essere indicato come movente essenziale di A mosca cieca. L’unico, amaro compimento della parola è la corrosione di qualsiasi ragione nella sua moralistica pretesa di spiegare e “poetizzare” l’esistenza. La vita è un gioco che va affrontato senza indulgere in sofismi, perché «anche sul più alto trono della terra non siamo seduti che sul nostro culo», recita l’aforisma di Montaigne all’ingresso della raccolta. La premessa di tale drastica illuminazione si suppone l’inevitabile delusione della maturità, quando si svela il dolore disadorno e ottuso del mondo; il risultato è invece una scrittura fatta di scivolamenti, scatti, periodi concisi e scorrevoli. Il verso viene manipolato con gusto quasi sperimentale, senza proiettare in esso valori letterari, eseguendo la melodia leggera e arguta di uno spartito lessicale fitto di rilanci improvvisi, dettati da istantanee associazioni foniche, condite talvolta da risentiti diminutivi di ascendenza crepuscolare, atti molto spesso ad attivare il risvolto moralistico, o meglio moraleggiante, dell’indagine poetica (la quale, essendo improntata sulla chiave dell’ironia, svuota ogni possibile morale nel momento stesso del suo apparire): «Calan le onde e il cielo / si fa a gronde, il babbo affondato / dentro al piatto non si commuove più / neanche per la fettuccina, figurarsi / il tailleur nuovo della mogliettina». Il vantaggio ipotetico di questa maniera è l’estrema prensilità sul reale ovvero la sua stessa questione di fondo: soltanto tramite la parodia è possibile raccogliere dal magma della vita e della società? La sola ironia credibile alimenta sotterraneamente il senso del tragico (l’ironia che in fine si nega), ma qui sembrano mettersi in scena una serie di figure solo con senso della commedia (ironia pronta a riproporsi, rialzato il sipario). Con tutto ciò non si passa sotto silenzio la vivezza di certe immagini, l’affondo di taluni scatti gnomici, la gradevole leggerezza delle movenze più ispirate. Ma da una poesia all’altra non si aprono dimensioni di tempo, non c’è lo spazio che inviti il lettore a sostare e oltrepassare l’immagine. La memorabilità si riduce a immediatezza visiva ed epigrammatica e alle torsioni umorali dell’ironia: «Tacere, tacerò, tacete, taccia! / Ma è dunque tutto qui il frutto / della mia fatica? Amico, è tutto qui. / È tutta qui la pena. Batti le mani e canta, / vedrai che come sempre si gonfierà la vena»; «quanto / ho verificato, è che un rancore / e una femmina, una birra / e una preghiera, non fanno / una vita. Fanno soltanto sera». L’impronta caproniana a tratti diventa eccessiva fino a ridurre il componimento a imitazione: si veda la sequenza dei due testi attigui Partenza e Arrivo: «Le valigie son pronte, i denti / lavati. Ma non bussa nessuno, / son tutti scappati»; «– Verremo lì con sindaco, banda / d’ottoni e fiori. / (Sarà già molto se trovo un taxi / fuori)»; ma si potrebbe additare anche il cacciatore di Marcoaldi, pure intento ai propri tormenti interiori. Evidentemente, mancano qui la portata metafisica e la cogenza di immagini del livornese, né sarebbe sostenibile un confronto meramente formale e tecnico.
La scelta poematica del successivo Celibi al limbo potrebbe indurre a credere a un approfondimento del modello, eppure, forse per la coscienza di un ruolo inevitabilmente d’epigone, il poeta aumenta la spinta sui registri crepuscolari, e sentitamente gozzaniani, per controbilanciare l’influsso caproniano. Al vuoto in cui brancolava la voce di A mosca cieca subentra un impianto narrativo e riflessivo a costruire una sorta di percorso di formazione, scoprendo una certa parentela con il lavoro di Paolo Ruffilli. Il pretesto iniziale è definito da una situazione banale: il poeta si rivede fanciullo, accompagnato dalla «tata» ai giardinetti, e scopre la varietà del mondo e la propria unicità: «E allora anch’io dovrò pur dire / la mia di verità. Non ci capisco / più un bel nulla. Certo è finita l’era / della tana d’Armonia: domenicale / bagno caldo, comunione e via…». Seguendo l’istrionico divagare fra i ricordi si tratteggia la storia di «Camaleonte il Malcontento», alter ego del poeta, fino al chiudersi della fabula sulla voce di «Fifì, Fifì… mia guida, padre, sposa…», nuova balia che fa calare il sipario: «Sta’ buono, su. Riposa».
Con Amore non Amore, «un canzoniere portatile […] capace di essere al contempo romantico e ironico, ardente e lucido, tenero e sarcastico», come recita la bandella, tutta la tradizione lirica si presta a una divertita educazione sentimentale, dove i personaggi di Amore, Eros, Lui, Lei, i tabù sociali ecc. movimentano goliardiche scenette, in una sorta di commedia all’italiana che esalta e deride gli appetiti sessuali dell’individuo e le fantomatiche “pene d’amore”. Le rime semplici, sempre più incalzanti e indispensabili a sancire la chiusa a effetto, lasciano poco spazio a squarci malinconici in cui il tema sembra proporsi seriamente (meglio allora leggersi Il vergine, godibile romanzo a più livelli di lettura).
L’isola celeste infine esibisce varietà di timbri e amplia figure e temi, facendo convivere comico e tragico, grottesco e ridicolo, ma senza mutare nella sostanza quanto fin qui annotato: «Io non sono il Dalai Lama, / sono più modestamente un lama: / io non parlo… sputo». E tutto ciò pare decisamente troppo poco per chi, con un libro di splendidi ritratti quale era Voci rubate lasciava sperare in ben altra profondità di pensiero e intensità di scrittura.
(da Poeti nel limbo)
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