La restaurazione impossibile

Immaginate di camminare per Milano e di imbattervi all’improvviso in uomo vestito in maniera sei-settecentesca, che ne so, con ventaglio parrucca gorgiera e quant’altro. Dopo aver rapidamente verificato che non si tratta di un’allucinazione né di un fantasma, ipotizzerete immediatamente l’organizzazione di una festa, di un ritrovo a tema, di uno spettacolo da strada, di un servizio pubblicitario o di qualche altra carnevalata. Non potreste certamente prendere sul serio quell’individuo, qualunque cosa abbia eventualmente da dirvi.

Eppure, ogni tanto mi capita di ricevere delle poesie scritte seriamente in una lingua improponibile: classicistica, certamente non classica, dove si estolle, si percepisce uno spiro in mezzo a qualche dama, o meglio ancora virginee dormienti che appena sveglie volgonsi per farsi mirare dal veron: deh, non le portereste anche voi un fior?

Di fronte a tale improponibile anacronismo, la prima risposta sensata sarebbe un invito, semplicemente, a guardarsi intorno, a prendere consapevolezza del contesto. C’è stato un novecento di stravolgimenti artistici di cui rendersi conto. Il che, ovviamente, non vuole affatto riproporre una visione in cui il classicismo si contrappone al romanticismo o all’avanguardia, oppure ottusamente credere di vivere in armonia con il proprio tempo, e di giustificarlo in una visione storicistica.

Ci sono poi principi del classicismo che si possono dare per lo più per scontati: il fatto per esempio di riconoscere dei modelli che, si voglia o no, si attivano nel processo creativo (e che quindi, più o meno consapevolmente, emuliamo); oppure il senso di appartenenza a una tradizione infinitamente più vasta del nostro piccolo punto di vista; o ancora la maestria tecnica necessaria per raggiungere una personale forma di naturalezza di secondo grado…

Stiamo a un esempio scolastico: pensiamo a Manzoni. Nella sua introduzione ai Promessi sposi finge il ritrovamento di un manoscritto secentesco, e ne riproduce lo stile. Con quell’abile mossa dimostra la consapevolezza della dimensione temporale della lingua: e infatti getta una luce sottile, di ironia profonda, anche sulla sua stessa scrittura. Se l’autore del manoscritto è risibile, anche ciò che egli annota non può aver la pretesa di risultare assoluto: deve accettare di invecchiare, di ricadere sotto la stessa ironia che tocca all’anonimo. Questo, però, rende Manzoni (almeno il narratore) ancora sorgivo, moderno: vivo e attuale perché presente al suo tempo, col giusto disincanto e la grandezza del genio, per cui in quell’essere contemporaneo non c’è appiattimento: è già oltre, pre-sente ciò che verrà. Provate a rileggere il brano in cui Renzo è ubriaco all’osteria: Manzoni non può andare oltre a certi limiti della sua epoca (e della sua visione del mondo), ma ci fa chiaramente capire che lui sogna quella lingua sgrammaticata e volgare che starebbe bene in bocca al suo personaggio in quel momento, e che in effetti un autore del secolo successivo non esiterebbe a trascrivere… Il bello, a pensarci, è che se lui fosse stato, più che innovatore, un rivoluzionario, e avesse scritto già in una lingua novecentesca, il suo romanzo avrebbe stonato, sarebbe risultato anacronistico, non credibile, eccessivo. Per la sua epoca, naturalmente. Ma, per quanto la letteratura e l’arte siano, a quel che mi è dato sapere, ancora l’unico modo per viaggiare nel tempo, alla fine un autore deve parlare da lì, da quelle coordinate spaziotemporali in cui metterà alla prova il proprio talento. Anche se si tratta di un autore innovativo, che sperimenta, che tenta un passo oltre – ma un passo, appunto, non dieci.

(Un autore troppo avanti, troppo rivoluzionario, rischia di uscire dalla storia, di perdere il proprio punto di aggancio con la tradizione? Quanti rivoluzionari abbiamo tenuto al margine del nostro canone e non siamo più in grado di restituire loro il ruolo di un “classico”?).

Ma tutto questo ragionamento non sarebbe altro che lo sviluppo di quella prima risposta sensata che spontaneamente si darebbe in simili casi.

In questi giorni, però, dopo aver appunto ricevuto nuovi versi di tal natura, mi è venuto di pensare anche ad altro.

  • Anzitutto, mi è parso chiaro che è questa postura anacronistica a postulare la divisione (insensata) tra forma e contenuto. Voi prestereste fiducia a quel fantomatico anonimo secentesco che vagasse per Milano? Il fatto è che quell’uomo sarebbe già, al suo stesso apparire, la comunicazione di sé stesso, per quanto lui pretenda invece di comunicare altro da sé. Tutto ciò che uscirebbe dalla sua bocca, se non giustificasse o impostasse la finzione del suo stile, non potrebbe insomma essere preso sul serio.
  • Inoltre, ho pensato paradossalmente che questo vivere fuori tempo fosse un perfetto segno dei tempi. Viviamo nel postmoderno, quell’epoca in cui è possibile la coabitazione (confusa) di più epoche.
  • In tale prospettiva, si potrebbe anche affermare che un classicismo così sfacciato sia anche un sintomo. Forse quei principi fondamentali del classicismo che si danno per scontati, scontati alla fine non sono affatto; da qui la necessità di riscoprirli, anche per garantire una maggiore riconoscibilità alla poesia, ormai soffocata nella babele dei linguaggi contemporanei e impolpettata con la canzone, la pubblicità, il cabaret… Non nascono da questa esigenza tanti movimenti di improvvisa restaurazione formale, che fanno da contrappunto agli scatti avanguardistici del Novecento?
  • Infine, l’aspetto più sottile e inquietante: forse c’è un nucleo ideologico, insito in ogni classicismo anacronistico, che diventa un blocco gnoseologico. Può assumere seriamente una postura anacronisticamente classicista solo chi ha la pretesa di dominare idealmente il mondo, di averne chiara la forma (per quanto problematica), di sottrarsi al suo tempo per guardarlo dal di fuori. Ma, anche e soprattutto in questo caso, viene da tornare al punto di partenza. C’è un Novecento di controversie di cui farsi carico. Il passato ha davvero tanto da insegnarci, e il primo insegnamento che ci lascia è sempre un richiamo all’umiltà di un atteggiamento aperto, critico, vigile e sperimentale.

 

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